Non si può parlare di Pace, non si deve, finché il totale degli attori coinvolti e delle vittime non partecipino ai mezzi e ai modi di questa Pace. È scorretto arrogarsi il diritto di mediare per terzi che non possono intervenire, e moderare qualsiasi accordo che li riguardi. Occorre intervenire in condizioni di pari opportunità e, soprattutto, di pari condizioni. Tutto il resto è altamente rischioso e non poco sospetto. Anche la Pace è diventata bottino dei signori della Guerra Cognitiva.
Nel contesto della politica di Trump, che fa torbidi equilibrismi retorici con la sua retorica bellicista, la sua “Battaglia Culturale” ha aumentato il bilancio militare, promosso sanzioni con aggressivi blocchi economici per un riassetto geopolitico in Groenlandia e a Panama, in Venezuela, Iran, Cuba, Cina.
Allo stesso tempo, agita bandiere contro la guerra. Se ci si chiede cosa significhi tutto ciò da una prospettiva davvero umanista, la “Pace” nella politica di Trump va intesa come la continuazione del bellicismo semantico, sintattico e pragmatico, per costringerci a declinare l’intero vocabolario agli interessi dei magnati e di una Pace imperialista, in cui la violenza economica ed ideologica del capitalismo resti intatta.
Non è Pace, bensì la prosecuzione del commercio (e della guerra) con altri mezzi. Quel profluvio di parole di Trump non nasce da una preoccupazione genuina per la Pace, bensì dal bisogno di garantire tranquillità agli affaristi, in vista di un riallineamento degli interessi del capitale USA e dei suoi compari. Tagliare i fondi a Zelensky non significa cercare la Pace in termini profondamente umanitari, bensì rappresenta una filantropia borghese per la rinegoziazione del saccheggio. Se la guerra continua, il complesso militare-industriale ne trae beneficio; se finisce, le grandi corporation entrano nella fase di ricostruzione e sfruttamento delle risorse. E voglioni che tutto ciò la chiamiamo “Pace”, molto grati, docili e complici.
Con occhio d’aquila, Trump tiene lo sguardo puntato sulle risorse naturali e la manodopera schiavizzata dell’Ucraina – dal gas all’agricoltura – e nella sua “ricostruzione immobiliare” segue la logica del capitalismo in crisi: dove c’è stata guerra, ci saranno affari. Non è una Pace, bensì una redistribuzione tra coloro che si arricchiscono col conflitto. Sì, e questo segue una logica imperialista classica: la Pace non è un fine in sé, bensì un cambio nell’amministrazione del saccheggio. Trump non rappresenta una rottura con l’interventismo USA in Ucraina, bensì una riconfigurazione degli attori beneficiari. E dell’immaginario collettivo, soffocato da “fake news” e distorsioni di ogni tipo.
Se i Democratici hanno fatto commercio della guerra per alimentare il complesso militare-industriale e indebolire la Russia – in una strategia prolungata – Trump si orienta maggiormente verso il modello del “capitalismo della ricostruzione”, economica e ideologica, in cui le corporation USA – dall’energia al mattone – entrano in scena quando cessano i bombardamenti e si ridistribuiscono le carte con ‘nuovi’ bari. È già successo in Iraq, Afghanistan e nei Balcani. Quella che presentano come “Pace” è in realtà una nuova spartizione del bottino. E da parte nostra si aspettano applausi.
Esistono però protocolli internazionali per stipulare la Pace, che dovrebbero essere perfezionati e liberati dalla demagogia diplomatica volgare in cui si impantanano. Variano a seconda del conflitto e degli attori coinvolti, ma esistono quadri normativi e processi ampiamente riconosciuti. Tra i più rilevanti: la Carta delle Nazioni Unite (1945), le Convenzioni di Ginevra (1949) e i Protocolli Aggiuntivi, gli Accordi di Oslo (1993-1995), gli Accordi di Dayton (1995), la Guerra nei Balcani, gli Accordi di Pace dell’Avana (2016). Da ciascuno di essi abbiamo imparato che le vittime devono essere le prime ad essere considerate e risarcite.
