Hanno vinto gli Stati uniti o Cuba?

Gianni Minà http://ilmanifesto.info

* Que­sta ana­lisi verrà pub­bli­cata nel pros­simo numero di Lati­noA­me­rica in libre­ria il 27 aprile prossimo

Gianni_MinaSono tra­mon­tate le ideo­lo­gie ma la Revo­lu­cion è sem­pre lì.

Evi­den­te­mente tutte le ana­lisi erano state sbagliate.

Alla fine, dopo ben 55 anni, gli Stati Uniti si sono dovuti arren­dere e accet­tare, appa­ren­te­mente, che Cuba sce­gliesse da sola il pro­prio destino. La nostra infor­ma­zione, ingua­ri­bil­mente prona di fronte agli inte­ressi del governo di Washing­ton, ha subito ten­tato mal­de­stra­mente di affer­mare che aveva vinto la lun­gi­mi­ranza di Obama.

Dimen­ti­can­dosi di aggiun­gere che, a parte lo scam­bio di alcuni agenti dei ser­vizi segreti dei due paesi, un paio di strette di mano per sod­di­sfare i media, ci sono voluti 5 mesi per­ché Obama e Raul Castro final­mente si incon­tras­sero e inco­min­cias­sero a con­fron­tarsi. Sono molti a pen­sare che l’itinerario sarà lungo e acci­den­tato, spe­cie con­si­de­rando che le pros­sime ele­zioni nor­da­me­ri­cane, secondo molti, le vin­ce­ranno i repubblicani.

Certo nes­suno pen­sava che alla fine Cuba avrebbe otte­nuto quello che più ane­lava, vale a dire la libe­ra­zione degli ultimi tre dei cin­que agenti della pro­pria intel­li­gence capaci di sma­sche­rare il ter­ro­ri­smo orga­niz­zato in Flo­rida e messo in atto a Cuba e che nell’arco di 35 anni aveva cau­sato più di tre­mila morti.

Ma gli Stati Uniti ave­vano l’interesse sovrano di far rila­sciare, dopo 6 anni di galera a L’Avana, Alan Gross che uffi­cial­mente era andato a Cuba per rifor­nire di appa­rec­chia­ture tec­no­lo­gi­che, la comu­nità ebraica, anche se que­sta comu­nità ha affer­mato che non aveva mai richie­sto le sud­dette attrez­za­ture a nessuno.

La moglie di Gross alla fine aveva tirato un sasso nello sta­gno facendo pre­sente che, se Alan fosse rima­sto intrap­po­lato a Cuba sarebbe stato costretto a rive­lare qual­cosa di stra­te­gi­ca­mente non con­ve­niente per gli USA. Sem­bra la sequenza di un film di 007, ma è solo la resa, per ora, di fronte a una logica che ha por­tato Cuba ad avere tutto un con­ti­nente che la sostiene e Obama, il Pre­si­dente nor­da­me­ri­cano, a dover dichia­rare con one­stà intel­let­tuale: “Abbiamo fallito”.

In verità il Pre­si­dente degli Stati Uniti già da tempo si era accorto che certi atteg­gia­menti della poli­tica estera nor­da­me­ri­cana erano per­denti e non solo in Ucraina o in Siria o quando ave­vano aval­lato l’azzardata stra­te­gia riguardo alla Libia. Una stra­te­gia che aveva por­tato all’eccidio di Ghed­dafi, ma anche all’assassinio dell’ambasciatore nor­da­me­ri­cano in quel ter­ri­to­rio. Così quando Obama, con molta sin­ce­rità, aveva dichia­rato: “Non sono inte­res­sato a guerre nate prima di me” si era capito che forse stava per finire la poli­tica di inge­renza USA nel con­ti­nente, spe­cie in una nazione che ancora non rie­sce ad affer­mare com­ple­ta­mente i diritti dei neri e degli ispani.

Oltre­tutto, finora, è fal­lito anche il ten­ta­tivo di levarsi rapi­da­mente dai piedi Maduro, il suc­ces­sore di Chá­vez in Vene­zuela, spe­cie dopo che tutta l’Organizzazione degli Stati Ame­ri­cani aveva riba­dito che non c’era nes­sun motivo per inter­ve­nire sul governo di Caracas.

