L’imprescindibile ruolo degli eserciti nella politica

Daniel Moser

Dal 1789 al 1917, o da Cromwell a Chávez, il ruolo militare è stato fondamentale in ogni processo di cambiamento.

 

Alcune settimane fa, in Argentina si è ricordato, come ogni 24 marzo, il colpo di Stato civico, militare ed ecclesiastico del 1976. La memoria storica è stata manipolata affinché nell’inconscio collettivo si ricordi come un golpe militare, senza ulteriori qualificazioni, il che ha generato l’errata idea che si sia trattato dell’iniziativa di un gruppo di militari che ha usato dei civili per realizzare i propri scopi, quando in realtà è avvenuto l’opposto.

Le forze armate argentine sono parte indivisibile della storia di quella nazione. Nel bene e nel male, esse sono un fattore rilevante nella fondazione della patria e nel processo politico e sociale più importante del XX secolo nel nostro Paese: il peronismo, il cui dirigente — dettaglio che molti sembrano dimenticare — era un militare. Lo stesso vale per lo statista più rilevante della Patria Grande nel XX secolo e in questo scorcio del XXI: il comandante venezuelano Hugo Chávez Frías, che in alcune interviste si è soffermato a spiegare la propria identità sia di statista che di militare.

L’antimilitarismo, cioè la tendenza a confondere l’istituzione militare con alcuni, molti ma non tutti, dei suoi membri, è funzionale agli interessi dell’imperialismo e dell’oligarchia autoctona in Argentina la quale, dal 1976 a oggi, ha imposto le proprie condizioni in ambito politico, economico, sociale e culturale — dico fino a oggi perché, dopo aver assassinato e fatto sparire, con il pretesto di combattere la guerriglia, le avanguardie politiche, studentesche, culturali e sindacali, impose un progetto di Paese noto come il Proceso che, nel 1983, si trasformò in una “democrazia” svuotata di contenuti, passando dall’uso dei militari a quello di una partitocrazia che — come oggi è più che evidente — è funzionale ai suoi interessi. Ci sarà chi distingue tra i diversi partiti, ovviamente non tutti i politici sono uguali, ma fanno parte di un tutto. Ma questo è tema di altra analisi.

Non bisogna stigmatizzare tutti i militari, bisogna piuttosto modificare i piani di studio delle nuove generazioni — che nel 1976 nemmeno erano nate — affinché siano patrioti e non mercenari al servizio dell’oligarchia, e vengano invece integrate nelle cause patriottiche, nazionali e popolari. Nessun processo rivoluzionario, come quello di cui l’Argentina ha bisogno, può realizzarsi senza la presenza delle armi, preferibilmente nella loro funzione dissuasiva.

La sicurezza nazionale nei paesi egemonici

Sicurezza nazionale è un concetto soggetto a molteplici interpretazioni, che vanno dalla tristemente nota “Dottrina della sicurezza nazionale” fino a una visione integrata e inclusiva, in cui la difesa dei valori culturali, politici ed economici di una nazione sono prioritari. In ogni caso, le forze armate giocano un ruolo determinante, ed è su questo che voglio concentrare il mio commento.

Esistono innumerevoli esempi di come i paesi egemonici pratichino una politica nazionalista, a difesa dell’interesse nazionale, che invece sconsigliano a noi. Limitiamoci ad alcuni casi:

1.Quando, alla fine degli anni 80, gli arabi minacciarono di impadronirsi della Mercedes-Benz, la Deutsche Bank intervenne in rappresentanza dell’economia tedesca per acquistare le azioni messe in vendita.

2.L’Airbus, costruttore di aerei civili, di proprietà dei governi britannico, francese, tedesco e spagnolo, fu creata per spezzare il monopolio USA e conquistare un terzo del mercato mondiale a metà degli anni 90. Per avere successo, Airbus ha beneficiato di 26 miliardi di $ in investimenti pubblici e di un mercato protetto costituito da compagnie aeree pubbliche.

3.In Germania, il protezionismo è ben radicato ed efficace. Le telecomunicazioni, le banche, le assicurazioni, i servizi elettrici e l’industria chimica agiscono di fatto come cartelli, ed è molto difficile che un’impresa straniera entri in questi mercati senza un socio tedesco.

4.Anche il Giappone fornisce esempi evidenti di nazionalismo. Nulla potrebbe essere più giapponese — e meno globale — di un’impresa giapponese, anche se opera nei cinque continenti. Le decisioni vengono prese da giapponesi, gli azionisti sono giapponesi, l’organizzazione, la ricerca e lo sviluppo sono giapponesi.

5.La Cina, con il suo capitalismo di Stato, è un altro esempio inequivocabile.

In tutte le potenze esistono infinità di ostacoli che confermano la falsità del “libero mercato”; tra essi leggi restrittive, massicci sussidi pubblici e sofisticate e rozze barriere alle importazioni — il solo elencarle potrebbe riempire le pagine di un voluminoso libro. Basti come esempio il caso del tonno messicano?

Il ruolo politico delle forze armate in America Latina

Per decenni le forze armate latinoamericane hanno agito come guardiane degli interessi delle minoranze autoctone alleate con i centri di potere mondiale. Ma è necessario, in un’analisi obiettiva, menzionare anche il loro doppio ruolo storico, che le ha viste anche schierate dalla parte del popolo.

L’antimilitarismo astratto — in gran parte fomentato dalle funeste partecipazioni che in genere le forze armate hanno avuto nella politica — tende a impedire una comprensione del ruolo che le istituzioni militari hanno svolto nella storia del nostro continente.

Se i militari dovessero rinchiudersi nelle loro caserme, allora forse anche gli avvocati dovrebbero restare nei loro studi, i medici nei loro ambulatori e gli operai nelle loro fabbriche. Bisognerebbe allora creare una classe politica a cui non partecipi nessuno che non sia “politico di professione”. Una tesi che non regge all’analisi.

