Il capitalismo della frammentazione e l’ascesa del tecno-feudalesimo

Un mondo controllato dall’élite tecnologiche

Carlos Bonadona Vargas

La convinzione diffusa che denaro e tecnologia risolveranno i problemi dell’Umanità non è altro che un miraggio distopico. Sotto la promessa di un futuro liberatorio si nasconde una trappola: la dipendenza assoluta da piattaforme digitali e sistemi finanziari progettati per concentrare il potere. L’ élite, monopolizzando i processi produttivi e l’infrastruttura tecnologica, trasformano le popolazioni – in particolare le più vulnerabili – in ingranaggi di una macchina il cui profitto va solo a beneficio di chi detiene il controllo. Così, le multinazionali emergono come i nuovi signori feudali dell’era digitale, estraendo dati e plusvalore mentre erodono la sovranità collettiva. Ciò che viene venduto come progresso non è altro che servitù mascherata, dove la libertà individuale è sacrificata sull’altare del profitto corporativo.

Nel suo libro ‘Il capitalismo della frammentazione: il radicalismo del mercato e il sogno di un mondo senza democrazia’, lo storico Quinn Slobodian svela questo fenomeno: un progetto geopolitico orchestrato dalle corporazioni per smantellare gli Stati-nazione, eludere i quadri normativi e trasferire il potere a entità private. Questa visione, alimentata dal neoliberismo più radicale, si incarna in figure come Elon Musk, i cui progetti rappresentano la fusione tra tecnologia, capitale e deregolamentazione. Parallelamente, l’élite accelerano l’appropriazione delle risorse naturali critiche, consapevoli che il loro controllo è indispensabile non solo per mantenere la supremazia tecnologica, ma anche per sostenere un sistema finanziario globalizzato che privilegia il profitto privato rispetto al bene comune.

In un contesto globale di risorse naturali ed energetiche in diminuzione, l’ossessione per assicurarsi materie prime strategiche ridefinisce l’imperialismo del XXI secolo. Gli USA, ad esempio, hanno intensificato il loro interesse per i minerali di Ucraina e Groenlandia, la cui ricchezza in terre rare ha risvegliato appetiti espansionistici da parte dell’amministrazione Trump. Questi movimenti non rispondono a uno slancio innovativo, bensì a una geopolitica dell’estrattivismo: l’alta tecnologia richiede litio, cobalto ed energia su scala colossale, e chi controlla questi materiali controllerà l’infrastruttura del futuro. Sotto il paravento del “tecno-soluzionismo” si giustifica questa corsa come un male necessario, ignorando che il suo vero costo è la perpetuazione di un sistema che sfrutta persone ed ecosistemi in egual misura. Il paradosso è letale: la promessa di un mondo salvato dalla tecnologia consolida un altro in cui l’Umanità serve i propri carnefici.

L’agenda dell’estrema destra e il tecno-soluzionismo

 

La rinascita globale dell’estrema destra, alleata a figure come il presidente USA Donald Trump – il cui discorso si riduce all’idolatria del potere economico e alla sottomissione a chi lo detiene – si inserisce in questo schema di dominio corporativo. Sebbene questi movimenti si autoproclamino difensori della sovranità nazionale, operano in sintonia con agende deregolatrici che privatizzano beni pubblici e indeboliscono le strutture democratiche. Come osserva Quinn Slobodian, teorici come Peter Thiel, fondatore di PayPal e architetto ideologico della «globalizzazione accelerata dalla tecnologia», hanno formato una generazione di magnati, proprietari e dirigenti delle grandi multinazionali tecnologiche per i quali la democrazia è un peso che ostacola l’accumulazione di capitale. Il loro ideale: un mondo in cui il mercato, libero da vincoli politici, ridefinisca le regole del potere.

