Irfaan Ali punta sul conflitto come strategia elettorale
Nel mezzo di una complessa congiuntura interna segnata da scandali, proteste e un crescente logoramento istituzionale, il presidente guyanese Irfaan Ali continua ad alzare il tono di scontro con il Venezuela, riattivando la sua offensiva legale internazionale presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIJ), decisione che esclude a priori qualsiasi possibilità di negoziazione bilaterale.
Questa posizione, che rompe con il quadro storico dell’Accordo di Ginevra — unico strumento valido riconosciuto dal Venezuela per risolvere la controversia sull’Esequibo —, non è casuale né isolata. Arriva proprio mentre la sua amministrazione affronta un’ondata di critiche legate alla corruzione, a tensioni preelettorali e al recente scandalo per la morte di Adrianna Younge.
Il comunicato del Ministero degli Esteri guyanese, pubblicato il 2 maggio, ha intimato al Venezuela di “rispettare” le misure provvisorie della CIJ, riaffermate il giorno precedente, che mirano a impedire lo svolgimento di elezioni nel territorio dell’Esequibo. Tuttavia, lontana dall’agire in modo neutrale, la Corte è stata strumentalizzata come punta di lancia degli interessi petroliferi anglo-statunitensi, con ExxonMobil come operatore intento a consolidare l’appropriazione illegale di un territorio storicamente venezuelano, ricco di idrocarburi.
Il 3 maggio la vicepresidente Delcy Rodríguez ha denunciato tramite le sue reti sociali che la Guyana agisce come “continuità dello spoglio coloniale” e ha ribadito che il Venezuela non riconosce la giurisdizione della CIJ. Ha inoltre affermato che nessuna sentenza manipolata dalla lobby petrolifera presso l’ONU costringerà Caracas a rinunciare alla propria legittima sovranità sull’Esequibo. In tale contesto, ha confermato che il paese eleggerà il prossimo 25 maggio le proprie autorità regionali nella Guayana Esequiba, in pieno esercizio della sua sovranità.
Sotto la facciata della difesa di presunti interessi nazionali, Irfaan Ali rivela una manovra di distrazione orchestrata per silenziare le voci critiche all’interno del proprio paese. Questa fuga in avanti, travestita da diplomazia, non solo alimenta il conflitto, ma conferma una strategia: usare la disputa territoriale per coprire le crepe di un governo in crisi.
Il crimine che ha incendiato Georgetown
La morte di Adrianna Younge, una bambina di 11 anni trovata senza vita nella piscina di un resort costiero, ha scatenato un’ondata di proteste e critiche che hanno messo in evidenza l’incapacità del governo guyanese di gestire con trasparenza e fermezza situazioni gravi. Sebbene le autorità abbiano attribuito il decesso a un annegamento accidentale, il contesto del caso e la risposta istituzionale hanno generato sospetti di insabbiamento, negligenza e abuso di potere da parte della polizia, portando l’Esecutivo a imporre il coprifuoco notturno a Georgetown.
Amici e familiari di Adrianna sostengono che la bambina sia stata rapita e uccisa come parte di un rituale religioso. Accusano i dipendenti del resort, che avrebbero anche ostacolato le ricerche, apparentemente con l’appoggio della polizia. Le critiche si sono aggravate quando si è saputo che le forze dell’ordine hanno impedito l’accesso ai soccorritori e ai familiari nel complesso dove, in seguito, è stato trovato il corpo. Sebbene la polizia affermi di stare interrogando il personale del resort, né l’azienda né i portavoce ufficiali hanno fornito risposte pubbliche convincenti.
L’operato delle autorità guyanesi nel caso di Adrianna è stato criticato per la evidente mancanza di rigore: dopo la scomparsa, l’hotel non è stato né chiuso né ispezionato come richiesto, e solo la pressione popolare ha permesso il ritrovamento del corpo. In seguito, l’edificio è stato distrutto da un incendio di cui non sono ancora chiare le cause. Inoltre, la polizia ha diffuso informazioni errate sulla posizione della bambina, alimentando i dubbi su un possibile insabbiamento e manomissione della scena.