Il problema non è la partecipazione dei militari alla politica, ma il modo in cui lo hanno fatto.

La doppia morale che sottende alla politica dell’imperialismo — e qui è interessante un libro di alcuni anni fa, ‘La guerra del XXI secolo’, di Lester Thurow — si è manifestata più volte nel riconoscere o destabilizzare governi sorti da azioni militari. Un esempio del primo caso è quello di Pinochet in Cile; per il secondo, si può citare quello di Torrijos a Panama.

Gli eserciti e lo Stato nazionale

Dalle insurrezioni della Rivoluzione francese e dalla scomparsa della Santa Alleanza, la consolidazione della democrazia borghese e il rafforzamento dello Stato nazionale si sono ottenuti, in gran parte, grazie alla partecipazione degli eserciti plebei europei.

Due secoli prima, l’esercito delle “teste rotonde” di Oliver Cromwell aveva garantito i diritti della borghesia urbana e dei mercanti puritani con la decapitazione di Carlo I. Tagliare la testa al re per assicurare lo sviluppo della democrazia in Inghilterra non è un argomento molto citato. Ma è successo.

Alle grandi potenze non piace ricordare il proprio passato rivoluzionario, perché oggi sono concentrate su altro: evitare rivoluzioni che mettano in pericolo la loro egemonia.

Sembra esserci una memoria selettiva che cerca di far dimenticare l’intimo legame che esiste tra rivoluzione e democrazia. Ma la storia si ostina a ricordarcelo.

Un secolo prima della Rivoluzione francese, l’esercito di Cromwell garantì i diritti del popolo e la sovranità nazionale dell’Inghilterra. Per quanto possa sembrare contraddittorio, gli eserciti furono pilastri nella costruzione delle democrazie che oggi, i Paesi centrali, esibiscono come modelli.

Oggi, con arsenali sofisticati capaci di distruggere più volte il pianeta, sono proprio quegli Stati a promuovere il proprio militarismo mentre denigrano quello dell’America Latina, ad esempio.

La ragione è molto semplice: il militarismo di senso nazionale implicherebbe la partecipazione degli eserciti latinoamericani in un processo politico volto a consolidare lo Stato nazionale e il processo di integrazione in corso, riprendendo così il ruolo storico svolto ai tempi di Bolívar e San Martín.

Quando il militarismo è stato promosso nel nostro continente dai Paesi egemonici, lo è stato sempre nell’ottica di fomentare conflitti. Tale fu la storica e abile politica britannica in Sud America, basata sul principio “dividi e impera”, applicato agli eserciti di Cile, Argentina e Brasile.

Esercito e capitalismo 

Benché tutti gli eserciti d’Europa abbiano assolto, in un modo o nell’altro, funzioni analoghe a quelle dell’esercito di Cromwell in Inghilterra — ossia contribuire alla formazione dei moderni Stati nazionali e permettere così lo sviluppo di un’economia capitalista e di una società borghese — già da prima i paesi europei si erano lanciati nella conquista predatoria del resto del mondo.

Tale processo politico modificò — e non poteva essere altrimenti — il senso puramente nazionale delle loro forze armate. Queste si trasformarono così in eserciti d’occupazione, assumendo un ruolo aggressivo: imperialista.

Nei paesi periferici — del Terzo Mondo — che erano stati trasformati in colonie, non esisteva di fatto un esercito nazionale. L’esercito straniero agiva come forza d’occupazione. Così accadeva, ad esempio, con l’esercito francese in Algeria e in Vietnam. Come racconta Jorge Abelardo Ramos nel suo libro ‘Il marxismo delle Indie’ (1973), “nei paesi semicoloniali che devono realizzare la propria unità nazionale, il partito rivoluzionario deve elaborare una politica nei confronti dell’esercito. […] ci siamo riferiti alla differenza funzionale tra l’esercito algerino e quello francese, per prendere l’esempio più semplice. Nell’esercito algerino, i suoi capi socialisti non erano marxisti; al contrario, era guidato da capi della borghesia nazionale e appoggiato persino da sceicchi feudali. Ma, ad eccezione del Partito Comunista Francese, che si oppose all’indipendenza dell’Algeria, tutti i rivoluzionari del mondo sostenemmo la causa algerina. Era impossibile mettere sullo stesso piano l’esercito del maggiore Gualberto Villarroel nella Bolivia del 1943 e l’esercito “democratico” del generale MacArthur, nello stesso periodo”.

Le guerre nazionali di liberazione sorte alla fine degli anni 40 diedero origine ad eserciti non professionali che andarono a sostituire le forze colonialiste.

Se nei suoi primi tempi la colonizzazione si era caratterizzata per il saccheggio e la brutalità esercitati dalle potenze “civilizzate”, nelle sue fasi successive il saccheggio è proseguito, ma l’imposizione mediante la forza è stata relegata in secondo piano.

La manipolazione dei sistemi culturale ed educativo ha reso possibile una sottomissione più sottile ed efficace. Con ciò si è andado incorporando settori delle società delle colonie o semicolonie — giuridicamente Stati sovrani, politicamente dipendenti — nello schema di dominazione.

I paesi aggressori rappresentano la “civiltà”, e le loro culture nazionali vengono trasformate in qualcosa di essenzialmente contraddittoriocome la “cultura universale”.

I militari, come gli intellettuali, sono caduti nella trappola, e le eccezioni sono state pochissime. A coloro che cercavano di sottrarsi al “sistema”, esso riservava loro l’isolamento e il rifiuto.

La tradizione degli eserciti liberatori è stata sepolta e una campagna insidiosa, volta a dividere i paesi del continente, è stata imposta.

I mezzi di comunicazione sono uno strumento vitale per il successo di questa politica.

I due eserciti

In alcune nazioni più chiaramente che in altre, l’America Latina ha visto emergere ciò che potremmo chiamare il fenomeno dei due eserciti.

