È comune sentire, da molte persone, la domanda: come è possibile che un individuo come Donald Trump sia stato eletto presidente di un paese che, pur non garantendo l’istruzione universale, vanta centri di ricerca, università e istituzioni di pensiero avanzato in diversi ambiti?
La prima cosa da precisare, forse, è che, sebbene il 92% della popolazione abbia un livello di istruzione medio o superiore, si registrano 43 milioni di statunitensi che sono analfabeti funzionali (21%), cioè incapaci di comprendere il contenuto di un testo scritto per un adolescente dell’ottavo anno di scuola.
Un altro elemento da considerare è la complessità del sistema politico USA. Sarebbe logico supporre che una macchina politica che opera in 50 stati, 435 distretti elettorali e 30000 città incorporate nell’unione possa produrre dirigenti capaci di farsi un’idea chiara dei principali problemi del paese e delle loro potenziali soluzioni.
E di nuovo: com’è possibile che la maggioranza della gente abbia scelto questo individuo?
Per iniziare a rispondere a questi dubbi, va ricordato che la maggioranza delle persone con diritto di voto negli USA non partecipa, ripeto, non partecipa all’esercizio elettorale. Questa responsabilità ricade quindi su meno del 50% del corpo elettorale, ogni quattro anni. Se in quel paese il voto fosse obbligatorio, i risultati sarebbero ben diversi.
Dopo che i padri fondatori elaborarono la struttura di uno Stato e una costituzione che garantiva diritti solo a una minoranza, seguirono anni in cui la classe dominante si adoperò per progettare un sistema elettorale che rispondesse ancor più agli interessi di pochi. Non fu un’impresa di un giorno.
Dalla forma in cui si strutturarono i caucus o assemblee locali di ogni partito, al giorno (lavorativo) scelto per votare, alla posizione dei seggi elettorali, ai costi necessari per la propaganda e altre risorse pubbliche per divulgare le candidature, l’accesso alla stampa e ai mezzi di comunicazione in generale, alla necessità di spostarsi fisicamente su un vasto territorio, tutto lasciava intendere, sin dall’inizio, che solo chi aveva sufficienti risorse poteva farcela.
Sempre più il governo federale è diventato un’entità astratta, lontana dagli interessi delle persone comuni. Sempre più i gruppi a basso reddito sentivano che le decisioni prese a Washington DC non avevano nulla a che vedere con i loro problemi personali, a migliaia di chilometri di distanza. Era uno Stato concepito per preservare e mediare gli interessi dei grandi gruppi economici, non per equilibrare o distribuire equamente la ricchezza creata da tutti.
Sebbene queste tendenze abbiano avuto alti e bassi, e vi siano stati governi con agende populiste e persino bilanci detti di “welfare” (stato sociale ndt), la concentrazione del potere politico ed economico in poche mani è aumentata. Le strutture dei partiti sono state dominate da gruppi e cacicazgos (clientele) che raramente hanno voluto rinunciare ai privilegi derivanti dall’esercizio del potere.
E qualcuno, giustamente, dirà: ma questo è successo nella maggior parte dei paesi capitalisti e ci sono pochi casi, così eclatanti, come quello di Trump.
Bisognerebbe allora ricordare che ci sono state molte eccezioni a quella regola della presunta razionalità. Ogni volta che si sono verificate crisi sistemiche, frammentazioni delle economie locali e ristrutturazioni nei meccanismi di dominio, le strutture di potere del capitale hanno portato ai vertici del potere esecutivo individui come Adolf Hitler, Benito Mussolini e molti altri che non si sono certo distinti per brillantezza delle loro idee o ponderazione nelle loro decisioni.
Tornando però al contesto USA: se sappiamo già che oltre il 50% degli elettori non si interessa o non si sente coinvolto nella scelta del proprio presidente, allora bisogna analizzare come si comporta il restante. Contrariamente a quanto si crede, la fetta più grande di chi vota non è né democratica né repubblicana (tralasciando l’esistenza di altri partiti con presenza locale), ma è composta dai cosiddetti indipendenti.