Da una prospettiva umanista di nuovo tipo, gli accordi di Pace non devono essere un fine in sé, bensì una fase della lotta di classe e delle contraddizioni tra gli Stati. La Pace, nei termini della borghesia, e senza nemmeno sfiorare il capitalismo, è spesso la continuazione della guerra con altri mezzi sia attraverso la diplomazia, lo sfruttamento economico o l’egemonia culturale. L’imperialismo è la fase suprema del capitalismo (1916), e le sue guerre, oggettive e soggettive, rispondono a dispute per la redistribuzione del mondo tra potenze. Lotte inter-borghesi. Non significano mai la fine dell’oppressione, bensì solo la sua riorganizzazione. Non ci si può fidare “neppure un tantino così” della Pace decretata dagli Stati capitalisti. Ogni Pace capitalista, anche se può sembrare un sollievo momentaneo, è un’illusione finché esisterà lo sfruttamento.
La vera Pace è possibile solo con l’eliminazione di ogni disuguaglianza, ogni ingiustizia, ogni emarginazione. Questo non significa disprezzare le tregue strategiche, utili per organizzare l’aiuto alle vittime e fermare gli omicidi legalizzati dalle borghesie, ma non potranno mai rimpiazzare la necessità di scendere al fondo da tale inferno e superarlo definitivamente. Ogni illusione di Pace borghese è sempre provvisoria, finché resta intatta la radice dello sfruttamento. Anche se Donald promette una “età dell’oro”, la sua guerra commerciale, combattuta a tutta velocità, e le sue molteplici misure di deregolamentazione hanno come primo effetto quello di destabilizzare l’economia mondiale e la vita delle persone. L’Europa risponde con nuovi dazi, mentre si prepara ad una severa reazione contro Trump, il quale, a sua volta, promette una nuova salva di insulti e sanzioni. Inoltre, proibisce l’uso di vocabolari che possano descrivere le disuguaglianze e la discriminazione contro il popolo USA, specialmente se sono voci di ribellione. E intanto si vende come paladino della “libertà di espressione”. Una guerra su tutti i fronti ma con un solo obiettivo: rafforzare il dominio dei dominanti. Come sempre.
(Tratto da Alma Plus TV)
¿Qué clase de Paz es esta?
Por: Fernando Buen Abad
No se puede hablar de Paz, no se debe, mientras el total de los involucrados y las víctimas no participen en los medios y en los modos de esta Paz. Es indebido arrogarse el derecho a mediar por terceros que no pueden intervenir, y moderar, cualquier acuerdo que los involucre. Intervenir en igualdad de oportunidades, y principalmente, igualdad de condiciones. Todo lo demás es muy riesgoso y no poco sospechoso. También la Paz en un botín de los señores de la Guerra Cognitiva.
En el contexto de la política de Trump, que hace malabares turbios con su retórica belicista, su “Batalla Cultural” aumentó el presupuesto militar, promovió sanciones con bloqueos económicos agresivos para el reacomodo geopolítico en Groenlandia y Panamá, Venezuela, Irán, Cuba, China.
Al mismo tiempo, agita banderas contra las guerras. Si uno se pregunta por una perspectiva humanista seria, la “Paz” en la política de Trump debe interpretarse como la continuidad del belicismo semántico, sintáctico y pragmático para obligarnos a declinar el diccionario entero al acomodo de los magnates y de Paz imperialista, en la que la violencia económica e ideológica del capitalismo sigue intacta.
No es Paz, sino la continuación del comercio (y la guerra) por otros medios. Ese palabrerío de Trump no es preocupación genuina por la Paz, sino la tranquilidad de los comerciantes para un realineamiento de los intereses del capital estadounidense y sus secuaces. Frenarle el financiamiento a Zelenski, no busca la Paz en términos humanitarios profundos, sino una filantropía burguesa para la renegociación del saqueo. Si la guerra sigue, el complejo militar-industrial se beneficia; si termina, las grandes corporaciones entran en la fase de reconstrucción y explotación de los recursos. Y quieren que a eso le llamemos “Paz” muy agradecidos, dóciles y cómplices.