All’interno delle istituzioni armate si sono delineati due orientamenti politici globali dell’espressione politica castrense. Uno di essi è rappresentato da figure come i generali Torrijos di Panama, Perón in Argentina o Velasco Alvarado in Perù, i quali, in momenti storici differenti, hanno avviato processi rivoluzionari con ampio sostegno popolare e l’ostilità USA, ormai affermatisi come prima potenza mondiale.

L’altra corrente politica delle forze armate, alleata o al servizio dei gruppi minoritari ma potenti della società civile, è quella che ha applicato la dottrina della sicurezza nazionale promossa dagli USA, con le tragiche conseguenze ben note. Pinochet in Cile e Videla in Argentina sono due generali che simboleggiano, in modo lampante, questo orientamento.

L’insurrezione militare del 1992 contro il governo costituzionale di Carlos Andrés Pérez in Venezuela fu la manifestazione politica di un settore — in gran parte composto da giovani ufficiali — delle forze armate non assimilabili, bensì contrapposte, a esperienze come quelle di Pinochet o Videla.

La differenza sostanziale è segnata dalla simpatia raccolta tra ampi settori della società, al punto che, pochi anni dopo, il capo di quel movimento, il tenente colonnello in congedo Hugo Chávez, ottenne un netto 56% dei voti nelle elezioni presidenziali, la cui trasparenza non fu messa in dubbio da nessuno. Solo gli “illuminati” promotori di una democrazia formale priva di contenuti, accecati da pregiudizi antimilitaristi, potrebbero mettere in discussione la legittimità della rappresentatività di Hugo Chávez, anche dopo la sua sospetta morte. La storia ci dirà se il popolo venezuelano si è sbagliato o no, ma screditarlo per la sua origine militare è inaccettabile.

La democrazia non è patrimonio esclusivo dei civili che, del resto, in Venezuela come in molti altri paesi dell’America Latina non solo non sono stati capaci di esercitarla, ma l’hanno perfino prostituita, facendo della politica uno strumento di ambizioni personali o settoriali, con il conseguente discredito della funzione pubblica agli occhi della grande maggioranza della popolazione. Noi argentini ne siamo testimoni, nel pieno del 2025.

Nel bene o nel male, secondo i casi, le forze armate hanno svolto un ruolo di rilievo nella politica dell’America Latina. Pretendere di tenerle ai margini è assurdo. Sembra più sensato ridefinire il loro ruolo alla luce delle nuove circostanze.

Durante la rivoluzione del 1905, Lenin notò il turbamento e la perplessità che gli avvenimenti suscitavano nell’animo degli ufficiali e soldati dell’esercito zarista. Nel suo libro ‘La rivoluzione democratica e il proletariato’ segnalava che, dopo l’insurrezione della corazzata Potëmkin, ampi settori dell’ufficialità zarista — formata in parte dalla nobiltà — vacillavano nella loro fedeltà allo zar, si ammutinavano e passavano al campo rivoluzionario. Lenin considerava tale fatto come un episodio fondamentale per il destino della rivoluzione, poiché non era un uomo da frasi fatte — aborriva la fraseologia “rivoluzionaria” — e insegnò per tutta la sua vita che la classe operaia e il popolo non possono prendere il potere da soli senza una profonda crisi negli organi di coercizione e senza che una parte di essi si pronunci a favore della causa rivoluzionaria.

E questo accadeva nella Russia imperiale, nel cuore dell’autocrazia, dove l’ufficialità proveniva da famiglie e generazioni di proprietari terrieri, dove ancora regnava la servitù e dove i privilegi di casta e di classe assumevano un carattere mostruoso. Questo accadeva nell’esercito di un impero che opprimeva oltre 60 nazionalità, non in paesi come quelli dell’America Latina, dove i generali sono nipoti di immigrati o figli di commercianti.

La centralizzazione nazionale del potere

La principale differenza tra i paesi egemonici e quelli periferici non risiede nel progresso tecnologico, nei volumi del prodotto interno lordo, nel reddito pro capite o nella capacità decisionale sulle grandi questioni mondiali. Tutti questi fattori, e molti altri altrettanto o più importanti, sono conseguenza della differenza essenziale: la centralizzazione nazionale del potere. Definiamo sommariamente la centralizzazione nazionale del potere come la capacità di uno Stato di attuare sovranamente la propria politica.

È una verità ovvia che, oggi più che mai, la grande rivoluzione delle comunicazioni accentua l’interconnessione globale, e fa sì che ogni azione di rilievo abbia una ripercussione internazionale di diversa portata a seconda del paese che la genera; ma la rivoluzione delle comunicazioni è relativamente recente e il fenomeno a cui ci riferiamo risale alla nascita delle nostre patrie.

Il carattere semicoloniale — sovranità formale e subordinazione reale — dei paesi latinoamericani fa sì che le forze armate siano soggette a ogni genere di influenza. Tuttavia, poiché la debolezza storica dei nostri paesi si manifesta in una scarsa centralizzazione naxionale del potere, le forze armate, essenzialmente centralizzate nella loro organizzazione, diventano un obiettivo chiave della politica di dominio delle grandi potenze. Questo è diventato particolarmente rilevante oggi, per varie ragioni:

1-In America Latina le dittature civico-militari hanno già svolto il lavoro sporco.

2-Ora il posto delle dittature è occupato da democrazie formali che attuano la stessa politica: indebolimento del ruolo guida dello Stato, estrazione di ricchezza e concentrazione di ciò che resta nelle mani del ristretto gruppo interno di alleatt dei poteri egemonici.

3-Questa politica di drastica concentrazione della ricchezza comporta inevitabilmente una crisi economica da cui deriva la protesta sociale.

