Non è forse strano che il governo USA si preoccupi del giusto pagamento dei lavoratori di un altro paese, quando non lo fa nemmeno per i propri?
Eppure è proprio questa stranezza a manifestarsi nella politica USA verso i medici cubani impegnati in missioni in diverse parti del mondo. Secondo il governo di Donald Trump, si tratterebbe di “schiavi del regime”, poiché non ricevono il compenso che gli USA ritengono adeguato, e su questo presupposto è stata montata un’intera campagna internazionale contro tali missioni, basata sull’accusa che si tratterebbe di un reato di “tratta di esseri umani”.
Stiamo parlando di professionisti della salute – medici, infermieri e tecnici – che, attraverso accordi di cooperazione governativa, vengono contrattati per colmare il deficit di assistenza sanitaria in diversi paesi, in particolare nelle zone scarsamente servite dal personale medico locale. Sono previsti anche interventi d’emergenza di breve durata, con l’obiettivo di assistere le vittime di catastrofi naturali, pandemie o altre emergenze.
Si stima che oltre 400000 operatori sanitari cubani abbiano partecipato a missioni di questo tipo in 134 paesi, nella maggior parte dei casi gratuitamente, dal momento che in origine si trattava di un’opera di “solidarietà con altri popoli”, per cui i partecipanti non ricevevano alcun salario aggiuntivo, pur ottenendo diversi riconoscimenti da parte della società e dello Stato cubano. La cooperazione include anche la formazione di medici stranieri a Cuba, grazie a borse di studio offerte dal governo cubano ai paesi del Terzo Mondo.
Si intendeva, allora, come l’adempimento di un “dovere internazionalista”, in linea con i valori promossi dalla Rivoluzione cubana nella formazione dei propri cittadini. Inoltre, tale attività conferiva prestigio e influenza internazionale allo Stato cubano, che poteva così contrastare l’isolamento che la politica USA cercava di imporre al paese.
In seguito – sebbene restino gratuite le missioni nei paesi più bisognosi, si continuino a offrire borse di studio e le missioni d’emergenza non seguano criteri commerciali – l’incapacità dell’economia nazionale di sostenere tali spese su larga scala ha obbligato a richiedere un pagamento per la maggior parte dei servizi.
A seconda del paese e dell’accordo stabilito, questi medici ricevono uno stipendio per le spese, una parte del compenso viene depositata in valuta estera su conti cubani, e durante la missione mantengono il proprio stipendio in patria. Il resto del pagamento va allo Stato cubano e attualmente costituisce una delle principali voci esportabili del paese. Il suo peso nell’economia cubana e i benefici che porta alla politica estera spiegano la inusuale “vocazione giustiziera” degli USA nel caso di queste persone.
Con scarsi risultati, il governo USA ha compiuto ingenti sforzi per evitare la firma di questi contratti o incentivare la diserzione dei medici coinvolti. Nel 2006 fu lanciato il Programma di Parole per i Professionisti Medici Cubani (CMPP), che concedeva visti ai medici e alle loro famiglie se abbandonavano le missioni, anche se – paradossalmente – ciò non garantiva loro di poter esercitare la professione negli USA. Così, i medici cubani “sfruttati” finivano a “guidare Uber” per le strade di Miami.
Questo piano rimase in vigore fino agli ultimi giorni del governo di Barack Obama, nel gennaio 2017, nonostante mesi prima, durante la sua visita a Cuba, il presidente avesse dichiarato che “non si può negare il servizio prestato da migliaia di medici cubani ai poveri e ai sofferenti”. Nello stesso spirito, nel 2014, si era espresso l’allora segretario di Stato John Kerry, per giustificare la collaborazione straordinaria tra Cuba e USA nella lotta alla letale pandemia di Ebola in diversi paesi africani, che minacciava di espandersi al resto del mondo.
Quell’anno stesso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) assegnò al contingente medico cubano Henry Reeve la medaglia al merito Dr. Lee Jong-wook, “per l’aiuto ai più svantaggiati nel mondo”. Sia l’OMS che l’Organizzazione Panamericana della Sanità (OPS) hanno stipulato accordi con il governo cubano per l’impiego di questi medici in varie parti del mondo.