Il primo Pre­si­dente nero degli Stati Uniti, anni fa aveva dichia­rato “i 70mila medici cubani all’opera nei paesi più poveri del mondo hanno pre­valso su qual­siasi altra stra­te­gia da noi pro­vata”.
Evi­den­te­mente pur avendo accet­tato, tri­ste­mente, di iscri­vere Cuba e il Vene­zuela come “paesi cana­glia”, cioè ter­ro­ri­sti, su pres­sione dei grandi elet­tori della Flo­rida, Obama si era reso conto che non si poteva con­ti­nuare ad anga­riare un paese solo per­ché aveva scelto un sistema poli­tico non gra­dito agli Stati Uniti.

Que­sto non signi­fica, però, che certi atteg­gia­menti non tor­ne­ranno d’attualità.

La poli­tica è spesso cinica e basta ricor­dare la frase del Pre­si­dente George Bush senior per essere scet­tici sul futuro: “Non mi met­terò mai a un tavolo per discu­tere il livello di vita pre­teso dai cit­ta­dini degli Stati Uniti”.
La logica delle grandi nazioni è sem­pre la stessa, ma certe volte la situa­zione ti impone di mode­rare i ter­mini, per que­sto non penso che el blo­queo sarà tolto a breve e che altri par­ti­co­lari della vita di Cuba non saranno distur­bati dalla pre­po­tenza dell’economia neo­li­be­rale o dall’arroganza delle borse-valori o dalle mul­ti­na­zio­nali o dall’apparato mili­tare e indu­striale del paese.

Credo, però, che certe scon­fitte pos­sano ser­vire per un po’ di anni di tregua.

Per merito di Cuba e più recen­te­mente di Hugo Chá­vez, Lula Da Silva, Evo Mora­les, Rafael Cor­rea e delle Pre­si­denti donne di Bra­sile, Cile e Argen­tina tira un’altra aria nel con­ti­nente. Biso­gnerà ora vedere quanto Cuba saprà adat­tarsi per aprirsi a un’economia mista e al mercato.

In que­sto senso c’è una rin­no­vata fidu­cia nel Pre­si­dente Raul Castro che smen­tendo l’immagine inte­gra­li­sta e ideo­lo­gica che gli ave­vano affib­biato a Miami quando era mini­stro della Difesa, ha con­dotto con mae­stria diplo­ma­tica que­sta aper­tura sto­rica con il vec­chio nemico. È inte­res­sante con­sta­tare che in que­sto cam­bio epo­cale abbia pesato for­te­mente la nuova chiesa di Papa Fran­ce­sco, l’argentino venuto da lon­tano. 55 anni fa, la mag­gior parte dei preti cubani, edu­cati nella Spa­gna del dit­ta­tore Fran­ci­sco Franco era con­tra­ria alla rivoluzione.

Per­fino l’attuale arci­ve­scovo de L’Avana, Jaime Ortega, da gio­vane tran­sitò bre­ve­mente nei campi di lavoro. Era la sta­gione in cui Cuba doveva difen­dersi da molti nemici e vedeva nemici dap­per­tutto, una com­pren­si­bile “sin­drome dell’assedio”. Adesso il car­di­nale Ortega, che ha una poli­tica molto ecu­me­nica, non è sim­pa­tico ai duri e anti­de­mo­cra­tici di Miami. È evi­dente che altri valori, come soli­da­rietà e con­vi­venza, hanno gui­dato l’evolversi di un paese che ha saputo resi­stere in ogni momento sto­rico a prove durissime.

L’informazione occi­den­tale, spe­cie quella dello spa­gnolo El Pais, quo­ti­diano fon­dato da un’ex fran­chi­sta, e che in modo molto discu­ti­bile influenza tutta l’Europa sulle vicende del con­ti­nente lati­noa­me­ri­cano non è dispo­sta a con­di­vi­dere il cam­bio in atto a sud del Texas. Que­stione di inte­ressi, que­stione anche di un’egemonia, quella spa­gnola, ormai tra­mon­tata. Forse anche di mio­pia, se è vero che l’obiettivo di que­sto riav­vi­ci­na­mento sto­rico, voluto dagli Stati Uniti, ha come pro­po­sito palese, quello di riav­vi­ci­nare, di recu­pe­rare l’America Latina.

È più dif­fi­cile, invece, capire l’atteggiamento suc­cube e omer­toso dell’informazione ita­liana. A meno che non stia aspet­tando ancora di cono­scere la linea che desi­dera Washing­ton.
È vero che, come hanno scritto mae­stri come Bocca o Biagi, è finito il gior­na­li­smo, ma inter­pre­tare il cam­bio dei rap­porti tra Cuba e Stati Uniti come una vit­to­ria di que­sti ultimi signi­fica tra­vi­sare la sto­ria e que­sto la sto­ria stessa lo smen­tirà facilmente.

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