4-Il processo storico di dittature civico-militari seguite da pseudodemocrazie ha generato una classe politica corrotta e priva d’immaginazione — salvo rarissime eccezioni — incapace di rispondere alla grave crisi che essa stessa ha generato.

5-Ciò che la propaganda dei paesi del centro del capitalismo mondiale presenta come un problema essenzialmente economico, una questione “inevitabile” conseguente alla globalizzazione, è in realtà lo stesso processo di sfruttamento coloniale della periferia dello stesso sistema, in atto da secoli e che si adatta ai tempi: un tempo attraverso la sanguinosa e sfacciata satrapia dei corsari, oggi mediante l’elegante sofisticazione dei tecnocrati neoliberisti. Il risultato è lo stesso: i paesi impoveriti — che non sono necessariamente poveri — garantiscono il tenore di vita del primo mondo, ad esempio, attraverso l’emorragia di miliardi di dollari in interessi di un fraudolento e immorale debito estero.

Il “pericolo” interno

Così, le forze armate —insieme a quelle di polizia—, braccio armato di un progetto politico che attraverso la sua variabile economica rivela nel modo più crudo il proprio obiettivo, vengono nuovamente chiamate a essere protagoniste come repressori delle manifestazioni sociali del malcontento. Stavolta non è la scusa del comunismo, ma una realtà concreta: centinaia di milioni di latinoamericani affamati. I grandi strateghi del potere mondiale vogliono soluzioni drastiche e che siano altri a sporcarsi le mani di sangue e se si uccidono tra connazionali, tanto meglio.

In questo contesto, le ribellioni di settori militari nazionali e popolari, come quella dei Bolivariani in Venezuela, che non hanno smesso di raccogliere consensi tra i settori popolari, hanno assunto un carattere originale e pericoloso per il progetto politico di cui parliamo, i cui momenti più significativi sono, nel passato, il golpe del generale Pinochet e, nel presente, la “democrazia” dei tecnocrati laureati nelle università del primo mondo.

 Le forze armate, qui e altrove

In una potenza di prima classe come gli USA, dove il potere della società capitalista è altamente centralizzato e la politica estera è determinata in modo netto dagli interessi nazionali, dove esiste una borghesia nazionale interessata allo sviluppo del proprio paese, le forze armate svolgono un ruolo complementare. Sono state il braccio armato di un progetto nazionale che considerava, in un modo o nell’altro, grazie alla ricchezza di una potenza economica in ascesa, il benessere dell’intera società. Oggi, sebbene ampi settori della società USA stiano sperimentando le carenze del Terzo Mondo, questo ruolo non è cambiato… per ora. La partecipazione dell’esercito ai gravi disordini —uno dei più ricordati— di Los Angeles nel 1992 è stata un primo test.

In America Latina, tralasciando le specificità di ogni regione e di alcuni paesi in particolare, le caratteristiche fondamentali del ruolo delle forze armate sono state due: aver partecipato alla fondazione della nazione —un fatto essenzialmente politico— e l’alleanza ambivalente: a volte con il popolo —purtroppo, le meno— e altre con l’oligarchia locale.

La politicizzazione delle forze armate: una necessità

Per ragioni materiali e/o di formazione culturale, le classi dominanti dei nostri paesi sono sempre state intimamente legate ai centri mondiali del potere. Tale relazione, ovviamente, determina che nella stragrande maggioranza dei casi queste minoranze assumano come propri valori e visioni del mondo che sono essenzialmente estranei e persino contrari agli interessi del loro stesso paese.

Se si esamina con attenzione la storia dei colpi di stato in America Latina, si osserva che l’influenza delle oligarchie sui vertici delle forze armate è determinante. Dietro ogni Pinochet, dietro ogni Videla, ci sono uno o più civili che tracciano la rotta.

Inoltre, è materialmente impossibile che qualsiasi struttura militare possa dirigere con un minimo di efficienza le centinaia di migliaia di incarichi richiesti dal funzionamento dell’amministrazione pubblica, se non dispone del sostegno —e, di solito, della direzione— di settori politicamente organizzati della società civile e, non di rado, di partiti politici “democratici” e persino di “sinistra”. Per questo è imprescindibile parlare di dittature civico-militari e non semplicemente militari.

Le forze armate fanno parte della società, non ne sono al di fuori né rappresentano una società a parte. Ogni militare guarda la televisione, va a fare la spesa e ha un’opinione come qualsiasi altro cittadino. La sua formazione militare non deve necessariamente isolarlo dalla società; se ciò accade, è il risultato di una politica predeterminata che mira a desensibilizzarlo rispetto ai problemi sociali, affinché possa essere un buon repressore di chi si ribella contro l’ingiustizia e la violenza di coloro che esercitano il potere, espressa in disoccupazione, corruzione e impunità.

Se così non fosse, e si ristabilisse la comunione tra popolo ed esercito, quale sarebbe il destino delle minoranze che oggi concentrano potere e ricchezza?

Pur esistendo —e risultando necessarie— norme che regolano l’attività politica partitica dei militari, la politicizzazione —nel suo senso più ampio, ovvero l’interesse per gli affari della società in cui si vive— delle forze armate è una necessità imprescindibile. Ogni soldato deve avere piena consapevolezza del motivo per cui impugna le armi; deve avere una formazione storica, politica, economica e sociale che gli permetta di distinguere quando sta servendo gli interessi della nazione e quando invece si sta convertendo in mercenario delle minoranze alleate di interessi stranieri.

Chi assume l’impegno politico di lottare per una società realmente giusta deve sapere che per qualsiasi trasformazione radicale dei nostri paesi, nel bene e nel male, come conferma la storia, è necessario contare sulla partecipazione delle forze armate. I difensori dello status quo hanno saputo manipolarle, isolarle dal popolo ed educarle in funzione dei propri interessi. Chi ha tentato di eliminarle ha constatato tragicamente il proprio errore. Non sarà ora di coinvolgerle nella lotta per i veri interessi della nazione?

