Intervista a Luis Alejandro Bazalar, il prete che vuole diventare presidente

Geraldina Colotti

Il regime di Dina Boluarte, che sta insanguinando il Perù dopo il golpe istituzionale contro il presidente Pedro Castillo, avrebbe potuto aggiungere una vittima in più a quelle (oltre 60) che sono cadute sotto i colpi della repressione: il sacerdote diocesano Luis Alejandro Bazalar Garcia, sceso in piazza a manifestare, a fianco delle comunità indigene che protestano da tre mesi, e che ha dovuto lasciare il paese. Ora si trova in Venezuela, dove lo abbiamo incontrato.

Cosa è successo, padre?

Stavo manifestando a fianco delle comunità indigene, represse dal regime civico-militare dell’usurpatrice Dina Boluarte, che spara sul suo popolo. Ho rischiato anche io di essere colpito in pieno volto da una bomba lacrimogena, mi ha salvato un manifestante andino, gettandomi di lato. Avevo già ricevuto minacce a cui non avevo fatto caso, finché un agente dell’intelligence, che stava dalla parte dei manifestanti, mi ha avvertito: “Sono di Ayacucho, ha detto. Vattene perché verranno a prenderti per arrestarti, torturarti e farti scomparire”. Mi sono nascosto, e ho potuto vedere le pattuglie fare irruzione. Ho deciso di andarmene… per ora.

E perché ha scelto il Venezuela?

Sono nato a Huacho, una delle principali città a nord di Lima, la capitale. Lì il libertador Simon Bolivar ha elaborato la sua strategia di liberazione del Perù dall’impero spagnolo. Huacho fu il primo luogo da cui il generale José de San Martin ha dichiarato l’indipendenza. Ammiro profondamente la figura del comandante Hugo Chávez che, a dieci anni dal suo ingresso nella vita eterna, non ha smesso di ispirare il sentimento di integrazione latinoamericano, e il progetto di una Patria Grande. Tanto che abbiamo fondato un nuovo partito con questo nome. Abbiamo già depositato il simbolo, abbiamo lo statuto. Ammiro la resistenza del popolo venezuelano e il suo presidente Maduro, che fa rispettare il principio di non ingerenza. Facendo un giro nelle comunas, le persone dicono: preferisco stringere i denti e resistere al bloqueo, ma non tornare indietro alla IV Repubblica, e perdere il potere popolare acquisito. Penso che al mio paese serva il progetto del socialismo del secolo XXI, ispirato a quanto diceva il marxista José Carlos Mariátegui, secondo il quale la rivoluzione non dev’essere “né calco né copia”. Faccio un appello alle nostre Forze armate, affinché si riconoscano come popolo in uniforme e smettano di ammazzare i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché siamo tutti figli e figlie dello stesso Dio. Nel segno di Bolivar, noi lavoreremo a costruire anche in Perù, l’unione civico-militare. Intanto, penso che occorra unire le forze, come ha insegnato Mariategui. I movimenti, i partiti di buona volontà devono unirsi intorno a una candidatura che rappresenti il popolo.

E chi finanzierà il partito? Una campagna elettorale, costa.

Ci finanzieremo dal basso, come si è fatto fin dai primi secoli del cristianesimo e com’è costume delle comunità andine: certamente non con il denaro di quei poteri forti che poi ti vengono a chiedere conti. Un punto del nostro statuto definisce chiaramente limiti e norme.

Dopo l’arresto di Castillo, non sembrano però emersi nuovi leader dalle lotte in corso. Lei intende candidarsi? E su quali basi?

L’organizzazione sta producendo nuove figure, ma le comunità non intendono esporle, perché non vengano ammazzate, per cui le cambiano continuamente. Se il regime non cade prima, sotto la spinta del popolo, le elezioni sono previste per il 2024. Molte comunità mi hanno chiesto di essere un loro interlocutore, a livello nazionale e internazionale. Se lo vorranno tutte le comunità, dalle Ande, alla selva, alla costa, se lo vorranno i quasi 7 milioni di poveri che vivono a Lima, io sono disposto a mettermi in gioco, anche a rischio della vita. Dalle nostre inchieste interne, arrivano segnali positivi, vi sono tante forze e soggetti che sentono il bisogno di unirsi per cambiare finalmente, e nel profondo, il paese.

E con quale programma?

