Lula: «Il mio Brasile da ricostruire»

Intervista. L’ex presidente brasiliano verso il voto di ottobre, dopo il disastro Bolsonaro. «Il suo assurdo negazionismo è costato migliaia di vite, mentre miseria e fame sono tornate ad affliggere milioni di persone. Ma la gente oggi ha capito e vuole sconfiggerlo. Il “nuovo” per noi sarà riconquistare ciò che è andato perso».

In un Brasile letteralmente sgretolato dal fallimento del governo Bolsonaro, si scaldano i motori per le elezioni del prossimo ottobre e Lula, emerso vittorioso dai processi giudiziari, potrebbe ritrovare il suo grande accusatore, il giudice Sergio Moro, tra i concorrenti per la presidenza. Chi conquisterà il governo dovrà comunque gettare le basi per la ricostruzione di un Paese in piena emergenza economica e sanitaria, ricostituire un tessuto di dialettica democratica, rigenerare i meccanismi di integrazione tra investimenti e giustizia sociale, pacificare un popolo profondamente polarizzato.

La sfida sembra enorme, ma somiglia molto a quella del 2002-2003 quando il Partido dos Trabalhadores (Pt) conquistò per la prima volta il governo e traghettò il Brasile dalla recessione alla sesta economia mondiale. I vent’anni passati hanno lasciato i segni in un Paese radicalmente trasformato, attraversato da una lacerante crisi e da contraddizioni interne alla stessa sinistra che, nel difficile compito di ritrovare credibilità, faticosamente cerca di ricostruire quel processo democratico-popolare che allora l’ha portata alla vittoria.

Presidente Lula, dopo i fallimenti del governo Bolsonaro, la strategia dell’estrema destra negazionista e populista riceve ancora consenso da una parte del popolo brasiliano. Non solo élite, ma anche parte di quei settori popolari che hanno tratto benefici delle politiche del Pt. Come lo spiega?

In un contesto di normalità democratica, Bolsonaro non avrebbe vinto le elezioni. Tutti i sondaggi prevedevano la mia vittoria con largo vantaggio. Lui non sarebbe stato eletto se non fosse per le circostanze eccezionali create dal golpe contro la presidente Dilma Rouseff, la demonizzazione della politica democratica, la persecuzione del Pt e la mia prigione illegale. Non possiamo dimenticare che i principali mezzi di comunicazione sono stati decisivi in questo processo di rottura della legalità. Hanno promosso una feroce campagna di annichilimento contro di noi e, al tempo stesso, hanno forgiato una falsa immagine di Bolsonaro come “salvatore” del Paese. Hanno inventato un “mito” Bolsonaro che, in quel contesto, ha illuso molte persone, compreso segmenti delle classi popolari. Oggi la situazione si è completamente invertita. La delusione per l’attuale governo è enorme, ed è ancora più grande rispetto allo stesso Bolsonaro, nonostante il forte sostegno mediatico che continua ad avere. Il suo assurdo negazionismo già è costato al Paese migliaia di vite. La miseria e la fame sono tornate ad essere il quotidiano di milioni di brasiliani, il Paese affonda in una profonda crisi economica, con la disoccupazione e la carestia che raggiungono livelli spaventosi, senza pensare all’isolamento internazionale del Brasile, che sembra essere diventato una barzelletta mondiale. Ma, per fortuna, la maggior parte della popolazione è cosciente della responsabilità di Bolsonaro in questo disastro e vuole sconfiggerlo nelle elezioni del prossimo ottobre. Oggi, l’unico settore in cui Bolsonaro continua a prevalere è quello del privilegio economico: una élite, minoranza estremista che non ha vergogna di inventare falsità e che in realtà esiste in quasi tutti i Paesi, ma è stata già sconfitta in Cile, negli Stati uniti e sarà sconfitta anche in Brasile.

