La lunga storia d’illegalità della politica USA in America Latina

Greg Grandin

Sembra che tutta la disonorevole storia dell’illegalità USA in America Latina si concentri nella vicenda di Kilmar Ábrego García: l’uomo la cui deportazione illegale in El Salvador e incarcerazione nel Centro di Confinamento del Terrorismo (Cecot) ha suscitato indignazione negli USA tra i difensori dei diritti umani e gli oppositori dell’amministrazione Trump.

Alcuni ritengono che l’arrivo di Ábrego García in El Salvador segni un nuovo, oscuro capitolo nella storia USA. In realtà, Washington da tempo sostiene e sfrutta l’illegalità in America Latina per perseguire i propri obiettivi.

Negli anni ‘70 e ‘80, regimi anticomunisti sostenuti dagli USA fecero “sparire” centinaia di migliaia di cittadini latinoamericani, in una forma di terrorismo di Stato che ricorda la Germania nazista. El Salvador divenne tristemente noto per queste “sparizioni” politiche. Circa 71000 persone, tra l’1 e il 2% della popolazione salvadoregna, furono uccise o fatte sparire.

Un aspetto chiave del terrore, allora, era l’ignoranza forzata. Amici e familiari dei “desaparecidos” si sfiancavano nel tentativo di lottare contro burocrazie labirintiche. I funzionari governativi alzavano le spalle di fronte alle loro domande, dicendo che probabilmente i loro cari erano fuggiti a Cuba o scappati con un’amante.

L’impunità del “fottiti”, esibita durante la recente visita di Bukele allo Studio Ovale, è un terrore di livello superiore.

Oggi, però, Trump, con l’aiuto del presidente salvadoregno Nayib Bukele, non sente il bisogno di simili scuse. L’impunità del “fottiti”, mostrata durante la recente visita di Bukele alla Casa Bianca, non mira a generare dubbi, ma impotenza. “Ovviamente non lo farò”, ha detto Bukele, quando gli è stato chiesto se avrebbe rimpatriato Ábrego García.

Circa il 2% della popolazione salvadoregna languisce nei gulag di Bukele, e il Paese ha il tasso di incarcerazione pro capite più alto del mondo, una cifra che, se rapportata agli USA, equivarrebbe a circa sette milioni di detenuti.

È come se, d’improvviso, nessuno riuscisse più a trovare gli abitanti dell’Arizona, per poi scoprire che sono stati spediti al Cecot.

Il movimento per riportare Ábrego García a casa, così come ogni sforzo per frenare la predatoria amministrazione Trump, è fonte di ispirazione. Tuttavia ogni deportato al Cecot merita la nostra attenzione. Il crimine di Stato non sta nell’avervi mandato una persona innocente “per errore”, ma nel fatto che chiunque vi sia stato mandato.

Il Cecot, tuttavia, non è un’eccezione nella storia USA in America Latina: ne è la continuazione. Non bisogna idealizzare i “bei vecchi tempi”, diceva Bertolt Brecht, quando si combattono i “nuovi cattivi tempi” del fascismo. Quel consiglio vale anche per gli sforzi del governo Trump di trasformare El Salvador in una discarica per le sue deportazioni di massa.

Washington è stata profondamente coinvolta nella brutale repressione storica in America Latina, contribuendo alla creazione di un formidabile sistema di squadroni della morte, campi di sterminio e voli della morte: elicotteri o aerei da cui i prigionieri politici venivano gettati in mare per essere affogati.

Condannate Trump ad alta voce. Esigete il ritorno di Ábrego García. Ma non dimenticate che gli USA da molto tempo perpetuano atti illegali in America Latina.

L’illegalità in America Latina

 

In America Latina, il confine tra combattere e favorire il fascismo è sempre stato labile. Durante la II Guerra Mondiale, Washington investì enormi risorse repressive nei Paesi vicini del continente come parte dello sforzo bellico contro il nazismo. Una volta vinta la guerra, però, le forze di sicurezza della regione — incoraggiate dall’amministrazione Truman — rivolsero le loro armi contro gli antifascisti latinoamericani.

Nel 1948, ad esempio, il Cile represse uno sciopero dei minatori con il suo esercito, rafforzato dagli USA. I militari, come ha scritto la storica Jody Pavilack, presero “il controllo totale delle miniere, delle città e delle campagne circostanti”, e  “inviarono centinaia di persone in campi di prigionia militari e ne esiliarono migliaia”.