Intanto, principalmente, tre punti: l’Assemblea costituente, il referendum di conferma e l’inclusione di tutti i popoli e di tutte le categorie nella nuova Carta Magna: in modo originale, a nostro gusto e in base alla nostra peruvianità. Il popolo deve avere il potere di criticare o mandare a casa chi non mantiene la promessa o chi cambia bandiera, così come prevede la costituzione bolivariana. Bisogna nazionalizzare le nostre risorse: il litio e il gas, così come ha fatto il Messico e come fece Allende in Cile con il rame, per evitare che le banche e l’oligarchia continuino ad accumulare ricchezza a scapito del popolo. Ci vuole una riforma educativa. Occorre dare potere alle donne, sostenere la loro organizzazione, promuovere leggi contro la violenza di genere e diffondere una cultura diversa dal machismo e dall’omofobia. Non solo le donne sono la metà del mondo, ma sono anche quelle che hanno partorito l’altra metà. E devono poter decidere della propria vita: per evitare che ci succeda come a Túpac Amaru quando non ha dato retta a Micaela Bastidas, sua moglie, e perdiamo di nuovo contro l’impero. In un ipotetico discorso alla nazione, io non comincerei con il farmi chiamare signor presidente, ma figlio di quei villaggi che non figurano sulla mappa, e anche figlio della donna che mi ha partorito e a cui sono grato. Sono disposto a dare la vita perché, se il popolo dice sì all’Assemblea costituente, questa non venga nuovamente manipolata dalla destra come nel 1993. Il testo dev’essere scritto dal popolo organizzato nelle comunità, e dai settori produttivi. Ho 39 anni, e da 31 è in vigore una costituzione, frutto di un golpe del dittatore Alberto Fujimori, e di una frode, compiuta per garantire gli interessi del Fondo Monetario Internazionale.

Perché il popolo se ne dovrebbe liberare? Come lo spiegherebbe?

Ci hanno detto che quella costituzione ha portato ricchezza, prosperità, ma io chiedo: quanti abitanti che vivono a Lima sono senz’acqua? Quasi 2 milioni. In 33 anni? Quanti peruviani non hanno acqua? 4 milioni. In 33 anni? Quanti peruviani non capiscono quello che leggono per una crisi istituzionale in materia educativa? Il 55%. In 33 anni? Continuiamo. Una clausola del Fondo Monetario Internazionale ha stabilito la creazione del Banco centrale di riserva del Perù (BCRP): quello che ha il cordone della borsa, che dice quanto si deve spendere, stabilisce il tasso d’interesse bancario, che taglieggia il popolo. Se un peruviano chiede un prestito per comprare un appartamento, dopo 10-15 anni lo ha pagato più del doppio, perché il tasso di interesse e di oltre il 120%, mentre in Spagna è del 2-3% annuale. Ma questa è la costituzione del ’93… E ancora. La BCRP stabilisce il tipo di cambio, l’esecutivo non può intromettersi: non può competere, né intervenire nell’economia del paese. Chiediamoci: quante banche ci sono in Perù? 5, eredità di quelle famiglie aristocratiche, borghesi, che hanno impedito al paese di avere una giustizia sociale. Sono gli stessi da 200 anni. Gli stessi criollos che odiano gli andini, di cui parlava Bolivar, e che oggi sono la borghesia: ma sono solo un milione, su 33 milioni di abitanti. In Perù, i presidenti hanno sempre governato per conto terzi. Si sono dedicati a tutelare e aumentare la proprietà privata, a tradire la patria, non a portare sviluppo, ma questo a scuola non te lo insegnano. Facciamo un altro esempio. I contratti che regolano i rapporti con le multinazionali sono vecchi di 30, 50, 80 anni e allo Stato vanno soltanto briciole. Perché in 33 anni non sono stati riformati? Ora che il popolo si è svegliato, si sente parlare di riforme e di elezioni, secondo quanto ha stabilito l’imperialismo per impedire che il popolo indica un’Assemblea costituente.

Perché il presidente Pedro Castillo non ha potuto realizzare il suo programma? Quali errori ha compiuto, a suo avviso?

Si è lasciato ingannare. Primo errore: abbandonare il partito che lo ha portato alla presidenza, Peru Libre. Secondo errore: credere alla destra. All’imperialismo, diceva il Che, non si può dare neanche un tantino così. Terzo errore: credere all’Organizzazione degli Stati americani, diretta da Luis Almagro. Quarto errore: credere che, mediante la corsa al centro, avrebbe potuto avere spazi di manovra maggiore, e non rimanere prigioniero del ricatto. Quinto errore, il più grave di tutti: non farsi consigliare dal popolo, che lui comunque ama e che lo ama, ma che chiedeva a gran voce un’Assemblea costituente, come sta facendo ora. Una costituzione che non sia basata sulla delega e sulla democrazia rappresentativa, ma sulla democrazia partecipativa. Secondo le ultime inchieste, è almeno il 60% della popolazione a chiederlo.

La piattaforma in 6 punti, presentata dalle comunità in resistenza, oltre a definire i termini del processo costituente, chiede che Boluarte se ne vada, che si giudichino i responsabili della repressione, e che venga liberato il presidente Castillo. Lei è d’accordo? In questo caso, ritirerebbe la candidatura?