Il 28 aprile, mentre tre patologi eseguivano un’autopsia nell’ospedale principale della capitale, sono esplose proteste davanti all’edificio. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni e proiettili di gomma, in una giornata che si è conclusa con due civili uccisi, accusati di saccheggio, e decine di esercizi commerciali chiusi.
Di fronte alle mobilitazioni e all’indignazione nazionale, il presidente Ali ha definito le proteste come “azioni istigate politicamente”, evitando di concentrarsi sull’indagine. Pur annunciando una commissione speciale, non sono stati forniti né i nomi dei componenti né i meccanismi a garanzia della sua autonomia e imparzialità.
Corruzione istituzionale come norma, non come eccezione
“Da quando Irfaan Ali ha assunto la presidenza nell’agosto 2020, all’ombra di 19 accuse di frode, molti speravano che potesse lasciarsi alle spalle quel fardello e offrire la guida di cui la Guyana aveva bisogno”.
Così si è espresso Lincoln Lewis, segretario generale del Congresso dei Sindacati della Guyana, in una colonna pubblicata su WiredJa, in cui ha ricordato che Ali aveva promesso in campagna elettorale di rinegoziare il contratto illegale con ExxonMobil, migliorare gli stipendi del settore pubblico, riaprire gli zuccherifici, ridurre i salari del presidente e dei suoi ministri, eradicare la corruzione e ripristinare l’istruzione universitaria gratuita. A quasi cinque anni dal suo mandato, queste promesse si sono dissolte.
Uno dei punti caldi è la corruzione all’interno della Polizia Nazionale. Secondo Village Voice News, alti funzionari sono coinvolti in schemi di riciclaggio di denaro e malversazione di fondi pubblici, inclusi acquisti fraudolenti di beni quotidiani come sale e carta igienica, rivenduti tramite aziende create dagli stessi ufficiali. Anche i fondi del Fondo Centrale di Assistenza e del Fondo Benevolo sarebbero stati abusati, senza che il presidente Ali abbia mai rilasciato dichiarazioni, nonostante le crescenti richieste di un’indagine indipendente.
La corruzione non si limita all’ambito della sicurezza. Transparency International ha evidenziato nel, febbraio 2024, lo stallo della Guyana nell’Indice di Percezione della Corruzione, dove ha ottenuto un preoccupante 39/100, piazzandosi al 92° posto su 180 paesi. L’organizzazione ha denunciato nepotismo, opacità nella gestione dei proventi petroliferi e favoritismi nell’assegnazione dei contratti. Casi come le dimissioni dell’ex CEO dell’Autorità Centrale per l’Edilizia, Sherwyn Greaves, o il licenziamento del commissario assistente Calvin Brutus — accusato di oltre 250 reati — riflettono una tendenza sistemica.
L’avvocato e parlamentare dell’opposizione Roysdale Forde ha anch’egli criticato la gestione Ali, denunciando un “favoritismo sfacciato” nell’assegnazione dei contratti e l’esistenza di concessioni petrolifere illegali estremamente vantaggiose per compagnie straniere come ExxonMobil. Secondo Forde, miliardi di dollari di fondi pubblici destinati a progetti infrastrutturali sono stati malversati o dirottati, con il clientelismo politico e la corruzione come cause principali. Sostiene che i contratti per la costruzione di strade e la riparazione di ponti vengano sistematicamente affidati a fedelissimi del partito, molti dei quali privi della capacità tecnica per eseguire le opere.
Forde afferma che non si tratta semplicemente di inettitudine ingegneristica. “È il risultato di decisioni politiche mosse da tangenti, favoritismi e furti spudorati”.
La situazione si aggrava ulteriormente se confrontata con la cosiddetta maledizione delle risorse. Mentre imprese come ExxonMobil registrano ricavi globali astronomici — pari a 28 volte il PIL guyanese — milioni di cittadini non vedono miglioramenti concreti nella loro qualità della vita. Nel 2022, il 43% della popolazione viveva ancora con meno di 5,50 dollari al giorno, secondo dati dell’ECOSOC (Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite).