Solo quattro anni prima, molti di quegli scioperanti avevano sentito il vicepresidente di Roosevelt, Henry Wallace, dire loro che rappresentavano la prima linea della democrazia. Ora si trovavano sulla linea della morte, braccati da un giovane capitano dell’esercito, Augusto Pinochet, che accerchiava i minatori di carbone e nitrati. Molti furono imprigionati nella colonia penale di Pisagua, nel deserto di Atacama — che Pinochet avrebbe poi riutilizzato, durante la sua dittatura successiva al 1973, come centro di detenzione e tortura e luogo di fosse comuni per le vittime del suo regime.

Anche l’Ecuador impiegò carri armati e aerei del programma di prestato e affitto degli USA per assediare una protesta studentesca. Anche Bolivia e Paraguay usarono mezzi blindati forniti dfagli USA per stroncare scioperi.

Con l’avanzare della Guerra fredda, Washington sostenne una serie di colpi di Stato, a partire da Venezuela e Perù nel 1948, che fecero dell’America Latina, entro la metà degli anni 70, un continente caserma.

La CIA si insinuò in quasi ogni aspetto della società civile. Tra i documenti recentemente desecretati sul caso dell’assassinio di J.F. Kennedy, vi è un rapporto in cui si afferma che l’agenzia aveva orchestrato le elezioni boliviane del 1966 come se fosse una produzione di Broadway, spendendo centinaia di migliaia di dollari sia per il candidato vincente sia per l’oppositore, in modo da rendere il processo “credibile”. L’operazione fu giudicata un “vero tour de force”. Cinque anni dopo, Washington rinunciò alle apparenze e si limitò a sostenere un golpe militare diretto in Bolivia.

Gli USA dotarono le agenzie di sicurezza e intelligence regionali di un enorme potere repressivo. Gli squadroni della morte latinoamericani non erano milizie indipendenti, ma la prima linea di una crociata continentale sempre più coordinata. Funzionari USA aiutarono a sincronizzare i servizi segreti nazionali latinoamericani in un’unica operazione chiamata Cóndor. Gli agenti ricevevano informazioni dalla CIA e comunicavano tramite un sistema continentale con base nella zona del Canale di Panama. Alcuni servizi di intelligence europei cercarono in Cóndor un modello per costruire i propri apparati repressivi.

Gli USA inviarono molti uomini in America Latina, spesso sotto l’egida dell’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (USAID), per istruire i latinoamericani all’arte della tortura. Nessuno fu più tristemente noto di Daniel Mitrione.

Mitrione arrivò in Brasile prima del golpe del 1964 orchestrato dalla CIA, come parte di una squadra il cui compito era applicare un “metodo scientifico” alla tortura. Fece lo stesso in Uruguay, dove inventò strumenti di tortura unici, come la “sedia del drago” fatta di metallo conduttore con barre mobili che schiacciavano gli arti del prigioniero nudo ogni volta che veniva erogata una scarica elettrica, creando profondi tagli nella pelle.

Allora come oggi, l’assenza totale di responsabilità non era solo un tratto comune tra i soci degli USA: era una condizione essenziale. In Brasile, Uruguay e altrove, i progetti egemonici dell’Impero richiedevano tale brutalità. Lo stesso accade oggi in El Salvador, dove Trump punta a usare un gigantesco centro di detenzione come discarica, senza controllo, per le deportazioni di massa.

L’entusiasmo con cui Trump, Bukele e altri hanno discusso il loro piano durante la recente riunione alla Casa Bianca è stato raccapricciante.

Orrori fatti in casa

 

Oggi cresce la preoccupazione che Trump voglia eliminare il giusto processo anche per i cittadini USA, tentando di incarcerare “criminali nostrani” nelle prigioni di El Salvador.

Eppure, durante la Guerra Fredda, decine di cittadini USA furono vittime delle forze di sicurezza finanziate dagli USA. Almeno sei furono detenuti nello stadio di calcio di Santiago del Cile, da Pinochet convertito in un campo di concentramento dopo il golpe del 1973, orchestrato dalla CIA.

Due di loro, Charles Horman e Frank Teruggi, furono fatti sparire da forze di sicurezza che agivano sulla base di informazioni fornite o confermate dalla CIA.

Ben Linder, che si trovava in Nicaragua utilizzando le sue conoscenze ingegneristiche per costruire una diga idroelettrica rurale e le sue doti di giocoliere e monociclista per intrattenere i bambini del posto, fu uno dei numerosi cittadini USA uccisi dai Contras guidati dagli USA.