Questi ultimi non sono registrati e non partecipano alle attività (militanti non è il termine che può essere utilizzato) organizzate da una o dall’altra struttura elettorale. Questo settore passa i quattro anni tra un’elezione e l’altra guardando da una parte e dall’altra, come un ventilatore, in attesa di vedere, qui o là, che qualcosa li attragga e li spinga a puntare su uno dei cavalli in corsa. Secondo sondaggi storici, i fattori decisivi possono andare dalla gestualità durante un discorso all’abbigliamento usato in ogni comizio. Raramente la scelta è legata a questioni di sostanza. Molti esperti dicono che la principale azione prima di votare è guardare il saldo della carta di credito o il portafoglio: se ci sono abbastanza fondi, che tutto resti com’è, a prescindere dal colore politico; se c’è meno potere d’acquisto e più bollette da pagare, allora che venga il cambiamento.
La realtà, ovviamente, è ben più complessa, considerando che in ogni elezione presidenziale l’elettore deve rispondere a più quesiti nella scheda elettorale e non solo indicare il presidente. Una particolarità del sistema USA è che si può vincere il voto popolare e perdere comunque le elezioni (Hillary Clinton 2016), a causa dell’esistenza del Collegio Elettorale, istituzione creata ai tempi della schiavitù per garantire una rappresentanza equa degli stati in base alla popolazione elettorale bianca.
Se accettiamo che la maggioranza degli stati vota sistematicamente per uno stesso partito da anni, allora concludiamo che le elezioni presidenziali si decidono in una porzione ancora più piccola dell’elettorato. Le risorse, le attenzioni e gli sforzi dei partiti si concentrano sui cosiddetti swing states (stati penduli), che oscillano nelle loro preferenze elettorali, in media tra 6 e 12 ad ogni tornata.
Se siamo pronti ad ammettere che il presidente USA non è necessariamente scelto dalla maggioranza dei votanti, allora conviene esaminare chi sono i candidati, quali sono le loro agende, chi li sostiene con più fervore — sino a comprendere come una persona con le caratteristiche di Donald Trump sia stata eletta. Ma anche soffermarsi sul contesto: che cosa sono oggi gli USA e quale ruolo gioca nel mondo.
Gli USA sono passati dall’essere la potenza economica e militare dominante dal 1945, a ritenersi vincitori della contrapposizione tra socialismo e capitalismo nel 1990. Ciò ha fornito loro — secondo la loro logica — le credenziali per cercare di sottomettere tutti i mercati e imporre regole di competitività che difficilmente qualcuno potrebbe imitare (Washington Consensus, ecc.). In politica e in ambito militare, in assenza di un grande rivale da additare, hanno generato lo spettro del terrorismo come spauracchio per giustificare spese militari enormi e guerre in Medio Oriente che hanno distrutto nazioni, mercati regionali, creato milioni di migranti indesiderati e sottratto risorse monetarie ai progetti interni, il tutto in funzione del profitto del complesso militare-industriale.
Nel radar degli osservatori USA di allora non è minimamente comparsa la sfida — impressionante — che avrebbero rappresentato nel medio e lungo periodo la Repubblica Popolare Cinese e altri esperimenti nella regione asiatica. Nessuno ha previsto le tendenze che si sono invertite in appena 30 anni.
La crisi economica globale, sopravvenuta nel 2008, ha messo in luce una nuova realtà per gli USA: all’interno esistevano molteplici livelli di sviluppo, c’erano settori vincitori e vinti della scommessa sul libero commercio, ampie zone del tessuto sociale erano distrutte e senza ripresa, il consenso politico era una specie in via di estinzione e raramente poteva essere utilizzato per soluzioni creative su scala nazionale. Due grandi correnti convivevano, allora, nella politica USA: migliorare l’immagine esterna del paese e immaginare progetti inclusivi all’interno (Obama 2008-2016), oppure cambiare le regole del gioco, applicare il “vale tutto” e non chiedere scusa per rappresentare una minoranza (Trump 2016-2020).
E allora sorge la seguente domanda: perché proprio Trump come individuo? Se si guardano i nomi dei candidati che aspirarono alla dirigenza del partito repubblicano del 2016, si nota che figure come Sarah Palin, John McCain e altri non offrivano un coefficiente intellettivo molto distante dal caso di cui ci si occupa. C’erano eccezioni, come Jeb Bush, con il pedigree di padre e fratello oltre a certe maniere di rispettare le regole del gioco.