Imperialismo, colonialismo, semicolonie, oligarchia, rivoluzione, terzo mondo o sottosviluppo sono termini “passati di moda” secondo la visione dei profeti della “fine della storia” e dei loro ignoranti e/o interessati promotori, ma rimangono concetti di assoluta attualità per chi scrive. Il fatto che la rivoluzione tecnologica abbia permesso a chi detiene il controllo della politica mondiale di privilegiare la televisione, la radio e i media rispetto ai missili, non toglie che gli obiettivi e i risultati siano sempre gli stessi. Ieri, la politica del bastone; oggi, la “libertà di mercato”.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul media Tektónikos il 18 aprile 2025.


El imprescindible papel de los ejércitos en la política

Daniel Moser

De 1789 a 1917, o de Cromwell a Chávez, el rol militar fue clave en todo proceso de cambio.

Hace algunas semanas en Argentina se recordó, como sucede cada 24 de marzo, el golpe de Estado, cívico, militar y eclesiástico de 1976. La memoria histórica ha sido manipulada para que en el inconsciente colectivo se recuerde como el golpe militar, a secas, lo que ha generado la errónea idea de que se trató de una iniciativa de un grupo de militares que utilizó a civiles para cumplir sus propósitos, cuando fue todo lo contrario.

Las fuerzas armadas argentinas son parte indivisible de la historia de esa nación. Para mal y para bien ellas son un factor destacado en la fundación de la patria y en el proceso político y social más importante del siglo XX en nuestro país, el peronismo, cuyo líder —muchos parecen olvidarlo— fue un militar. También lo fue el más relevante estadista de la Patria Grande en el siglo XX y lo que va del XXI, el comandante venezolano Hugo Chávez Frías, quien en algunas entrevistas se explayó dando cuenta de su condición de estadista y militar.

El antimilitarismo, el confundir la institución castrense con algunos, muchos, no todos, de sus integrantes es funcional a los intereses del imperialismo y la oligarquía vernácula en Argentina, la cual desde 1976 a la fecha ha impuesto sus condiciones en lo político, en lo económico, en lo social y en lo cultural —digo hasta hoy porque luego de que, con la excusa de combatir a la guerrilla, asesinó y desapareció las vanguardias políticas, estudiantiles, culturales, gremiales impuso un proyecto de país conocido como el Proceso para, en 1983, mutarlo en “democracia” vacía de sustancia pasando del uso de los militares al uso de una partidocracia que, como hoy es más que evidente, es funcional a sus intereses. Habrá quienes distingan entre unos y otros partidos, obviamente no todos los políticos son idénticos, pero forman parte de lo mismo. Este es un tema de otro análisis.

No hay que estigmatizar a todos los militares, hay que cambiar los planes de estudio de las nuevas generaciones, que ni habían nacido en 1976, para que sean patriotas y no mercenarios al servicio de la oligarquía sino que sean integrados en las causas patrióticas, nacionales y populares. Ningún proceso revolucionario, como el que la Argentina requiere, puede concretarse sin la presencia de las armas, de preferencia con su función disuasiva.

La seguridad nacional en los países hegemónicos

Seguridad nacional es un concepto que pude prestarse a múltiples interpretaciones, que van desde la plasmada en la tristemente célebre “Doctrina de la seguridad nacional” hasta una visión integradora e incluyente en la que la defensa de los valores culturales, políticos y económicos de una nación son prioritarios. En cualquier caso, las fuerzas armadas desempeñan un papel determinante, sobre ello centraré mi comentario.

Existen innumerables ejemplos de cómo los países hegemónicos practican la política nacionalista, defensora del interés nacional, que desaconsejan a los nuestros. Remitámonos a algunos hechos:

1. Cuando los árabes amenazaron con adueñarse de la Mercedes-Benz a finales de los ochenta, el Deustche Bank intervino en representación de la economía alemana para adquirir las acciones ofrecidas en venta.

2. La Airbus, fabricante de aviones civiles, propiedad de los gobiernos británico, francés, alemán y español, se creó para quebrar el monopolio estadounidense y capturar un tercio del mercado mundial a mediados de los noventa. Para tener éxito, la Airbus necesitó 26 mil millones de dólares de inversiones oficiales y un mercado cautivo en forma de líneas aéreas de propiedad oficial.

3. En Alemania el proteccionismo está bien arraigado y resulta eficaz. Por ejemplo, las telecomunicaciones, la banca, los seguros, los servicios eléctricos y las industrias químicas actúan de hecho como cárteles, y es muy difícil que una empresa extranjera ingrese en esos mercados sin un socio alemán.

4. Japón, por su parte, ofrece muestras claras de nacionalismo. Nada podría ser más japonés y menos global que una empresa japonesa, aunque funcione en los cinco continentes. Los que deciden son japoneses, los accionistas también; la organización, la investigación y el desarrollo son japoneses.

5. China, con su capitalismo de Estado, es otro ejemplo contundente.

En todas las potencias también existen infinidad de obstáculos que confirman la falacia del “libre mercado”; estas incluyen leyes restrictivas, masivos subsidios oficiales, y sofisticadas y burdas barreras a las importaciones, cuya enumeración podría llenar las páginas de un voluminoso libro. ¿Servirá como ejemplo el caso del atún mexicano?

El papel político de las fuerzas armadas en América Latina

Durante décadas las fuerzas armadas latinoamericanas han actuado como guardianas de los intereses de las minorías vernáculas aliadas a factores de poder mundial. Pero es necesario, en una evaluación objetiva, hacer mención de su doble papel histórico, que también las ha puesto al lado del pueblo.

El antimilitarismo abstracto —en gran medida fomentado por la funesta participación que generalmente han tenido las fuerzas armadas en la política— suele impedir una comprensión del papel que las instituciones armadas desempeñan en la historia de nuestro continente.