Nel 2018, in piena tempesta giudiziaria e politica, quando gli siti erano ancora incerti, lei scriveva il libro La verità vincerà. Il popolo sa perché sono stato condannato. Oggi che è stato assolto, si sente più forte? Possiamo dire che la verità abbia vinto? Del resto quel libro non è solo una difesa giudiziaria, ma soprattutto politica…

Il processo contro di me è stato totalmente politico, non qualcosa di personale contro Lula. Era contro il popolo brasiliano e le conquiste fatte. Le conseguenze per il Brasile e per la maggioranza della nostra popolazione sono molto più importanti di qualsiasi mio sentimento rispetto a questa ingiustizia. Perché sono stati i brasiliani che hanno visto l’economia sgretolarsi e hanno perso il lavoro a causa della distruzione delle imprese principali e di interi settori dell’economia a causa della Lava Jato. E sono i brasiliani che convivono oggi con la fame, con la miseria e l’arretramento di diritti. È esattamente quello che volevano, creando falsità per criminalizzare la politica e principalmente il Pt e Lula.

Ma io non ho mai dubitato che avrei provato la mia innocenza e che coloro che mi perseguitavano avrebbero risposto delle loro manipolazioni e illegalità. È stata questa la ragione per cui non ho mai pensato di esiliarmi, ad esempio, per evitare la prigione. È stato così che ho sopportato ognuno dei 580 giorni in cui sono stato preso. Questa certezza e la solidarietà delle persone in mobilitazione permanente per me, gli atti di appoggio e sostegno internazionale, mi hanno dato la forza per resistere.

Se Sergio Moro fosse davvero candidato alle prossime elezioni pensa che la campagna elettorale possa essere alterata da strategie incrociate politico-giudiziarie e che le grandi questioni su eguaglianza sociale, riforma agraria, lotta alla fame, diritto alla casa, giustizia climatica, educazione pubblica possano passare in secondo piano?

Chi vuole essere candidato, lo sia. La democrazia per cui abbiamo tanto lottato in Brasile lo consente. Moro avrà il diritto di essere liberamente candidato, cosa che mi ha negato nel 2018. Se lui ha un progetto per il Paese, che lo presenti, questa volta senza nascondersi dietro una toga. Ma le persone non sono interessate da vuote promesse, perché quello che è vuoto adesso è il piatto e il frigorifero dei brasiliani. Le persone hanno fame, non hanno lavoro, o lavorano in modo precario, molti vivono per strada, altri con un salario sempre più basso e con i prezzi che aumentano sempre di più.

Per quanto riguarda il settore giudiziario, tutto mi dice che i suoi settori più seri e democratici non permetteranno che si ripeta la partitizzazione del 2018. Le illegalità di Moro e della Lava Jato hanno rovinato molto l’immagine del potere giudiziario. In verità, Moro ha utilizzato il potere giudiziario per diventare superministro di Bolsonaro. Ed è passato ad aggredire la stessa Giustizia. Dobbiamo vigilare, attraverso la stessa opinione pubblica internazionale, ma la Corte costituzionale ha già chiarito che non permetterà che le elezioni siano manipolate di nuovo.

Recentemente i partiti tradizionali hanno vissuto una crisi politica, travolti dall’onda del populismo, anche di sinistra. Sembra che una sigla elettorale possa essere più efficace di un partito che porta con sé il peso della sua storia. Pensi che il Pt, da parte sua, con la struttura di partito tradizionale storicamente alleata ai movimenti sociali, sia tuttora attrattivo per le nuove generazioni?

Non so se il Pt è un partito tradizionale. Sinceramente, nel senso comune del termine, penso di no. Abbiamo la nostra traiettoria di 42 anni che ci ha dato un forte radicamento popolare. Ma, al tempo stesso, il Pt ha dimostrato grande capacità di autorinnovamento, di risposte creative e coraggiose rispetto alle nuove sfide nazionali e globali. Forse per questo il Pt continua a essere, in tutti i sondaggi, e per la sorpresa di molti, il partito preferito della gioventù brasiliana.