Ma Trump è emerso per motivi molto specifici. Primo: ha lottato con più forza degli altri per una ragione personale — ottenere l’accesso alla politica per sfuggire a problemi legali che coinvolgevano lui e i suoi familiari. Nessun altro aveva una motivazione simile. Secondo: la sua “capacità” di essere un elemento dirompente, cioè l’irrispettosità verso ogni regola, il vale tutto. Il suo curriculum da ricattatore, per schiacciare la concorrenza nel settore edilizio, in stati famosi per la corruzione come New York e New Jersey fece impallidire, nella lotta, gli altri concorrenti.
A differenza della classe politica precedente, Trump non corteggiò tutti i settori sociali dell’elettorato USA. Si concentrò sul 27-30% rappresentato dai bianchi conservatori (alcuni evangelici, altri no), preoccupati per l’“oscuramento etnico” del paese, frustrati dalla crisi della vecchia economia e che reagivano in modo automatico di fronte a peccati come omosessualità e aborto.
E se questa logica non fosse sufficiente per conquistare il potere in un sistema che osserva sempre più irrispettosamente le cosiddette regole del gioco, allora bisogna considerare il grande sforzo fatto dai suoi rivali democratici per perdere sia nel 2016 che nel 2024. Per poco non ci sono riusciti anche nel 2020.
Nei cicli elettorali USA la grande domanda è quasi sempre chi vincerà. Ma dopo quanto osservato negli ultimi anni, forse bisognerebbe riformularla: chi farà di tutto per perdere? E infatti è difficile immaginare che, soprattutto nell’ultima tornata, i democratici fossero davvero intenzionati a ottenere una vittoria. L’elenco è interminabile: un candidato ottuagenario privo di carisma, una vice imposta dalla burocrazia, una convention chiusa che ha escluso la possibilità per la base di esprimersi, errori continui nella gestione dei temi, scarsa mobilitazione, investimenti di risorse in aree geografiche di dubbia resa, sostegno incondizionato a genocidi internazionali, rifiuto di accettare il ricambio generazionale nei vari livelli di direzione. Realmente hanno fatto grandi sforzi per perdere, e l’avversario gliene è stato grato.
Il risultato è noto. Nei suoi primi cento giorni, Trump — appassionato di reality show e ben connesso con chi gli ammiratori di tale genere — ha sorpreso chi ignorava la sua vita precedente. Non si può accusarlo di mentire, fingere, cambiare, o far finta di nulla. È stato realmente coerente, il più fedele alla sua mancanza di principi e alla sua esperienza anteriore da imprenditore irriverente con la concorrenza. Non è stato né sarà uno stratega, un visionario filosofico o un armonizzatore sociale. Non è salito al potere per fare del bene ad altri che non sia sé stesso e chi gli giura fedeltà assoluta, genuflessione e sottomissione.
Perché nella sua agenda, ogni giorno, propone qualche azione contro le regole stabilite e la verità condivisa? Molto semplice: i sistemi di regole esistenti — per evitare la crescita dei monopoli, per la tutela ambientale, per permettere l’emersione di nuovi attori economici, per l’innovazione scientifica — sono diventate asfissianti per molti settori interni e per riconquistare il terreno perso contro la concorrenza esterna.
Trump spera che la reiterazione del suo comportamento per tempo indeterminato possa convertire l’anormale in normale, riduca la capacità di reazione in un pubblico assuefatto ai messaggi dei media, distrugga le difese dei suoi amici democratici incapaci di coordinare un messaggio di risposta o riprendersi dalla sconfitta.
Il Sign. Trump ha speculato sull’idea di ricandidarsi, suscitando migliaia di commenti da parte di chi ignora quanti anni avrà nel 2028. La sua capacità di influenzare l’opinione pubblica potrebbe svanire presto, perché semplicemente non sarà in grado di mostrare i risultati a livello di soddisfare le aspettative che lui stesso ha creato. Potrà distruggere, opprimere, soggiogare, danneggiare terzi, ma in ogni caso l’American Dream –sogno americano- si trasformerà in incubo.
A questo punto vale la pena fare un paragone con momenti simili vissuti nelle sue dirigenze da civiltà che in passato hanno avuto una certa preminenza nella storia dell’umanità. La nuova domanda, da analizzare in un’altra occasione, sarebbe: le società in declino generano questo tipo di dirigenze nella sua fase terminale, oppure si tratta solo di un fenomeno congiunturale che sarà superato, parzialmente o totalmente, con il tempo a venire?
(Tratto da Radio Habana Cuba)
¿Por qué Trump?