Si los militares debieran encerrarse en sus cuarteles, tal vez los abogados en sus bufetes, los médicos en sus consultorios y los obreros en sus fábricas, habría que crear entonces una clase política en la que no participara nadie más que “políticos de carrera”. El punto no resiste el análisis.

El problema no es la participación de los militares en la política, sino la forma en la que lo han estado haciendo.

La doble moral que subyace en la política del imperialismo —y es interesante en este punto un libro de hace varios años ya, La guerra del siglo XXI, de Lester Thurow— se ha puesto de manifiesto una y otra vez a la hora de reconocer o desestabilizar gobiernos surgidos de acciones militares. Ejemplo del primero es el de Pinochet en Chile; para el segundo caso vale el de Torrijos en Panamá.

Los ejércitos y el Estado nacional

Desde los levantamientos de la Revolución Francesa y la desaparición de la Santa Alianza, la consolidación de la democracia burguesa y el fortalecimiento del Estado nacional se lograron, en gran parte, gracias a la participación de los ejércitos plebeyos de Europa.

Dos siglos antes, el ejército de los “cabezas redondas” de Oliverio Cromwell había asegurado los derechos de la burguesía urbana y de los comerciantes puritanos con la decapitación de Carlos I. Cortarle la cabeza al rey para asegurar el desarrollo de la democracia en Inglaterra no es un argumento muy oído. Pero sucedió.

A las grandes potencias no les agrada recordar su pasado revolucionario pues ahora están en otra cosa: evitar las revoluciones que pongan en peligro su hegemonía.

Parece haber una memoria selectiva que pretende dejar en el olvido la íntima relación que existe entre la revolución y la democracia. Pero la historia se empeña en recordarlo.

Un siglo antes de la Revolución Francesa, el ejército de Cromwell garantizó los derechos del común y la soberanía nacional de Inglaterra. Por contradictorio que parezca, los ejércitos fueron pilares en la consolidación de las democracias que hoy exhiben como modelos los países centrales.

Actualmente, con arsenales sofisticados capaces de destruir varias veces el planeta, son esos mismos Estados los que, al tiempo que fomentan el militarismo propio, denuestan el de América Latina, por ejemplo.

La razón es muy sencilla: el militarismo de sentido nacional implicaría la participación de los ejércitos latinoamericanos en un proceso político destinado a consolidar el Estado nacional y el proceso de integración en marcha, lo cual retomaría el papel histórico que practicaron en los tiempos de Bolívar y San Martín.

Cuando el militarismo ha sido fomentado en nuestro continente por los países hegemónicos, lo ha sido con el interés de crear enfrentamientos. Tal fue la histórica y eficiente política británica en América del Sur al imponer la máxima “divide y triunfarás” entre los ejércitos de Chile, Argentina y Brasil.

Ejército y capitalismo

Si bien todos los ejércitos de Europa cumplieron de un modo u otros fines análogos al de Cromwell en Inglaterra, esto es, contribuir a la formación de los modernos Estados nacionales y permitir de tal modo el desarrollo de una economía capitalista y una sociedad burguesa, ya antes los países europeos se habían lanzado a la conquista rapaz del resto del mundo.

Tal proceso político modificó —no podía ser de otra forma— el sentido puramente nacional de sus fuerzas armadas. Así, se transformaron en ejército de ocupación y adquirieron un papel agresor: imperialista.

En los países periféricos —del tercer mundo— que habían sido tomados como colonias no existía de hecho un ejército nacional. El ejército extranjero actuaba como fuerza de ocupación. Así sucedía con el ejército francés en Argelia y Vietnam, por ejemplo. Como cuenta Jorge Abelardo Ramos en su libro de 1973 El marxismo de Indias, “en países semicoloniales que deben realizar su unidad nacional, el partido revolucionario debe elaborar una política frente al ejército. […] nos hemos referido a la diferencia funcional entre el ejército argelino y el ejército francés, para tomar el ejemplo más simple. En el ejército argelino sus jefes socialistas no eran marxistas; por el contrario, los dirigían jefes de la burguesía nacional y lo apoyaban hasta jeques feudales. Pero, a excepción del Partido Comunista Francés, que se opuso a la independencia de Argelia, todos los revolucionarios del mundo sostuvimos la causa argelina. Era imposible situar en un mismo plano el ejército del mayor Gualberto Villarroel en la Bolivia de 1943 que al ejército “democrático” del general MacArthur, en la misma época”.

Las guerras nacionales de liberalismo surgidas a finales de la década de los cuarenta alumbrarían ejércitos no profesionales que desplazarían a las fuerzas colonialistas.

Si en sus primeros tiempos la colonización se caracterizó por el saqueo y la brutalidad que ejercían las potencias “civilizadas”, en sus etapas posteriores el saqueo continúa, pero la imposición por la fuerza ha sido desplazada a un segundo plano.

La manipulación de los sistemas cultural y educativo ha posibilitado un sometimiento más sutil y efectivo. Con él se ha ido incorporando a sectores de las sociedades de las colonias o semicolonias —jurídicamente estados soberanos, políticamente dependientes— al esquema de dominación.

Los países agresores representan la “civilización”, y sus culturas nacionales se transforman en algo esencialmente contradictorio como la “cultura universal”.

Los militares, como los intelectuales, cayeron en la trampa, y muy pocas fueron las excepciones. Para quienes pretendían escapar del “sistema”, este les reservaba el aislamiento y el repudio.

La tradición de los ejércitos libertadores era sepultada y una campaña insidiosa impulsada con el fin de dividir a los países del continente se imponía.

Los medios de comunicación son un instrumento vital para el éxito de esta política.

Los dos ejércitos

Con mayor claridad en unas naciones que en otras, América Latina vio el surgimiento de lo que podríamos llamar el fenómeno de los dos ejércitos.