Pochissimi paesi hanno ceduto alle pressioni USA per porre fine a tale collaborazione. Recentemente, il segretario di Stato Marco Rubio, uno degli ideatori dell’assurdità di definire questi medici “schiavi”, ha ricevuto un netto rifiuto da parte di diversi governanti caraibici, quando li ha minacciati di vietare l’ingresso negli USA se avessero continuato a contrattare tali servizi.
In una conferenza stampa congiunta a Kingston, il primo ministro giamaicano, Andrew Holness, ha ribattuto a Rubio dicendo: “Sia chiaro, i medici cubani in Giamaica sono stati estremamente utili per noi… Noi siamo molto attenti a non sfruttare i medici cubani presenti qui. Ci assicuriamo che siano trattati secondo la nostra legislazione sul lavoro e che beneficino degli stessi diritti di qualsiasi altro lavoratore”.
Sebbene la commercializzazione abbia in parte modificato la natura originaria del servizio e aggiunto nuove problematiche alla sua esecuzione, esistono motivazioni oggettive, una coscienza radicata e una struttura consolidata che spiegano la disponibilità di questi medici a partecipare alle missioni, così come il fatto che solo lo Stato cubano sia in grado di offrire tale servizio a così tanti paesi nel mondo.
Di fronte all’impegno di fornire un’assistenza sanitaria universale, e dopo l’esodo della maggior parte dei medici allora presenti nel paese, una delle prime misure della Rivoluzione fu formare grandi quantità di medici, disposti a lavorare dove ce ne fosse bisogno, anche all’estero. Qualsiasi giovane che lo desideri e soddisfi i requisiti, può accedere al più alto livello della professione medica, senza spendere un centesimo: un’opportunità che esiste solo a Cuba e che implica un addizionale impegno morale verso la società.
Tuttavia, le dimensioni di questo servizio pongono anche limiti e contraddizioni. Sebbene in termini comparativi sia sempre stato uno dei settori pubblici meglio retribuiti del paese, i medici cubani sono ben lontani dal percepire ciò che meritano e di cui hanno bisogno per soddisfare pienamente le proprie necessità esistenziali.
Più che in qualsiasi altro ambito della vita nazionale, qui emerge una delle contraddizioni più importanti del socialismo cubano: si forma un capitale umano che il mercato del lavoro statale – dove si concentra la maggior parte dell’occupazione – non è in grado di assorbire e compensare adeguatamente.
Il medico cubano non è concepito per la libera professione, come in altri paesi, né è possibile esercitarla a Cuba. Ciò spiega la migrazione di alcuni non solo verso altri paesi, ma anche verso altre fonti di lavoro più remunerative all’interno dello stesso mercato nazionale. Fattori come la vocazione professionale e la coscienza sociale – con maggiore o minore intensità, a seconda dell’individuo, ma intrinsechi all’esercizio della medicina a Cuba – caratterizzano il lavoro di queste persone e spiegano la permanenza della maggioranza.
Questa discrepanza tra il contributo sociale e il salario percepito si è accentuata con l’attuale crisi economica che attraversa il paese. Medici e infermieri soffrono delle stesse carenze del resto della popolazione e, nonostante tutto, in condizioni spesso difficilissime, svolgono quotidianamente un lavoro che richiede un alto grado di dedizione e senso umanitario. In un certo senso sono “schiavi del dovere” e per questo il popolo cubano li apprezza e li distingue.
Pur con grandi sacrifici personali, le missioni all’estero consentono di alleviare in parte questa situazione. Si può sostenere che meritino di più – e sicuramente pochissimi si opporrebbero, anche a scapito di altri introiti necessari per il paese. È anche vero che la gestione non è stata priva di carenze e decisioni amministrative talvolta arbitrarie e controproducenti, che hanno generato lamentele e malcontento tra i medici. Si tratta di una gestione perfettibile, ma ogni cubano sa che nessuno è stato inviato contro la propria volontà, anzi spesso su propria richiesta – cosa che, tra l’altro, risulterebbe praticamente impossibile da imporre.
Solo una mente contorta può screditare uno sforzo che dovrebbe invece essere esaltato e imitato dai paesi più sviluppati – in particolare gli USA, che stanno piuttosto riducendo i propri programmi di aiuto internazionale – e diventare una pratica naturale delle relazioni umane. Il mondo ne ha bisogno, un mondo in cui abbondano i malati e mancano i medici e gli infermieri disposti a curarli.