Por: José Ramón Cabañas Rodríguez
Es común escuchar de muchas personas la pregunta de que cómo es posible que un individuo como Donald Trump haya sido electo presidente de un país que, aunque no garantiza la educación universal, cuenta con centros de investigación, universidades e instituciones de pensamiento avanzado en varias esferas.
Lo primero que habría que acotar quizás es que, si bien un 92 % de la población cuenta con un nivel medio o superior de enseñanza, se registran 43 millones de estadounidenses que son analfabetos funcionales (21%), es decir, que no comprenden el contenido de un texto redactado para un adolescente que cursa el 8º grado.
Otro elemento a tener en cuenta es la complejidad del sistema político estadounidense. Sería válido suponer que una maquinaria política que funciona en 50 estados, 435 distritos electorales y 30 000 ciudades incorporadas a la unión, podría producir líderes que puedan formarse una idea clara de los principales problemas del país y de sus soluciones potenciales.
Y de nuevo: ¿Cómo es que la mayoría de la gente eligió a este individuo?
Para comenzar a responder estas dudas debe recordarse que la mayoría de las personas con derecho al voto en Estados Unidos no, rpt, no participan en el ejercicio electoral. Esta responsabilidad recae entonces sobre menos del 50% del padrón electoral cada cuatro años. Si en ese país el ejercicio del voto fuera mandatorio otros serían los resultados.
Después de que los padres fundadores diseñaran la conformación de un estado y una constitución que garantizaba los derechos solo de una minoría, sobrevinieron años en los que la clase dominante se empeñó en diseñar un sistema electoral que respondiera aún más a los intereses de pocos. No fue tarea de un día.
Desde la forma en que se estructuraron los caucus o asambleas locales de cada partido, el día (laboral) escogido para el sufragio, la localización de los colegios, los gastos necesarios en propaganda y otros recursos públicos para divulgar las candidaturas, el acceso a la prensa y medios de comunicación en general, la necesidad de desplazarse físicamente por una extensa geografía, todo apuntaba desde muy temprano que solo lo podrían lograr aquellos que contaran con los recursos suficientes.
Cada vez más el gobierno federal se fue convirtiendo en una entelequia que se alejaba de los intereses de las mujeres y hombres de a pie. Cada vez más los grupos de menores ingresos, sentían que las decisiones que se tomaban en Washington DC no tenían relación alguna con sus problemas personales a miles de kilómetros de distancia. Era un estado que se había constituido para preservar e intermediar en los intereses de los grandes grupos económicos y no para equilibrar o repartir adecuadamente la riqueza que se creaba entre todos.
Si bien estas tendencias tuvieron altos y bajos, que hubo varios gobiernos con agendas populistas y que incluso existieron diseños de presupuestos que se llamaron de “bienestar social”, lo cierto es que fue creciente la concentración del poder político y económico en pocas manos y las estructuras partidistas fueron dominadas por grupos y cacicazgos que raramente estuvieron en disposición de deshacerse de las prebendas que concede el ejercicio del uso del poder.
Y alguien dirá con razón: pero es lo mismo que ha sucedido en la mayoría de los países capitalistas y hay pocos casos tan estridentes como el de Trump.
Habría que recordar entonces que ha habido muchas excepciones a esa regla de supuesta racionalidad. Cada vez que se han producido crisis sistémicas, fraccionamiento de las economías locales y reajustes en los esquemas de dominación, las estructuras de beneficio del capital lanzaron a lo más alto del poder ejecutivo a individuos como Adolfo Hitler, Benito Mussolini y muchos otros que no se caracterizaron precisamente por la brillantez de sus ideas, ni la ponderación de sus decisiones.
Pero volviendo al escenario estadounidense, si ya sabemos que más del 50% de los electores no se interesa, o no se siente atraído por la elección de su líder, entonces habría que analizar cómo se comporta el por ciento restante. Contrariamente a lo que se cree, el sector más grande de los que ejercitan el voto no son ni demócratas, ni republicanos (obviando que existen otros partidos de presencia local), pues son los llamados independientes.