In El Salvador, l’ambasciata USA ha eretto un monumento ai cittadini USA uccisi nella guerra civile del Paese. Commemora sia i soldati USA che lavorarono con gli squadroni della morte, sia gli attivisti uccisi da quegli stessi squadroni, tra cui le suore Maura Clarke, Ita Ford, Dorothy Kazel e la missionaria laica Jean Donovan. Le religiose furono stuprate e uccise nel 1980 dalla Guardia Nazionale salvadoregna, che agiva sotto gli ordini di ufficiali che, a loro volta, ricevervano ordini di sponsor USA.

L’ambasciatrice all’ONU di Reagan, Jeane Kirkpatrick, dichiarò con una logica morale simile a quella di Trump: “Le suore non erano solo suore. Erano attiviste politiche”. Bene, allora.

Democrazia e disumanizzazione

Le immagini dei gulag di Bukele — con prigionieri nudi, rasati e schiacciati l’uno sull’altro — hanno scioccato il mondo. Per molti osservatori le immagini evocano la disumanità delle navi negriere o dei campi di sterminio nazisti. Rappresentano una brutalità che per molti definisce l’America Latina, riflessa nella oscura storia della Guerra Fredda, dalle sparizioni alla tortura, passando per le detenzioni di massa fino ai voli della morte.

Ma queste storie non sono la totalità dell’America Latina. In parallelo alla disumanizzazione, vi è anche un’altra storia, di umanizzazione, una corrente emancipatrice che affonda le radici nell’opposizione alla Conquista spagnola.

L’intreccio e lo scontro di queste forze transnazionali sono visibili, in modo crudo, nell’El Salvador di oggi. Il Paese non è solo una colonia penale: è una terra abitata da persone che lottano per sopravvivere. La sua realtà è più complessa della semplice volontà di potere di Bukele e Trump, più profonda delle fotografie porno della crudeltà.

La maggior parte della stampa anglofona si concentra su avvocati e politici di classe media che si oppongono a Bukele. Ma spesso si dimenticano gli oppositori più poveri: attivisti contadini, sindacalisti, ambientalisti e femministe che mettono in gioco la propria vita.

I dirigenti dei movimenti di opposizione — soprattutto donne, ma anche ambientalisti e sindacalisti — vengono uccisi con regolarità. Chi non viene assassinato viene processato con accuse false in un sistema giudiziario che obbedisce al presidente. Bukele ha imposto un apparente stato d’eccezione permanente, accusando le organizzazioni della società civile di essere coperture per le bande criminali.

Secoli di violenza sembrano aver inciso a fuoco nei militanti una irrefrenabile capacità di riconoscere la dialettica nascosta nella brutalità, rispondendo a ogni corpo insanguinato — a ogni essere umano incarcerato illegalmente — con affermazioni sempre più radicali di umanità, sempre più organizzate.

Una femminista anonima, parlando delle donne condannate a lunghe pene per aver abortito, ha detto: “Dopo che vedi succedere una cosa del genere a qualcuno, ti entra nel sangue. La porti sulla pelle. Dopo quello che ho visto, come potrei non impegnarmi per i diritti delle donne?”.

Se la democrazia si misurasse con questo coraggio, allora El Salvador — e tutta l’America Latina, dove gli attivisti dei movimenti sociali lottano contro grandi ostacoli e affrontano grandi pericoli lottano per una società più equa — sarebbe uno dei luoghi più democratici della Terra.

Se c’è speranza lì, tra i salvadoregni, forse ce n’è anche per i loro vicini del Nord: non solo che gli USA smettano di sostenere e promuovere l’illegalità in America Latina, ma perché perfino l’illegalità si pieghi a un’aspirazione superiore: che tutti possiamo riconoscerci umani, gli uni agli occhi degli altri.

Greg Grandin è uno storico e autore del nuovo libro ‘America, America: una nuova storia del Nuovo Mondo’. È titolare della cattedra di Storia Peter V. e C. Vann Woodward presso l’Università di Yale; il suo libro ‘La fine del mito’ ha vinto il Premio Pulitzer per la saggistica nel 2020.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese su The Intercept, il 22 aprile 2025, ed è stato tradotto per Misión Verdad da Spoiler.


La larga historia de ilegalidad en la política de EE.UU. para América Latina

Greg Gardin

Parece como si toda la deshonrosa historia de la ilegalidad estadounidense en América Latina se destilara en la saga de Kilmar Ábrego García: el hombre cuya deportación ilegal a El Salvador y encarcelamiento en el Centro de Confinamiento del Terrorismo (Cecot) ha desatado la indignación en Estados Unidos entre los defensores de los derechos humanos y los opositores a la administración Trump.