A ciò si aggiunge il rifiuto del presidente Ali di rinegoziare contratti petroliferi svantaggiosi e illegali, nonostante il sostegno dell’opposizione e la pressione dell’opinione pubblica. Come riporta WiredJa, il suo mandato è stato segnato da mancanza di decisione politica e incapacità di incanalare i proventi del petrolio verso politiche di sviluppo sostenibile e inclusivo.
L’ombra dell’Esequibo come strategia elettorale
Le elezioni generali sono previste per il 2025, anche se non è ancora stata fissata una data ufficiale. Oltre alla presidenza, saranno in palio i 65 seggi dell’Assemblea Nazionale.
Il partito di governo, il Partito Popolare Progressista (PPP/C), che nel 2020 ha ottenuto una risicata maggioranza parlamentare — 33 seggi su 65 — teme di perdere terreno di fronte a un’opposizione che si presenta più coesa e aggressiva. Il Congresso Nazionale del Popolo Riformato (PNCR), guidato da Aubrey Norton, e l’Alleanza per il Cambiamento (AFC), capeggiata da Nigel Hughes, hanno fatto della lotta alla corruzione la loro principale bandiera, puntando direttamente contro l’amministrazione Ali.
Bharrat Jagdeo, vicepresidente della Guyana, ha ammesso che il PPP ha dovuto passare all’offensiva. In dichiarazioni riportate da Demerara Waves nel settembre 2024, ha detto che nel 2015 sottovalutarono il potere delle denunce di corruzione. “Dobbiamo combatterle, non abbiamo fatto abbastanza nel 2015”, ha risposto quando gli è stato chiesto se le analisi del partito indicassero un possibile fallimento elettorale nel 2025 a causa di queste accuse.
È in questo contesto che si riattiva la disputa sull’Esequibo come cortina fumogena, rilanciando l’idea di una minaccia esterna per tentare di unire la popolazione attorno a un nemico comune. Questa mossa mira a delegittimare le critiche interne e a posizionare il governo come difensore della patria, mentre i problemi strutturali rimangono irrisolti.
La CIJ, ben lontana dal mantenere una posizione imparziale, finisce per avallare questa strategia allineandosi con un governo che risponde a interessi aziendali come quelli di ExxonMobil.
Così, la Guyana soffre le conseguenze di una tragica farsa: le sue autorità si presentano come vittime in nome della “sovranità”, mentre autorizzano illegalmente il saccheggio straniero di risorse in un territorio legittimamente rivendicato dal Venezuela.
Irfaan Ali apuesta al conflicto como estrategia electoral
Guyana: crisis, corrupción y la cortina del Esequibo
En medio de una compleja coyuntura interna marcada por escándalos, protestas y creciente desgaste institucional, el presidente guyanés Irfaan Ali continúa subiendo el tono confrontativo contra Venezuela al reactivar su ofensiva jurídica internacional ante la Corte Internacional de Justicia (CIJ), decisión que rechaza de plano cualquier posibilidad de negociación bilateral.
Esta postura, que rompe con el marco histórico del Acuerdo de Ginebra —el único instrumento válido reconocido por Venezuela para resolver la controversia sobre el Esequibo—, no es casual ni aislada. Llega justo cuando su administración lidia con una ola de cuestionamientos debida a la corrupción, a tensiones preelectorales y al reciente escándalo por la muerte de Adrianna Younge.
El comunicado del Ministerio de Relaciones Exteriores guyanés, publicado el 2 de mayo, exigió a Venezuela “cumplir” con las medidas provisionales de la CIJ, reafirmadas un día antes, que buscan impedir la celebración de elecciones en el territorio del Esequibo. Sin embargo, lejos de ejercer un rol neutral, la Corte ha sido instrumentalizada como punta de lanza de los intereses petroleros angloestadounidenses, con ExxonMobil como operador que busca consolidar la apropiación ilegal de un territorio históricamente venezolano, rico en hidrocarburos.
El 3 de mayo la vicepresidenta Delcy Rodríguez denunció a través de sus redes sociales que Guyana actúa como “continuismo del despojo colonial” y reiteró que Venezuela no reconoce la jurisdicción de la CIJ. Señaló, además, que ningún fallo amañado por el lobby petrolero en la ONU forzará a Caracas a renunciar a su legítima soberanía sobre el Esequibo. En esa línea, reafirmó que el país elegirá el próximo 25 de mayo a sus autoridades regionales en la Guayana Esequiba, en ejercicio pleno de su soberanía.