Los “esclavos” cubanos: médicos por el mundo
Por: Jesús Arboleya Cervera
¿No resulta extraño que el gobierno de Estados Unidos se preocupe por el justo pago a los trabajadores de otro país, cuando no lo hace del propio?
Pues esta rareza es la que se manifiesta en la política norteamericana respecto a los médicos cubanos que cumplen misiones en diversas partes del mundo. Según el gobierno de Donald Trump son “esclavos del régimen”, porque no se les paga lo que Estados Unidos considera apropiado y toda una campaña internacional ha sido montada contra estas misiones, basada en el supuesto de que estamos en presencia de un delito de “trata de personas”.
Estamos hablando de profesionales de la salud –médicos, enfermeros y técnicos- que, mediante acuerdos de colaboración gubernamentales, son contratados para cubrir los déficits de asistencia sanitaria en diversos países, en especial son destinados a zonas escasamente atendidas por la fuerza médica local. También incluye misiones de emergencia a más corto plazo, con el objetivo de asistir a víctimas de catástrofes naturales, pandemias u otras contingencias.
Se calcula que más de 400 000 trabajadores de la salud cubanos han cumplido misiones de este tipo en 134 países, en la mayor parte de los casos de manera gratuita, toda vez que originalmente fue entendida como una tarea de “solidaridad con otros pueblos”, por lo que los participantes no recibían ningún salario adicional, aunque eran objeto de diversas formas de reconocimiento por parte de la sociedad y el Estado cubano. La colaboración incluye la formación de médicos extranjeros en Cuba, mediante becas que otorga el gobierno cubano a los países del Tercer Mundo.
Se entendía entonces como el cumplimiento de un “deber internacionalista”, que se ajustaba a los valores preconizados por la Revolución cubana en la formación de sus propios ciudadanos. Por demás, aportaba un prestigio e influencia internacional que el Estado cubano podía capitalizar, frente al aislacionismo en que pretendía sumir al país la política norteamericana.
Con posterioridad -aunque se mantiene la gratuidad en los casos de países más necesitados, continúan otorgándose becas y las misiones de emergencia no se rigen por criterios comerciales-, la incapacidad de la economía nacional para asumir estos gastos a gran escala, obligó a cobrar por la mayor parte de estos servicios.
En dependencia del país y el acuerdo que se establezca, estos médicos reciben un estipendio para sus gastos, que se suma a otra parte que se les deposita en bancos cubanos en divisas, así como mantienen su salario en Cuba durante el tiempo de la misión. El resto del pago por los servicios lo ingresa el Estado cubano y en la actualidad constituye uno de los principales renglones exportables del país. Su peso en la economía cubana y los beneficios que aporta a la política exterior, es lo que explica la inusitada “vocación justiciera” de Estados Unidos, en el caso de estas personas.
Con escasos resultados, el gobierno norteamericano ha hecho ingentes esfuerzos por evitar que se firmen estos contratos o promover la deserción de los médicos involucrados en los mismos. En 2006, puso en práctica el Programa de Parole para Profesionales Médicos Cubanos (CMPP, por sus siglas en inglés), que otorgaba visas a los médicos y sus familiares que abandonaran las misiones, aunque, paradójicamente, eso no implicaba poder ejercer la profesión en Estados Unidos, de manera tal que los “explotados” médicos cubanos terminaban “conduciendo Uber” en las calles de Miami.
Este plan estuvo vigente hasta los últimos días del gobierno de Barack Obama, en enero de 2017, a pesar de que meses antes, durante su visita a Cuba, el presidente había declarado que “no se puede negar el servicio que miles de médicos cubanos han prestado a los pobres y a los que sufren”. En el mismo sentido, en 2014, ya se había expresado el entonces secretario de Estado, John Kerry, con vista a justificar la inusual colaboración establecida entre Cuba y Estados Unidos para el combate a la letal pandemia del Ébola en varios países de África, la cual amenazaba con extenderse al resto del planeta.
Ese mismo año, la Organización Mundial de la Salud (OMS) otorgó al contingente de médicos cubanos Henry Reeve, la medalla al mérito Dr. Lee Jong-wook, “por la ayuda a los desfavorecidos en el mundo”. Y tanto la propia OMS como la Organización Panamericana de la Salud (OPS) han establecido convenios con el gobierno cubano para la utilización de estos médicos en diversas partes del mundo.