Estos últimos no están registrados, ni asisten a las actividades (militantes no es el término que puede utilizarse) organizadas por una u otra estructura electoral. Ese sector se pasa los cuatro años que transcurren entre uno y otro ejercicio mirando de un lado a otro, con la misma cadencia de un ventilador de mesa, esperando ver aquí o allá algo que finalmente lo atraiga a apostar por alguno de los caballos ensillados para la ocasión. Según encuestas históricas, estas cuestiones definitorias pueden ir desde la gesticulación al lanzar los discursos, hasta la vestimenta que se usa en cada acto. Pocas veces la decisión viene por un tema de sustancia. Muchos conocedores de la materia plantean que la principal acción antes de votar es observar el saldo de la tarjeta de crédito, o mirar la billetera. Si hay suficientes fondos, que todo se quede como está, con independencia del color del partido. Si hay menos poder de compra y más facturas por pagar, pues entonces que venga el cambio.
La realidad, claro está, es mucho más compleja que todo eso, si recordamos que en cada elección presidencial el votante tiene que emitir su opinión en las boletas que contienen varias preguntas y no sólo responder a quién debe ser el presidente. Algo singular del sistema estadounidense es que usted puede ganar el voto popular y aún perder la elección (Hillary Clinton 2016), gracias a la existencia del llamado Colegio Electoral, institución creada en los tiempos de la esclavitud para garantizar una representación equitativa de los estados según su población electoral blanca.
Pero si partimos del registro de que la mayoría de los estados han votado consistentemente por uno u otro partido a lo largo de muchos años, entonces llegamos a la conclusión de que las elecciones presidenciales se deciden en una muestra aún menor del electorado. Los recursos, la atención y las energías de cada partido se concentran en los llamados estados pendulares, que registran una oscilación en sus preferencias y estos se calculan como promedio entre 12 y 6 de ellos en cada ejercicio.
Si estamos en condiciones de admitir que el presidente estadounidense NO es necesariamente elegido por la mayoría de los votantes, entonces es útil repasar quiénes son los candidatos, cuáles son sus agendas, los sectores más militantes que los apoyan, hasta poder llegar a comprender cómo una persona con las características de Donald Trump resulta electo. Pero también dedicar un tiempo al entorno: qué es Estados Unidos hoy y qué lugar ocupa en el mundo.
Estados Unidos pasó de ser el poder económico y militar más importante desde 1945, a considerarse ganador del enfrentamiento socialismo vs capitalismo en 1990. Ello le otorgó suficientes credenciales, según su racionalidad, para proponerse una agenda de rendir a sus pies todos los mercados y plantear reglas de competitividad que difícilmente alguien podría imitar (Consenso de Washington y todo lo demás). En el plano político y militar, a falta de un gran rival que culpar, generó el fantasma del terrorismo como bandera para aprobar grandes gastos militares e involucrarse en una serie de guerras en el Medio Oriente que destruyeron naciones y mercados regionales, generaron millones de migrantes no deseados y sustrajeron grandes recursos monetarios de proyectos domésticos en la retaguardia en función de las ganancias del complejo militar industrial.
En el radar de los observadores estadounidenses de la época no surgió ni por asomo el impresionante reto que supondría en el mediano y largo plazos en el plano económico y tecnológico la República Popular China y otros experimentos que tenían lugar en la región asiática. Nadie calculó las tendencias que se ha revertido en apenas 30 años.
La crisis económica global que sobrevino en el 2008 puso de relieve una nueva realidad para Estados Unidos: internamente existían muchos niveles distintos de desarrollo, había sectores ganadores y perdedores de la apuesta del llamado libre comercio, amplias zonas del tejido social de la nación estaban destruidos y sin recuperación, el consenso político era un animal en extinción y rara vez podría ser utilizado para soluciones creativas a escala nacional. Convivían entonces dos grandes tendencias en la clase política: mejorar la imagen exterior del país e imaginar proyectos supuestamente inclusivos hacia el interior (Obama 2008-2016), o cambiar las reglas del juego, aplicar el vale todo y no pedir disculpas por representar a una minoría (Trump 2016-2020)
Y la siguiente pregunta que viene al caso sería entonces ¿y por qué Trump como individuo?. Si se revisan los nombres de las figuras que aspiraron al liderazgo del partido antes del ejercicio del 2016, se podrá apreciar que personalidades como Sarah Pallin, John McCain y otros no ofrecían un coeficiente intelectual muy distante al caso que nos ocupa. Habría excepciones, claro está, como Jeb Bush, con el pedigrí del padre y el hermano, más ciertas maneras para respetar las reglas del juego.