Questa convergenza tra estrema destra e tecno-soluzionismo non è casuale. I capi neofascisti sfruttano la retorica dell’«innovazione salvifica» per legittimare il saccheggio sistematico delle risorse e la ristrutturazione gerarchica della società. Un chiaro esempio è l’attuale mandato di Trump, che condiziona il sostegno militare all’Ucraina all’accesso alle sue riserve minerarie, riducendo la geopolitica a un baratto tra armi e materie prime. In questo paradigma, le popolazioni marginalizzate – dai minatori congolesi ai lavoratori delle piattaforme digitali – si trasformano in servi involontari di un feudalesimo 2.0, in cui i dati e i minerali sostituiscono la terra come principale fonte di sfruttamento.

Thiel, pioniere nel teorizzare la fusione tra tecnologia e autoritarismo mercantile, ha immaginato un capitalismo senza Stati, dove algoritmi e criptovalute sostituiscano la governance collettiva. Musk, da parte sua, cresciuto sotto l’apartheid sudafricano, proietta una visione ancora più cruda: enclave per élite autosufficienti, segregate da una maggioranza sacrificabile. Progetti come Neuralink o Starlink non sono meri progressi tecnici, ma strumenti per istituzionalizzare un apartheid tecnocratico. In questa visione, la disuguaglianza non è un errore da correggere, ma un disegno essenziale: l’efficienza del mercato esige il sacrificio dei diritti in nome del progresso, mentre il potere si concentra nelle mani di un’oligarchia che vede l’Umanità come una risorsa, non come un fine.

Il mito del tecno-soluzionismo e lo sfruttamento occulto

 

Il tecno-soluzionismo – quella fede quasi religiosa secondo cui algoritmi, chip e promesse della Silicon Valley risolveranno crisi climatiche, carestie e guerre – non è solo una narrazione ingenua, ma un miraggio che nasconde complesse catene di sfruttamento globale. Antonio Casilli, sociologo critico del lavoro digitale, smonta anch’egli questo mito, ricordandoci che dietro ogni smartphone o intelligenza artificiale si cela una costellazione di sofferenza umana: minatori congolesi sfruttati per l’estrazione del coltan, operai in fabbriche asiatiche sottoposti a turni disumani, moderatori di contenuti nel Sud Globale traumatizzati dal dover filtrare violenze per pochi dollari al giorno. L’automazione, lungi dall’essere sinonimo di liberazione, è solo la punta dell’iceberg di una rete di estrazione coloniale e manodopera precaria.

L’élite tecnologiche, lungi dal credere nella propria retorica altruistica, operano con un pragmatismo spietato in cui il controllo delle risorse strategiche è la priorità assoluta. Gli USA, braccio armato del capitalismo digitale, incarnano questa logica. Nel suo primo discorso al Congresso, il 4 marzo 2025, Trump ha ribadito il suo interesse per le terre rare della Groenlandia – elementi essenziali per la produzione di veicoli elettrici e sistemi di difesa intelligenti – affermando che la loro annessione al territorio USA avverrà “in un modo o nell’altro”. Allo stesso tempo, la guerra in Ucraina ha rivelato l’appetito crescente per i giacimenti di litio e cobalto, presentati come parte di uno “scambio strategico” in cambio di sostegno militare per difendersi dalla Russia.

Non si tratta di un semplice confronto geopolitico, bensì di una battaglia per la supremazia nella nuova geoeconomia digitale. Per sostenere colossi come Tesla o Amazon – il cui consumo elettronico ed energetico supera quello di intere nazioni medie – è imperativo monopolizzare minerali e territori. E la strategia non si limita all’estrazione: ora le corporazioni costruiscono le proprie centrali nucleari, privatizzando persino l’energia che alimenta i loro data center. Il messaggio è chiaro: il futuro non sarà democratizzato, bensì recintato e controllato.

Tecno-feudalesimo: la nuova servitù digitale

 

L’economista Yanis Varoufakis ha coniato il termine “tecno-feudalesimo” per definire un ordine in cui giganti come Meta/Facebook o Google agiscono come signori medievali del digitale: monopolizzano dati, piattaforme e attenzione, mentre utenti e lavoratori dell’economia gig – trasformati in servi senza terra né diritti – “arano” campi virtuali. Il loro lavoro invisibile sostiene il sistema: pubblicano, commentano, moderano contenuti, nutrendo algoritmi che estraggono valore da ogni clic. Slobodian amplia questa critica mostrando come il capitalismo contemporaneo frammenti i confini e legiferi secondo la convenienza corporativa: gli Stati, indeboliti, si piegano a trattati che proteggono le multinazionali ma non le persone. La sovranità non risiede più nei parlamenti, ma nei server controllati da Silicon Valley.