Dentro de las instituciones armadas se perfilaron dos corrientes globalizadoras de la expresión política castrense. Una de ellas representada por figuras como los generales Torrijos de Panamá, Perón de Argentina o Velazco Alvarado de Perú, quienes en distintos momentos históricos iniciaron procesos revolucionarios que contaron con amplio respaldo popular y el hostigamiento de Estados Unidos, convertido ya en primera potencia.

La otra corriente política de las fuerzas armadas, aliada o al servicio de los grupos minoritarios pero poderosos de la sociedad civil, es la que ha venido aplicando la doctrina de la seguridad nacional impulsada por Estados Unidos, con las trágicas consecuencias conocidas. Pinochet en Chile y Videla en Argentina son dos generales que simbolizan contundentemente esta corriente.

La insurrección militar de 1992 frente al gobierno constitucional de Carlos Andrés Pérez en Venezuela fue la manifestación política de un sector —mayoritariamente compuesto por oficiales jóvenes— de las fuerzas armadas que no son semejables, sino contrapuestas, a experiencias como las de Pinochet o Videla.

La diferencia sustancial está marcada por la simpatía recogida entre amplios sectores de la sociedad, al punto que, pocos años después, el líder de dicho movimiento, el teniente coronel retirado Hugo Chávez, obtuvo un contundente 56% de votos en elecciones presidenciales cuya transparencia nadie cuestionó. Solo los “iluminados” promotores de una democracia formal sin contenido, cegados por prejuicios antimilitaristas, podrían poner en tela de juicio la legitimidad de la representatividad que posee Hugo Chávez, aun después de su sospechosa muerte. La historia nos dirá si el pueblo venezolano se equivocó o no, pero descalificarlo por su origen militar es inaceptable.

La democracia no es patrimonio de los civiles que, por cierto, en Venezuela como en muchos otros países de América Latina no solo no la han sabido ejercer sino que hasta la han prostituido, haciendo de la política un instrumento de ambiciones personales o sectoriales, con su consiguiente desprestigio y el de la función pública ante los ojos de la gran mayoría de la población. A los argentinos nos consta en pleno 2025.

Para bien o para mal, según los casos, las fuerzas armadas han cumplido un papel destacado en la política de América Latina. Resulta absurdo pretender mantenerlas al margen. Parece más sensato replantear su papel en las nuevas circunstancias.

Durante la revolución de 1905 Lenin advirtió la inquietud y perplejidad que los acontecimientos ejercían en el ánimo de los oficiales y soldados del ejército zarista. En su libro La revolución democrática y el proletariado señalaba que, después de la insurrección del acorazado Potemkin, grandes sectores de la oficialidad zarista —formada en parte por la nobleza— vacilaban en su fidelidad al zar, se amotinaban y se pasaban al campo revolucionario. Lenin consideraba ese hecho como un episodio fundamental para el destino de la revolución, pues no era un hombre que gustase de frases hechas —aborrecía la fraseología “revolucionaria”— y enseñó durante toda su vida que la clase obrera y el pueblo no pueden por sí solos tomar el poder sin una profunda crisis en los órganos de coacción y sin que parte de estos se pronuncien por la causa revolucionaria.

Y esto ocurría en la Rusia imperial, en el seno de la autocracia, donde la oficialidad provenía de familias y generaciones de terratenientes, donde todavía reinaba la servidumbre y donde los privilegios de casta y de clase revestían un carácter monstruoso. Esto ocurría en el ejército de un imperio que oprimía a más de sesenta nacionalidades, no en países como los de América Latina, donde los generales son nietos de inmigrantes o hijos de almaceneros.

La centralización nacional del poder

La principal diferencia entre los países hegemónicos y los periféricos no es el avance tecnológico, los volúmenes del producto interno bruto, el ingreso per cápita o la capacidad de decisión frente a los principales temas que afectan el mundo en su conjunto. Todos estos factores, y muchos otros de igual o mayor importancia, son consecuencia de la diferencia esencial: la centralización nacional del poder. Someramente definimos la centralización nacional del poder como la capacidad de un país de instrumentar soberanamente su política.

Es una verdad de perogrullo que, ahora más que nunca, la gran revolución de las comunicaciones acentúa la interrelación mundial, y hace que toda acción de importancia repercuta en escala internacional con distinto grado de trascendencia dependiendo del país que la genere; pero la revolución de las comunicaciones no tiene tanto tiempo y el fenómeno al que nos referimos se remonta al origen de nuestras patrias.

El carácter semicolonial —soberanía formal y subordinación real— de los países latinoamericanos determina que las fuerzas armadas estén sujetas a todo género de influencias. Sin embargo, como la debilidad histórica de nuestros países se manifiesta en la deficiente centralización nacional del poder, las fuerzas armadas, esencialmente centralizadas en su organización, se convierten en un objetivo clave de la política de dominación de las grandes potencias. Esto se volvió particularmente importante hoy, por varias razones:

1. En América Latina las dictaduras cívico-militares ya hicieron el trabajo sucio.

2. Ahora el lugar de las dictaduras lo ocupan democracias formales que llevan a cabo la misma política: debilitamiento del papel rector del Estado, extracción de riqueza y concentración de la que queda entre el minoritario grupo interno de aliados de los poderes hegemónicos.

3. Esta política de drástica concentración de la riqueza trae como inevitable consecuencia una crisis económica de la que deriva la protesta social.

4. El proceso histórico de dictaduras cívico-militares seguidas por pseudodemocracias ha generado una clase política corrompida y carente de imaginación, salvo contadísimas excepciones, que no tiene capacidad de responder a la grave crisis que genera.