Algunos consideran que la llegada de Ábrego García a El Salvador marca un nuevo y oscuro capítulo en la historia de Estados Unidos, pero Washington lleva mucho tiempo apoyando y aprovechando la ilegalidad en América Latina para perseguir sus propios objetivos.

Durante las décadas de 1970 y 1980 los regímenes anticomunistas respaldados por Estados Unidos “desaparecieron” a cientos de miles de ciudadanos latinoamericanos, en una forma de terrorismo de Estado que se remonta a la Alemania nazi. El Salvador se hizo tristemente famoso por estas “desapariciones” políticas. Unas 71 mil personas, entre 1 y 2% de la población salvadoreña, fueron asesinadas o desaparecidas.

Un aspecto clave del terror, por aquel entonces, era el desconocimiento. Los amigos y familiares de “los desaparecidos” se agotaban lidiando con burocracias laberínticas. Los funcionarios del gobierno se encogían de hombros ante sus preguntas, diciéndoles que sus familiares desaparecidos probablemente se habían ido a Cuba o se habían escapado con una amante.

La impunidad de “jódete”, exhibida durante la reciente visita de Bukele al Despacho Oval, es un orden superior del terror.

Hoy, sin embargo, Trump, ayudado por el presidente salvadoreño Nayib Bukele, no siente necesidad de tales evasivas. La impunidad del “jódete”, exhibida durante la reciente visita de Bukele al Despacho Oval, es un terror de orden superior destinado no a generar dudas sino a infundir impotencia. “Por supuesto que no lo voy a hacer”, dijo Bukele cuando se le preguntó si devolvería a Ábrego García.

Alrededor de 2% de la población de El Salvador languidece en los gulags de Bukele, y el país registra la tasa de encarcelamiento per cápita más alta del mundo, una cifra comparable a la de unas 7 millones de personas en Estados Unidos.

Es como si, de repente, nadie pudiera dar cuenta de todos los habitantes de Arizona, solo para enterarse de que han sido enviados al Cecot.

El movimiento para que Ábrego García sea devuelto, al igual que cualquier esfuerzo para frenar la depredadora administración Trump, es inspirador. Sin embargo, todos los deportados al Cecot merecen nuestra atención. El crimen de Estado no consiste en que una persona inocente haya sido enviada allí por “error” sino que alguien haya sido enviado allí en primer lugar.

El Cecot, sin embargo, debe ser reconocido no como una aberración en la historia de Estados Unidos en América Latina sino como una extensión de la misma. No hay que idealizar los “buenos viejos tiempos”, decía Bertolt Brecht, cuando se lucha contra los “nuevos malos tiempos” del fascismo. Ese consejo es válido para los esfuerzos del gobierno de Trump por utilizar a El Salvador como receptáculo de sus desechos.

Washington estuvo profundamente implicado en la acérrima represión histórica hacia América Latina ayudando a crear un formidable sistema de escuadrones de la muerte, campos de exterminio y vuelos de la muerte: helicópteros o aviones que arrojaban a los presos políticos al océano para que se ahogaran.

Condenen a Trump en voz alta y segura. Exijan el regreso de Ábrego García. No olviden, sin embargo, que Estados Unidos lleva mucho tiempo perpetuando actos ilegales en América Latina.

La ilegalidad en América Latina

En América Latina la línea entre combatir y facilitar el fascismo ha sido fungible. Durante la Segunda Guerra Mundial Washington invirtió una enorme capacidad represiva en los vecinos del hemisferio como parte del esfuerzo bélico aliado contra el nazismo. Una vez ganada la guerra, las fuerzas de seguridad de la región, alentadas por la administración Truman, volvieron sus armas contra los antifascistas latinoamericanos.

En 1948, por ejemplo, Chile reprimió una huelga de mineros con su ejército fortificado por Estados Unidos. Los militares, según lo que escribió la historiadora Jody Pavilack, tomaron “el control total de las minas, las ciudades y el campo circundante” y “enviaron a cientos de personas a campos de prisioneros militares y desterraron a miles más de la región”.