Bajo la fachada de proteger supuestos intereses nacionales, Irfaan Ali revela una maniobra de distracción orquestada para silenciar las voces críticas dentro de su propio país. Esta huida hacia adelante, con ropaje diplomático, no solo instiga al conflicto sino que confirma una estrategia: usar la disputa territorial para tapar las grietas de un gobierno en crisis.
El crimen que hizo arder Georgetown
La muerte de Adrianna Younge, una niña de 11 años hallada sin vida en la piscina de un resort costero, encendió un conjunto de protestas y cuestionamientos que han expuesto la incapacidad del gobierno guyanés para manejar situaciones de gravedad con transparencia y firmeza. Aunque las autoridades atribuyeron su fallecimiento a un ahogamiento accidental, el contexto del caso y la respuesta institucional han generado sospechas de encubrimiento, negligencia y abuso policial, lo que llevó al Ejecutivo a imponer un toque de queda nocturno en Georgetown.
Amigos y familiares de Adrianna sostienen que la niña fue secuestrada y asesinada como parte de un ritual religioso. Acusan de ello a empleados del complejo turístico, a quienes también responsabilizan de obstaculizar la búsqueda, aparentemente con respaldo policial. Las críticas se agravaron al conocerse que las fuerzas de seguridad impidieron el ingreso de los equipos de búsqueda y de los familiares al recinto donde, posteriormente, se halló el cuerpo. Si bien la policía informó que está interrogando al personal del resort, ni la empresa ni los voceros oficiales han dado respuestas públicas convincentes.
La actuación de las autoridades guyanesas en el caso de Adrianna ha sido cuestionada por su evidente falta de rigor: tras su desaparición, el hotel no fue clausurado ni revisado con el cuidado requerido, y solo la presión ciudadana logró que se encontrara su cuerpo. Posteriormente, el inmueble fue destruido por un incendio cuyas causas aun no se han aclarado. Además, la policía difundió información inexacta sobre el paradero de la niña, lo cual alimentó las dudas sobre un posible encubrimiento y alteración de la escena.
El 28 de abril, mientras tres patólogos realizaban una autopsia en el principal hospital de la capital, estallaron protestas frente al edificio. La policía respondió con gases lacrimógenos y balas de goma, en una jornada que terminó con dos civiles muertos, acusados de saqueo, y decenas de comercios cerrados.
Ante las movilizaciones y la indignación nacional, el presidente Ali las ha tildado de “acciones instigadas políticamente”, sin enfocarse en la investigación. Pese a anunciarse una comisión especial, no se precisaron ni los nombres de sus integrantes ni los mecanismos que aseguraran su autonomía e imparcialidad.
Corrupción institucional como norma, no como excepción
“Desde que Irfaan Ali asumió la presidencia en agosto de 2020, bajo la sombra de 19 cargos por fraude, muchos esperaban que pudiera dejar atrás ese lastre y ofrecer el liderazgo que Guyana necesitaba”.
Así lo expresa Lincoln Lewis, secretario general del Congreso de Sindicatos de Guyana, en una columna publicada en WiredJa en la que recordó que Ali prometió durante su campaña renegociar el contrato ilegal con ExxonMobil, mejorar los salarios del sector público, reabrir los ingenios azucareros, reducir los sueldos del presidente y de sus ministros, erradicar la corrupción y restablecer la educación universitaria gratuita. A casi cinco años de su mandato, estas promesas se han evaporado.
Uno de los focos es la corrupción dentro de la Policía Nacional. Según Village Voice News, altos mandos están implicados en esquemas de lavado de dinero y malversación de fondos públicos, incluidas compras fraudulentas de bienes cotidianos como sal y papel higiénico, revendidos a través de empresas creadas por los propios oficiales. Los fondos del Fondo de Bienestar Central y el Fondo Benevolente también habrían sido abusados, sin que el presidente Ali haya emitido comentario alguno pese a las crecientes demandas por una investigación independiente.