Credo che tutto questo abbia a che vedere con la stessa origine del Pt. Siamo nati eterodossi e plurali. Siamo nati dalle lotte contro la dittatura militare e per la democratizzazione del Paese. Fin dall’inizio, abbiamo unito movimenti, settori e culture politiche abbastanza distinte: il nuovo sindacalismo della fine degli anni 1970, le comunità cristiane di base, i grandi intellettuali del socialismo democratico, i contadini e i movimenti di agricoltura familiare, i movimenti negri, femministi, ecologisti, oltre a diversi gruppi di sinistra che stavano emergendo dalla lotta clandestina contro i militari. Quello che ci unisce non è un sistema di pensiero, un’ideologia, ma lo spirito libertario e un progetto di emancipazione per il Brasile. Penso che in America Latina ci siano altri partiti più antichi che hanno anche una grande capacità di innovazione, come nel caso, ad esempio, del Frente Amplio in Uruguay. Conosci un leader più tradizionale e più innovatore di Pepe Mujica? E ci sono esperienze più recenti che hanno avuto un esito straordinario, come quelle di Lopez Obrador in Messico, Xiomara Castro in Honduras e Gabriel Boric in Cile. Sono convinto che, unendo vecchio e nuovo avremo ottime possibilità di riprendere il processo di integrazione e di sviluppo in America Latina.

Ad ogni modo, non credo che i partiti propriamente tradizionali di sinistra – soprattutto quelli di centenaria tradizione socialdemocratica – stiano vivendo un momento negativo. Certo, hanno attraversato un periodo difficile all’auge dell’egemonia neoliberista nel mondo. Ci sono state anche formazioni che, in quell’epoca, si sono lasciate sedurre dal canto delle sirene neoliberiste. Ma oggi è chiaro che il neoliberismo è un modello economico e sociale fallito. La stessa lotta contro il coronavirus ha mostrato che è necessario riscattare il ruolo di convincimento e di coordinamento dello Stato democratico. La crisi economica del 2008 aveva già rivelato l’insensatezza di un’economia sregolata, il tremendo rischio di un capitale finanziario che si consegna in modo irresponsabile unicamente alla ricerca del lucro facile. Vedo che in Europa, nonostante la crescita dell’estrema destra, si sta tornando a valorizzare il welfare, le politiche sociali. Penso che questo spieghi perché il Partito socialdemocratico governa la Germania in alleanza con i Verdi, che sono una forza importante di rinnovamento, il Partito socialista dei lavoratori governa in Spagna insieme a Podemos e altri partiti progressisti e il Partito socialista governa in Portogallo, ad esempio. Dobbiamo unire le forze democratiche e progressiste per dare maggiore efficacia al progetto di un sistema internazionale pacifico, equilibrato, giusto, che dovrà essere necessariamente multilaterale e multipolare, in cui tutti i popoli abbiano vere possibilità di prosperità e giustizia sociale.

Molti analisti politici considerano che il Pt abbia conquistato l’egemonia attraverso un patto popolare-imprenditoriale e la strategia di “pacificazione di classe”. In caso di vittoria elettorale, in piena crisi pandemica, con l’inflazione, le nuove povertà, la disoccupazione, la svalutazione della moneta nazionale, pensa sia ancora questa la strategia giusta per ricostruire il Paese?

Chi governerà il Brasile, avrà davanti la missione di ricostruire il Paese. E non è possibile pensare di ricostruire il Paese con milioni di persone che hanno fame. Garantire tre pasti al giorno per tutti è la priorità numero uno. Il secondo obiettivo, che non è separato dal primo, è generare lavoro e reddito. Per questo, il Paese ha bisogno di stabilità e credibilità. Lo Stato deve tornare a investire per garantire i diritti delle persone, costruire ospedali, fare scuola, ampliare l’università, tutto questo aiuta a muovere l’economia. Investire nell’infrastruttura e nella logistica, mantenere le forti esportazioni e al tempo stesso recuperare e ampliare il mercato interno, facendo funzionare l’economia, e mostrando alle imprese che vale la pena investire nel Brasile. Ossia, non è molto differente da quello che abbiamo già fatto, perché, quando siamo andati al governo la prima volta, la situazione già era di crisi economica. E da un Paese in crisi siamo arrivati ad essere la sesta economia del mondo, con un vasto processo di inclusione sociale e di riduzione delle diseguaglianze e con un’emozionante crescita dell’autostima del popolo brasiliano. Nel Brasile, il “nuovo” sarà riconquistare quello che abbiamo perso, e che già stava indicando un cammino per il futuro. Con molta democrazia e dialogo.

di Paolo Vittoria – il manifesto

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