5. Lo que la propaganda de los países del centro del capitalismo mundial difunde como un problema esencialmente económico, un asunto “inevitable” consecuencia de la globalización, es en realidad el mismo proceso de explotación colonial de la periferia del mismo sistema, que se viene registrando desde hace siglos y cuyo procedimiento se adecúa a los tiempos: en un principio mediante la satrapía sangrienta y descarada de los corsarios, ahora a través de la elegante sofisticación de los tecnócratas neoliberales. El resultado es el mismo: los países empobrecidos —que no necesariamente pobres— garantizan el nivel de vida del primer mundo mediante, por ejemplo, la sangría de miles de millones de dólares por concepto de intereses de la fraudulenta e inmoral deuda externa.

El “peligro” interno

Así, las fuerzas armadas —junto con las policiales—, brazo armado de un proyecto político que a través de su variable económica evidencia más crudamente su objetivo, son llamadas nuevamente a ser protagonistas como represoras de las manifestaciones sociales de la inconformidad. Ahora no es la excusa del comunismo sino una realidad concreta: los cientos de millones de latinoamericanos hambrientos. Los grandes estrategas del poder mundial quieren soluciones drásticas y que otros se llenen las manos de sangre, y si se matan entre compatriotas, mejor.

En tal contexto, las rebeliones de sectores militares nacionales y populares como el de los Bolivarianos en Venezuela, que no dejaron de obtener simpatía entre sectores populares, adquirieron un carácter original y peligroso para el proyecto político que comentamos, cuyos hitos más importantes son, hacia atrás, el golpe del general Pinochet y, en el presente, la “democracia” de los tecnócratas graduados en las universidades del primer mundo.

Las fuerzas armadas de aquí y allá

En una primera potencia como Estados Unidos, donde el poder de la sociedad capitalista es altamente centralizado y su política internacional está rotundamente determinada por los intereses nacionales, donde existe una burguesía nacional interesada por el desarrollo de su país, las fuerzas armadas cumplen un papel complementario. Fueron el brazo armado de un proyecto nacional que consideraba, de una u otra forma, por la riqueza de una potencia económica en auge, el bienestar de toda la sociedad. Hoy, a pesar de que amplios sectores de la sociedad estadounidense están adquiriendo las penurias del tercer mundo, este papel no se ha modificado… por ahora. La participación del ejército en los graves disturbios —uno de los más recordados— en Los Ángeles en 1992 fue un primer ensayo.

En América Latina, dejando de lado las particularidades de cada región y de algunos países en especial, las características fundamentales del papel de las fuerzas armadas han sido dos: haber participado en la fundación de la nación, un hecho esencialmente político, y su alianza ambivalente: unas veces con el pueblo —lamentablemente, las menos— y otras con la oligarquía vernácula.

La politización de las fuerzas armadas, una necesidad

Por razones materiales y/o de formación cultural, las clases dominantes de nuestros países han estado siempre íntimamente ligadas a los centros mundiales de poder. Tal relación, obviamente, determina que en la enorme mayoría de los casos estas minorías asuman como propios valores y puntos de vista que son esencialmente ajenos y hasta contrarios a los intereses de su propio país.

Si se examina con detenimiento la historia de los golpes de Estado en América Latina, se observa que la influencia de las oligarquías sobre las cúpulas de las fuerzas armadas es determinante. Detrás de cada Pinochet, de cada Videla, hay uno o más civiles que marcan el camino.

Además, es materialmente imposible que cualquier estructura militar pueda conducir con mínima eficiencia los cientos de miles de puestos que exige el funcionamiento de la administración pública, si no cuentan con el apoyo –y generalmente dirección– de sectores políticamente organizados de la sociedad civil y, no pocas veces, de partidos políticos “democráticos” y hasta de “izquierda”. Por eso se hace imprescindible hablar de dictaduras cívico-militares y no militares a secas.

Las fuerzas armadas forman parte de la sociedad, no están al margen de ella ni son una sociedad aparte. Cada uniformado ve la televisión, sale de compras y tiene una opinión como cualquier ciudadano. Su formación militar no tiene por fuerza que aislarlo de la sociedad; si lo hace, es como resultado de una política predeterminada que busca insensibilizarlo ante los problemas sociales para que pueda ser un buen represor de quienes se rebelan contra la injusticia y la violencia de los que ejercen el poder, reflejada en desocupación, corrupción e impunidad.

Si así no fuese, y se volviese a dar la comunión entre el pueblo y el ejército, ¿cuál sería el destino de las minorías que hoy concentran el poder y la riqueza?

Si bien existen –y son necesarias– normas que regulan la actividad política partidista de los militares, la politización –en su sentido más amplio, el del interés por los asuntos de la sociedad en la que se vive– de las fuerzas armadas es una necesidad imperiosa. Cada soldado debe tener plena conciencia de para qué empuña su arma; debe tener la formación histórica, política, económica y social que le permita discernir cuándo está sirviendo a los intereses de la nación y cuándo se convierte en mercenario de las minorías aliadas a intereses ajenos.

Quienes asumen el compromiso político de luchar por una sociedad realmente justa, deben saber que para cualquier transformación radical de nuestros países, para bien o para mal, como lo confirma la historia, es necesario contar con la participación de las fuerzas armadas. Los defensores del statu quo las han sabido manipular aislándolas del pueblo y educándolas a favor de sus intereses. Quienes han tratado de eliminarlas han comprobado trágicamente su error. ¿No será hora de incorporarlas a la lucha por los verdaderos intereses de la nación?

Imperialismo, colonialismo, semicolonias, oligarquía, revolución, tercer mundo o subdesarrollo son términos “pasados de moda” según la visión de los profetas del “fin de la historia” y sus ignorantes y/o interesados promotores, pero de absoluta vigencia conceptual para quien esto escribe. El hecho de que la revolución tecnológica haya permitido a quienes ostentan el control de la política mundial priorizar la televisión, la radio y los medios gráficos por sobre los misiles, no quita que los fines y sus resultados siguen siendo los mismos. Ayer, la política del garrote, hoy, la “libertad del mercado”.

Este artículo fue publicado originalmente en el medio Tektónikos el 18 de abril de 2025.

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