Apenas cuatro años antes muchos de estos huelguistas habían oído al vicepresidente de Franklin Roosevelt, Henry Wallace, decirles que eran la primera línea de la democracia. Ahora se encontraban en la línea de muerte, perseguidos por un joven capitán del ejército, Augusto Pinochet, que acorralaba a los mineros del carbón y el nitrato. Muchos fueron detenidos en la colonia penal de Pisagua, en el desierto de Atacama —durante su dictadura posterior a 1973, Pinochet volvería a utilizar la colonia como centro de detención y tortura, y lugar de fosas comunes para las víctimas de su régimen—.

Ecuador también utilizó tanques y aviones del programa de préstamo y arriendo de Estados Unidos para sitiar una protesta estudiantil. Bolivia y Paraguay también desplegaron tanques suministrados por el país para disolver huelgas.

A medida en que avanzaba la Guerra Fría Washington respaldó una serie de golpes de Estado, comenzando en Venezuela y Perú en 1948, que a mediados de la década de 1970 convirtieron a América Latina en un continente de guarnición.

La CIA se interpenetró en casi todos los aspectos de la sociedad civil. Entre los documentos recientemente desclasificados relacionados con el asesinato de John F. Kennedy había un informe que revelaba que esa instancia montó las elecciones de 1966 en Bolivia como si se tratara de una producción de Broadway, gastando cientos de miles de dólares tanto en el candidato ganador como en su oponente para que el proceso pareciera “creíble”. La agencia juzgó su producción como un “auténtico tour de force”. Cinco años más tarde Washington prescindió de la pretensión y se limitó a respaldar un golpe militar directo en Bolivia.

Washington dotó a las agencias de seguridad e inteligencia de la región con un enorme poder represivo. Los escuadrones de la muerte latinoamericanos no eran vigilantes independientes sino las primeras líneas de una cruzada continental cada vez más integrada. Funcionarios estadounidenses ayudaron a sincronizar las unidades nacionales de inteligencia latinoamericanas en una única operación que funcionaba bajo el nombre de Cóndor. Sus agentes recibían información de la CIA y se comunicaban a través de un sistema continental de la agencia con base en la zona del canal de Panamá. Las agencias de inteligencia europeas buscaron en Cóndor lecciones sobre cómo construir sus propias máquinas de represión.

Estados Unidos envió a muchos hombres hacia América Latina, a menudo bajo los auspicios de la Agencia de Estados Unidos para el Desarrollo Internacional, o Usaid por sus siglas en inglés, para entrenar a latinoamericanos en el arte de la tortura. Ninguno fue más notorio que Daniel Mitrione.

Mitrione llegó a Brasil antes del golpe de Estado orquestado por la CIA en 1964, como parte de un equipo cuyo trabajo consistía en aplicar un “método científico” a la tortura. Hizo lo mismo en Uruguay, donde inventó instrumentos de tortura únicos. Uno de ellos era la “silla del dragón”, hecha de metal conductor, con barras articuladas que presionaban las extremidades del prisionero desnudo cada vez que se aplicaba una descarga, creando profundos cortes en la piel.

Entonces, como ahora, la ausencia total de rendición de cuentas no era simplemente un hilo común entre los socios de Estados Unidos; era una condición básica para las asociaciones. En Brasil, Uruguay y otros lugares los designios de dominación del Hegemón hicieron necesaria tal brutalidad, al igual que hoy en El Salvador, donde Trump pretende aprovechar un enorme centro de detención para crear un destino para deportaciones masivas que no rinda cuentas.

El regocijo con el que Trump, Bukele y otros en esa reciente reunión en la Casa Blanca discutieron su plan fue espeluznante.

Horrores hechos en casa

Hoy hay mucha preocupación de que Trump esté planeando eliminar el debido proceso de los ciudadanos estadounidenses al intentar encarcelar a “criminales hechos en casa” en las prisiones de El Salvador.

Sin embargo, durante la Guerra Fría, decenas de ciudadanos estadounidenses fueron víctimas de las fuerzas de seguridad financiadas por Estados Unidos. Al menos seis ciudadanos estadounidenses fueron detenidos en el estadio de fútbol de Santiago de Chile, que Pinochet había convertido en un campo de concentración tras el golpe de 1973 orquestado por la CIA.

Dos de ellos, Charles Horman y Frank Teruggi, desaparecieron a manos de las fuerzas de seguridad, que actuaron basándose en información de inteligencia proporcionada o confirmada por la CIA.

Ben Linder, que se encontraba en Nicaragua utilizando sus conocimientos de ingeniería para construir una presa hidroeléctrica rural y sus dotes de malabarista y monociclista para entretener a los niños locales, fue uno de los varios ciudadanos estadounidenses asesinados por los Contras dirigidos por Estados Unidos.