Certo, e appoggerei il legittimo presidente. Io voglio unire, non dividere. Purtroppo, però, l’imperialismo non lo mollerà facilmente. Sono convinto che occorra una riconciliazione nazionale, non solo per liberare il presidente, ma anche i perseguiti politici detenuti. Un esecutivo nato da un processo costituente dovrebbe farsi carico di sanare le ferite, risolvendo le cause dei problemi. Nel paese c’è stata una guerra sporca, che non si può nascondere sotto il tappeto. Io l’ho vista da vicino. Mio padre apparteneva allo squadrone dei los sinchis, l’unità d’élite della Polizia nazionale peruviana, che aveva il compito di ammazzare “i terroristi”. Era della Guardia Civil peruviana, e suo fratello è generale di brigata in pensione, ex direttore della scuola dei commandos. Questo amore per il popolo, la pace e la riconciliazione del paese, viene da mia nonna materna. Era di Ayacucho, di cultura pocra: la cultura wari di Ayacucho, pre-inca, portatrice di una tecnologia agricola avanzata. Una cultura che fiorì nel centro delle Ande all’incirca nel VII secolo fino al XIII d.C. Sono il meticcio di cui il Perù ha bisogno, un sacerdote che ha capito da che parte stare.

E com’è arrivato a capirlo?

Fin da piccolo, ho sentito una forte vocazione al sacerdozio. Volevo essere prete per cambiare le cose e cercare la giustizia sociale. Sempre sono stato cosciente che il regno di dio comincia in terra, come di fatto ha predicato Gesù: se io spero nell’aldilà senza cambiare le cose in questa terra, tradisco il vero messaggio di Cristo. Per me, non c’è differenza tra il Cristo della fede e il Cristo storico, che le gerarchie ecclesiastiche hanno voluto occultare. Come sacerdote, sono però stato educato per essere di destra, formato per manipolare le coscienze. Prima di arrivare al socialismo, mi consideravo di centro. Poi, sono stato segretario personale dell’arcivescovo metropolitano di Ayacucho. Ho visto tutta l’ingiustizia nell’economia della chiesa cattolica – quelle storture che il papa Francisco, in linea con l’azione più progressista di alcuni pontefici precedenti, sta cercando di correggere con coraggio -, e l’ho denunciato. Ho denunciato la doppia morale esistente. Ho difeso minoranze del gruppo Lgbt e ne ho pagato le conseguenze quando un giovane minorenne mi ha chiesto aiuto perché la sua famiglia ha scoperto che era gay, e voleva farlo “curare”.  Avevo due possibilità: pregare per lui, raccomandarlo al cielo, come fa la maggioranza dei preti, per non farsi carico dei problemi, oppure aiutarlo. Mi avevano avvertito che sarebbe finita male. Infatti, la famiglia del giovane, d’accordo con le élite della Chiesa, mi ha denunciato, in base a un’accusa falsa e nonostante la testimonianza del ragazzo che diceva le cose come stavano. Una persecuzione durata 5 anni prima che venissi riconosciuto totalmente innocente, e scagionato da tutte le accuse, ma ne è valsa la pena. Oggi quel giovane vive liberamente la propria omosessualità. Nessuno dev’essere discriminato per il colore della pelle o per il suo orientamento sessuale, o perché porta l’orecchino come lo porto io.

Il lawfare, che lei ha sperimentato in prima persona, come si è visto con Pedro Castillo, è un’arma politica assai frequentata in Perù. Non teme che i media l’accusino di essere amico dei terroristi e degli omosessuali?

Vedi questo romanzo? S’intitola Reus, e racconta una storia di amore gay e di persecuzione. Voglio mostrare la vita reale, non quella che la morale ipocrita vuole raccontare. Al popolo non si deve mentire, fingendo di essere quello che non si è. Io non lo farò, non mi venderò all’oligarchia, e assumerò tutte le battaglie in prima persona, com’è dovere di ogni buon cristiano: da quelle per i diritti basici a quelle per la diversità. Bisogna smascherare e combattere l’uso del diritto per fini politici, respingere le campagne mediatiche che lo sostengono. Con quale diritto l’imperialismo Usa impone sofferenze al popolo cubano, venezuelano, nicaraguense mediante misure coercitive unilaterali illegali? Dov’è la giustizia internazionale se gli Stati uniti arrivano a sequestrare, torturare e deportare persino un diplomatico, come nel caso del venezuelano Alex Saab? I media raccontano che il socialismo bolivariano è fallito. Rispondo con un esempio semplice, che vede due atleti al nastro di partenza: uno capitalista e un altro socialista, però con le catene ai piedi. Togliete le catene all’economia venezuelana, togliete le “sanzioni” e ricomincerà a correre come ai tempi di Chávez, quando il Venezuela aveva raggiunto gli Obiettivi del Millennio stabiliti dalla FAO nella metà del tempo.

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