Venezuela, Il governo ombra di Juan Guaidò non esiste più.

Claudia Fanti (il manifesto, 5 gennaio 2023)

Ora è ufficiale: il governo ad interim di Juan Guaidó non esiste più. Con la seconda e definitiva votazione, dopo quella del 22 dicembre, i partiti di opposizione noti come G3 – Primero Justicia, Acción Democrática e Un Nuevo Tiempo – hanno decretato la fine di una farsa: il governo fantasma, o «governo per internet», imposto dagli Stati uniti.

LA MOTIVAZIONE, data durante la sessione trasmessa in diretta sulle reti sociali il 31 dicembre, è stata fredda e asciutta: la presidenza ad interim «non ha raggiunto i suoi obiettivi».

Guaidó non l’ha presa affatto bene, pubblicando lo stesso giorno, sul suo profilo Twitter, la sua risentita risposta, con tanto di citazione dell’ex presidente Carlos Andrés Pérez, responsabile della repressione delle proteste popolari culminate, nel 1989, nella strage nota come caracazo, poi destituito nel 1993 con l’accusa di peculato e malversazione e arrestato l’anno dopo: «Voglia Dio che quanti hanno creato questo conflitto assurdo non abbiano motivi per pentirsene».

IN REALTÀ, NESSUNO RIMPIANGERÀ il presidente fantoccio senza governo, senza apparato amministrativo, senza forze armate e, ben presto, senza neppure consenso popolare. Un ologramma vissuto appena del riconoscimento di Trump e per un po’, molto meno, di Biden, e dei governi asserviti agli Stati uniti.

La sua ascesa era stata rapidissima. Era un oscuro e semisconosciuto deputato del partito di estrema destra Voluntad Popular quando, il 5 gennaio del 2019, si era ritrovato a presiedere l’Assemblea nazionale controllata dalla destra, dopo la sconfitta del chavismo alle parlamentari del 2015, la prima dopo 17 anni (e finora anche l’unica). E pochi giorni dopo, il 23 gennaio, nel corso di una manifestazione contro il governo Maduro, aveva sorpreso il paese giurando sulla Costituzione come presidente ad interim del Venezuela, a capo di un governo provvisorio che sarebbe dovuto durare 12 mesi e che si sarebbe invece prolungato per quasi quattro anni.

Iniziava così l’avventura dell’«autoproclamato», immediatamente sostenuto dagli Usa, dall’Unione europea e dai presidenti latinoamericani di destra, da Macri a Piñera, da Duque a Bolsonaro. Ma mentre l’amministrazione Trump non lesinava sforzi per dare un po’ di sostanza alla sua figura, era chiaro che la vera partita contro Maduro si giocasse fuori dal paese. Con una strategia precisa: strangolare economicamente il paese in attesa, chissà, di creare le condizioni per invaderlo militarmente. Una strategia caldamente sostenuta da Guaidó, ben contento di dare inizio a una «presa di controllo progressiva e ordinata» – in realtà un furto – degli asset del Venezuela all’estero.

QUANTO ALL’OPZIONE MILITARE, anch’essa caldeggiata e ripetutamente invocata da Guaidó, era apparsa subito una via poco percorribile, considerando di quanti militari (230mila) e di quali avanzati armamenti disponesse la forza armata bolivariana, quanto poche fossero le defezioni all’interno dell’esercito, su quali alleanze potesse contare il governo Maduro (a cominciare da quella russa). Qualche timore però era serpeggiato con l’operazione, clamorosamente fallita, dell’invio dei cosiddetti aiuti umanitari che, a un mese dall’autoproclamazione di Guaidó, sarebbero dovuti entrare in Venezuela, «sì o sì», dalla città di Cúcuta, in una zona di frontiera caratterizzata dalla forte presenza del paramilitarismo colombiano, dunque ideale per scatenare un’azione destabilizzante.

Né erano mancati tentativi di golpe, come quello risibile promosso il 30 aprile dalla frangia più estrema dell’opposizione, senza l’appoggio di alcuna guarnigione militare e senza il supporto della popolazione, con Guiadó apparso nei pressi della base di aviazione La Carlota, circondato da militari pesantemente armati, per incitare alla rivolta militare. Un’azione mirata forse a provocare una reazione da parte del governo tale da giustificare un intervento militare straniero, ma che aveva avuto come unico risultato un’imbarazzante diffusione nelle reti sociali di immagini e commenti satirici sull’inconcludenza del ribattezzato venditore di fumo (con l’hashtag #Guaidopurohumo).

DA ALLORA, LA CADUTA in disgrazia di Guaidó in patria – dove le promesse mancate, gli scandali di corruzione, l’appoggio a eventuali invasioni straniere e il boicottaggio di ogni tentativo di dialogo avevano fatto precipitare la sua popolarità – era stata inarrestabile. Fino al triste epilogo del voto dei suoi stessi compagni di opposizione.

 

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