En El Salvador la embajada estadounidense ha erigido descaradamente un monumento a los ciudadanos estadounidenses asesinados en la guerra civil del país. Conmemora tanto a los soldados estadounidenses que trabajaron con los escuadrones de la muerte del país como a los activistas asesinados por esos escuadrones de la muerte, entre ellos las hermanas Maura Clarke, Ita Ford, Dorothy Kazel y la misionera laica Jean Donovan. Las monjas fueron violadas y asesinadas en 1980 por la guardia nacional salvadoreña que actuaba bajo las órdenes de oficiales, que a su vez recibían órdenes de patrocinadores estadounidenses.

La embajadora de Ronald Reagan ante Naciones Unidas, Jeane Kirkpatrick, dijo ncon una lógica moral similar a la de Trump: “Las monjas no eran solo monjas. Eran activistas políticas”. Bien, entonces.

Democracia y deshumanismo

Las imágenes de los gulags de Bukele —con prisioneros empujados unos contra otros, desnudos y con las cabezas rapadas— han llamado la atención del mundo entero. Para muchos observadores, las imágenes evocan la deshumanización de los barcos negreros y los campos de exterminio nazis. Representan una brutalidad que para muchos define a América Latina, reflejada en la oscura historia de la Guerra Fría, desde las desapariciones a la tortura, pasando por las detenciones masivas hasta los vuelos de la muerte.

Sin embargo, estas historias no son la totalidad de América Latina. Junto a toda la deshumanización corre otra historia, una de humanización, una corriente emancipadora cuyas raíces se remontan a la oposición a la Conquista española.

El entrelazamiento y los choques de estas corrientes supranacionales son crudamente visibles en El Salvador de hoy. El país no es simplemente una colonia penitenciaria; es una tierra llena de gente que lucha por sobrevivir, y su realidad es algo más que la voluntad de poder de Bukele y Trump, algo más que fotos porno de la crueldad.

La mayor parte de la cobertura en inglés de la resistencia a Bukele se centra en los abogados y políticos de clase media. Sin embargo, a menudo se pasan por alto los oponentes más pobres del presidente: los activistas campesinos, sindicales, ecologistas y feministas que, literalmente, se juegan la vida.

Los líderes de los movimientos de oposición, especialmente las mujeres, pero también los ecologistas y los sindicalistas, son asesinados a un ritmo constante. Muchos de los que no son asesinados son procesados por cargos falsos en un sistema judicial que cumple las órdenes del presidente. Bukele ha sometido al país a lo que parece un estado de excepción permanente, acusando a las organizaciones de la sociedad civil de ser tapaderas de las bandas.

Siglos de violencia parecían haber grabado a fuego en los activistas una capacidad irrefrenable para reconocer la dialéctica que se esconde tras la brutalidad y para responder a cada cuerpo ensangrentado —a cada ser humano encarcelado ilegalmente— con afirmaciones cada vez más firmes de humanidad, cada vez más organizativas.

Una activista feminista anónima, refiriéndose a las mujeres condenadas a largas penas de prisión por haber abortado, dijo que “después de ver cómo le ocurre esto a alguien, te corre por las venas. Lo llevas en la piel. Cuando pienso en implicarme en los derechos de la mujer, después de ver lo que pasan las mujeres, ¿cómo podría no hacerlo?”.

Si la democracia se midiera por ese coraje, entonces El Salvador y toda América Latina, donde los activistas de los movimientos sociales, contra grandes obstáculos y enfrentándose a grandes peligros, luchan por una sociedad más igualitaria, deben considerarse entre los lugares más democráticos de la Tierra.

Si hay esperanza allí, entre los salvadoreños, tal vez la haya también para sus vecinos del norte: no solo en que Estados Unidos deje de apoyar e impulsar la ilegalidad en América Latina, sino también en que incluso la propia ilegalidad se supedite a una aspiración superior: que todos nos humanicemos a los ojos de los demás.

Greg Grandin es historiador y autor del nuevo libro América, América: una nueva historia del Nuevo Mundo. Catedrático de Historia Peter V. y C. Vann Woodward en la Universidad de Yale, su libro El fin del mito ganó el Premio Pulitzer de No Ficción en 2020.

Este artículo fue publicado originalmente en inglés en The Intercept el 22 de abril de 2025 y fue traducido para Misión Verdad por Spoiler.

 

 

 

 

 

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