Muy pocos países han cedido a las presiones norteamericanas para que se ponga fin a esta colaboración. Recientemente, el secretario de Estado, Marco Rubio, uno de los arquitectos del dislate de convertir a los médicos en esclavos, se ganó un soberano rechazo de varios gobernantes caribeños, cuando los amenazó con prohibirles la entrada a Estados Unidos, si continuaban contratando estos servicios.
En conferencia de prensa conjunta en Kingston, el Primer Ministro jamaicano Andrew Holness refutó a Rubio diciendo: “Seamos claros, los médicos cubanos en Jamaica han sido tremendamente provechosos para nosotros… “Nosotros somos muy cuidadosos de no explotar a los médicos cubanos que están aquí. Nos aseguramos que son tratados acorde a nuestra legislación laboral y se benefician como cualquier otro trabajador”.
Aunque la comercialización ha modificado en cierta medida su naturaleza original y ha agregado otros problemas a su ejecución, existen razones objetivas, una conciencia instalada y una infraestructura creada, que explican la disposición de estos médicos a integrarse a estas misiones, así como la realidad de que solo el Estado cubano esté en condiciones de ofrecer este servicio a tantos países en el mundo.
Enfrentada al compromiso de proveer una atención médica universal, en medio del éxodo de la mayoría de los médicos entonces existentes en el país, una de las primeras medidas de la Revolución fue formar grandes cantidades de médicos, dispuestos a trabajar donde se les necesitase, incluyendo otros países. Cualquier joven que lo desee y cumpla con sus exigencias, puede acceder al máximo nivel de esta profesión, sin que le cueste un centavo, una oportunidad cuya generalización solo existe en Cuba y entraña un compromiso moral adicional con la sociedad.
No obstante, las dimensiones de este servicio también plantean sus propias limitantes y contradicciones. Aunque comparativamente siempre ha sido uno de los sectores públicos mejor pagados del país, los médicos cubanos han estado lejos de percibir lo que merecen y requieren para la satisfacción integral de sus necesidad existenciales.
Más claro que en cualquier ámbito de la vida nacional, aquí se plantea una de las contradicciones más importantes del socialismo cubano: se produce un capital humano que el mercado laboral estatal, donde radican la mayor parte de los empleos, no puede absorber y compensar a plenitud.
El médico cubano no está diseñado para la práctica privada, como en otros países, ni es posible ejercerla en Cuba, lo que explica la emigración de algunos, no solo hacia otros países, sino hacia otras fuentes de empleo más lucrativas en el propio mercado laboral nacional. Factores como la vocación profesional y la conciencia social, con más o menos intensidad según sea el individuo, pero consustancial al ejercicio de la medicina en Cuba, es lo que caracteriza el trabajo de estas personas y explica la permanencia de la mayoría.
Esta discrepancia entre el aporte social y el salario que reciben se incrementa en la actualidad debido a la crisis económica por la que atraviesa el país. Los médicos y enfermeros sufren las mismas carencias que la mayor parte de la población y, aun así, en medio de las condiciones más difíciles, cumplen de manera cotidiana con un trabajo que requiere un alto grado de dedicación y sentido humanitario. En cierta medida son “esclavos del deber” y por eso el pueblo cubano los aprecia y distingue.
No sin grandes sacrificios personales, las misiones en el exterior permiten aliviar en parte esta situación. Puede argumentarse que merecen más y, con seguridad, muy pocos se opondrían, aunque se afectaran otros ingresos necesarios para el país. También es cierto que la gestión no ha estado exenta de deficiencias y medidas administrativas a veces arbitrarias y contraproducentes, que han motivado quejas e inconformidades entre los galenos. Se trata de una gestión perfectible, pero cualquier cubano sabe que nadie ha sido enviado en contra de su voluntad, incluso de su deseo, lo que, por demás, resultaría prácticamente imposible.
Solo una mente torcida puede desmeritar un esfuerzo que debiera ser exaltado e imitado por los países más desarrollados, en especial Estados Unidos -que más bien anda reduciendo sus programas de ayuda al exterior-, y convertirse en parte natural de las relaciones humanas. Lo necesita un mundo donde sobran los enfermos y faltan los médicos y los enfermeros dispuestos a atenderlos.