La corrupción no se limita al ámbito policial. Transparency International señaló en febrero de 2024 sobre el estancamiento de Guyana en el Índice de Percepción de la Corrupción, en el que obtuvo un preocupante 39/100 que lo lleva a ocupar el puesto 92 entre 180 países. La organización denunció nepotismo, opacidad en la administración de los ingresos petroleros y favoritismo en la asignación de contratos. Casos como la renuncia del exCEO de la Autoridad Central de Vivienda, Sherwyn Greaves, o el despido del comisionado Asistente Calvin Brutus —acusado de más de 250 delitos—, reflejan una tendencia sistémica.
El abogado y parlamentario opositor Roysdale Forde también ha criticado la gestión de Ali señalando un “favoritismo descarado” en la asignación de contratos y la existencia de concesiones petroleras ilegales excesivamente favorables para compañías extranjeras como ExxonMobil. Forde sostiene que miles de millones de dólares de fondos públicos asignados a proyectos de infraestructura se han malversado o desviado, con el clientelismo político y la corrupción como principales causas. Alega que los contratos de construcción de carreteras y reparación de puentes se adjudican rutinariamente a leales al partido, muchos de los cuales carecen de la competencia para ejecutar las obras.
Forde afirma que esto no es un mero accidente de ingeniería deficiente. “Es el resultado de decisiones políticas impulsadas por sobornos, favoritismo y robo descarado”.
La situación cobra una gravedad aun mayor cuando se contrasta con la llamada maldición de los recursos. Mientras empresas como ExxonMobil registran ingresos globales astronómicos —equivalentes a 28 veces el PIB guyanés—, millones de ciudadanos no perciben mejoras reales en su calidad de vida. En 2022, 43% de la población seguía viviendo con menos de 5,50 dólares diarios, según datos del Ecosoc (Consejo Económico y Social de la ONU).
A esto se suma la negativa del presidente Ali a renegociar contratos petroleros desventajosos e ilegales, a pesar del apoyo de la oposición y la presión pública. Como reporta WiredJa, su mandato ha estado marcado por la falta de decisión política y la incapacidad de canalizar los ingresos petroleros hacia políticas de desarrollo sostenible e inclusivo.
La sombra del Esequibo como estrategia electoral
Las elecciones generales están previstas para 2025, aunque todavía sin una fecha oficial confirmada. Además de la presidencia estarán en juego los 65 escaños de la Asamblea Nacional.
El gobernante Partido Popular Progresista (PPP/C), que en 2020 obtuvo una ajustada mayoría parlamentaria —33 de 65 escaños—, teme perder terreno frente a una oposición que llega más cohesionada y agresiva. El Congreso Nacional del Pueblo Reformado (PNCR), liderado por Aubrey Norton, y la Alianza para el Cambio (AFC), encabezada por Nigel Hughes, han hecho de la corrupción su principal bandera y apuntan directamente a la administración de Ali.
Bharrat Jagdeo, vicepresidente de Guyana, reconoció que el PPP ha tenido que pasar a la ofensiva. En declaraciones reseñadas en Demerara Waves en septiembre de 2024, dijo que en 2015 subestimaron el poder de las denuncias anticorrupción. “Tenemos que luchar contra esto, no hicimos lo suficiente en 2015”, respondió al ser interrogado sobre si los análisis del partido indicaban un posible fracaso electoral en 2025 debido a este tipo de acusaciones.
Es en este contexto donde utiliza la disputa sobre el Esequibo como una cortina de humo, reactivando la idea de una amenaza externa para intentar unir a la población en torno a un enemigo común. Este movimiento apunta a deslegitimar las críticas internas y posicionar al oficialismo como defensor del país, mientras los problemas estructurales continúan sin resolverse.
La CIJ, lejos de mantener una postura imparcial, termina avalando esta estrategia al alinearse con un gobierno que responde a intereses corporativos como los de ExxonMobil.
Así, Guyana sufre las consecuencias de una trágica farsa: sus autoridades se victimizan en nombre de la “soberanía” mientras autorizan ilegalmente la rapiña extranjera de recursos en un territorio legítimamente reclamado por Venezuela.