Con ojo de águila, Trump tiene la mirada puesta en los recursos naturales y la mano de obra esclavizada de Ucrania -desde el gas hasta la agricultura- y en su “reconstrucción inmobiliaria” sigue la lógica del capitalismo en crisis: donde hubo guerra, habrá negocios. No es una Paz, sino una redistribución de quiénes se enriquecen con el conflicto. Sí, y esto sigue una lógica imperialista clásica: la Paz no es un fin en sí mismo, sino un cambio en la administración del saqueo. Trump no representa una ruptura con la intervención estadounidense en Ucrania, sino una reconfiguración de los actores beneficiados. Y del imaginario colectivo asfixiado con “fake news” y distorsiones de todo calibre.
Si los Demócratas han comerciado con la guerra para alimentar el complejo militar-industrial y debilitar a Rusia -en una estrategia prolongada- Trump se orienta más hacia el modelo de “capitalismo de reconstrucción”, económica e ideológica donde las corporaciones estadounidenses -desde las energéticas hasta las inmobiliarias- entran a escena cuando cesan los bombardeos y reparten los naipes con tahúres “nuevos”. Así ocurrió en Irak, Afganistán y los Balcanes. Eso que presenta como “Paz” es, en realidad, un nuevo reparto del botín. Y de nuestra parte esperan aplausos.
Pero hay protocolos internacionales para pactar la Paz, que deberían perfeccionarse y despegarse de la demagogia diplomática vulgar en que se empantanan. Varían según el conflicto y los actores involucrados, pero existen marcos normativos y procesos ampliamente reconocidos. Algunos de los más relevantes son: la Carta de las Naciones Unidas (1945) las Convenciones de Ginebra (1949) y Protocolos Adicionales, los Acuerdos de Oslo (1993-1995), los Acuerdos de Dayton (1995), la Guerra de los Balcanes. Los Acuerdos de Paz de La Habana (2016). De cada uno aprendimos que las víctimas deben ser primeras en consideraciones y en resarcimientos.
Desde una perspectiva humanista de nuevo género, los acuerdos de Paz no son deben ser un fin en sí mismos, sino una fase dentro de la lucha de clases y las contradicciones entre los Estados. La Paz, en términos burgueses, y sin tocarle un pelo al capitalismo, suele ser la continuación de la guerra por otros medios, ya sea a través de la diplomacia, la explotación económica o la hegemonía cultural. El imperialismo es la fase superior del capitalismo (1916), y sus guerras objetivas y subjetivas, señala responden a disputas por la redistribución del mundo entre potencias. Luchas inter-burguesas. Nunca significa la eliminación de la opresión, sino su reorganización. No se puede confiar “ni un tantito así” en la Paz decretada por los Estados capitalistas. Toda Paz capitalista, aun pareciendo un alivio circunstancial, es una ilusión mientras exista explotación.
Solo es posible la Paz verdadera con la derrota de toda desigualdad, toda injusticia y toda postergación. No significa esto el desprecio por las treguas estratégicas para organizar la ayuda a las víctimas y el cese de los asesinatos legalizados por las burguesías, pero nunca reemplazaran la necesidad de ir al fondo de ese inferno y superarlo definitivamente. Toda ilusión de Paz burguesa es siempre provisional, mientras la raíz de la explotación siga intacta. Aunque prometa Donald una “edad de oro”, su guerra comercial, librada a toda velocidad, y sus múltiples medidas de desregulación tienen el primer efecto que es desstabilizar la economía de mundo y la vida de los seres humanos. Europa responde con nuevos aranceles, al tiempo que aseguran una réplica severa frente a Trump quien, a su vez, promete una nueva salva de saliva y de sanciones. Además, prohíbe el uso de vocabularios que puedan describir las desigualdades y la discriminación contra el pueblo norteamericano, especialmente si son voces de rebeldía. Y mientras se vende a sí mismo como el heraldo de la “libertad de expresión”. Una guerra en todos los frentes pero con un solo objetivo: acentuar el dominio de los dominantes. Como siempre.
(Tomado de Alma Plus TV)