Pero Trump asciende entre ellos por razones muy específicas. Primero luchó con más fuerzas que el resto por una razón muy particular: acceder al espacio político para evadir todos los problemas legales que lo perseguían a él y a familiares cercanos, ningún otro tenía un estímulo similar. Lo segundo sería su “capacidad” como elemento disruptor, es decir, el irrespeto a toda regla, el vale todo. Su currículo chantajista para aplastar al contrario en el sector de la construcción en estados tan desintoxicados de corrupción como New York y New Jersey, hizo palidecer en la contienda al más cercano competidor.
Contrariamente a lo hecho por toda la clase política que lo precedió, Trump no cortejó a todos y cada uno de los sectores sociales del electorado estadounidense. Se concentró en el 27-30% que significaban los blancos conservadores (unos evangelistas otros no), a los que le preocupaba el oscurecimiento étnico del país, que estaban frustrados por la debacle de la vieja economía y que reaccionaban en modo automático a pecados tales como la homosexualidad o el aborto.
Y si esta lógica no fuera suficiente para ganar el poder en un sistema que cada vez observa de manera más irrespetuosa las llamadas reglas de juego, entonces debemos considerar el gran esfuerzo que hicieron sus rivales demócratas para perder tanto en el 2016, como en el 2024. Casi estuvieron a punto de lograrlo también en el 2020.
En los ciclos electorales estadounidenses la gran pregunta es casi siempre quién va a ganar. Pero después de lo observado en los últimos años quizás haya que cambiar a quién hará todo lo posible por perder. Y es que resulta imposible imaginar que sobre todo en el último ejercicio los demócratas estaban realmente en función de lograr una victoria. La lista es interminable: candidato octogenario sin carisma, sustituta impuesta por la burocracia, convención cerrada sin dar posibilidades a las bases para expresarse, errores continuos en el tratamiento de los temas, baja movilización, inversión de recursos en zonas geográficas de dudosa retribución, apoyo irrestricto a genocidas internacionales, no aceptar la transición generacional en los distintos niveles de dirección. Realmente hicieron grandes esfuerzos por perder y el contrario se lo agradeció.
El resultado es ya el conocido. Durante sus primeros cien días, Donald que arrastra también una pasión por el reality show y una empatía con los admiradores del género, ha estado sorprendiendo a aquellos que nunca leyeron o conocieron acerca de su vida anterior. No se le puede acusar de mentir, actuar, mutar, o presumir. Ha sido realmente el más consistente de todos, el más fiel con su falta de principios y su experiencia anterior como contratista irreverente ante la competencia. No ha sido, ni será, un estratega de estado mayor, un visionario filosófico, ni un articulador de la armonía social. No accedió al poder para hacer beneficio a otros que no sean a sí mismo y a los que le juran total fidelidad, genuflexión y sumisión.
¿Por qué en su agenda todos los días aparece alguna acción contra los cánones establecidos y la verdad compartida? Muy sencillo: los sistemas de regulación establecidos para evitar el crecimiento monopólico, el daño al medio ambiente, para permitir el surgimiento de nuevos actores económicos, para que la ciencia conduzca la innovación, resultan ya asfixiantes para muchos sectores internos y para reganar el terreno perdido ante la competencia externa.
Trump aspira a que la reiteración de esta conducta por tiempo indeterminado pueda convertir en normal o anormal, reduzca la capacidad de reacción en un público adaptado al mensaje de los medios, destruya las defensas de sus amigos demócratas que no coordinan un mensaje de respuesta, ni se recuperan de la derrota aún.
El Sr Trump ha especulado sobre la posibilidad de reelegirse y ha generado miles de comentarios entre los que no recuerdan la edad que tendrá para el 2028. Su capacidad de arrastrar estados de opinión podrá desvanecerse en breve, porque sencillamente no estará en capacidad de mostrar resultados al nivel de las expectativas que ha creado. Si podrá destruir, aplastar, subyugar, dañar a terceros, pero en todo caso el sueño americano transitará a pesadilla.
En este punto vale la comparación con momentos similares vividos en sus liderazgos por civilizaciones que en el pasado tuvieron cierta preponderancia en la historia de la humanidad. La nueva pregunta que queda para analizar en otra oportunidad sería: las sociedades en quiebra generan este tipo de liderazgo en su etapa terminal, o ¿se trata solo de un fenómeno coyuntural que será superado parcial o totalmente en el tiempo por venir?
(Tomado de Radio Habana Cuba)