Varoufakis avverte che questo spostamento del potere – dal pubblico al privato – approfondisce le disuguaglianze strutturali, mentre Antonio Casilli smantella il mito della neutralità tecnologica: dietro ogni algoritmo ci sono corpi sfruttati, dai conducenti Uber ai minatori di terre rare. La fede nell’onnipotenza tecnologica – avverte – è un’illusione che nasconde la continuità del colonialismo sotto forma di codice binario. Così, la promessa di emancipazione digitale si rivela una trappola: più si crede nell’autonomia delle macchine, più si naturalizza un sistema in cui gli oligarchi dettano le regole del gioco e il resto paga con dati e sudore.

Musk è l’epitome di questo tecno-feudalesimo performativo. Il suo controllo di Twitter/X – piattaforma che manipola le narrazioni globali – e le sue fabbriche di veicoli elettrici – dipendenti dal litio sudamericano e dal cobalto congolese – rivelano un modello basato sul classico estrattivismo, ora mascherato da verde. Mentre promuove colonie marziane per l’élite, i suoi affari sulla Terra prosciugano risorse idriche ed energetiche, privatizzandole in nome del “progresso”. Per Varoufakis, questo non è capitalismo della sorveglianza, ma un ritorno a logiche feudali: Musk agisce come un signore della guerra digitale, accaparrandosi ricchezza e potere mentre vende l’illusione che la tecnologia ci salverà… da tutto tranne che da lui.

Verso un collasso democratico?

 

Il progetto tecno-soluzionista non è un semplice piano aziendale: è una profezia autoavverante in cui le multinazionali erigono un feudalesimo digitale. Sotto la retorica dell’innovazione, si appropriano di risorse strategiche – acqua, litio, dati – e riducono le popolazioni a ingranaggi di una macchina il cui unico fine è arricchire un’oligarchia transnazionale. La contraddizione è perversa: mentre si celebra la «libertà» di avere uno smartphone o un profilo social, la sovranità si dissolve. Ciò che resta non è democrazia, ma un capitalismo mutante, frammentato in giurisdizioni su misura e blindato contro ogni forma di responsabilità. Qui l’autoritarismo non indossa uniformi: si codifica in algoritmi e si traveste da efficienza.

Slobodian insiste: questo non è lo scenario di una distopia futura, ma un presente in accelerazione. La tecno-utopia di Musk – colonie su Marte, cervelli connessi a macchine – funziona come cortina di fumo per un saccheggio senza precedenti. Mentre il Sud Globale fornisce manodopera a basso costo e minerali per batterie «verdi», l’ élite ripetono il copione coloniale in gergo da startup: estrarre, sfruttare, esternalizzare. Persino la crisi climatica diventa un affare, con corporazioni che brevettano semi resistenti alla siccità o vendono crediti di carbonio come assoluzioni per i più inquinanti. Il progresso, in questo quadro, non è altro che l’alibi perfetto per un colpo di Stato corporativo al rallentatore.

Di fronte a ciò, la resistenza richiede due fronti: smascherare il mito del tecno-soluzionismo e reclamare la tecnologia come bene comune. Come sottolineano Varoufakis e Casilli, ciò implica audit degli algoritmi, nazionalizzazione delle infrastrutture digitali critiche e divieto della privatizzazione delle risorse naturali. Non si tratta di rifiutare l’innovazione, ma di subordinare la tecnologia alla giustizia sociale. La scelta è chiara: o la tecnologia si democratizza, o assisteremo alla nascita di un nuovo ordine in cui gli oligarchi, dai bunker climatici e dagli uffici orbitali, governeranno su un pianeta esausto. Il momento di scegliere non è domani: è adesso.

Carlos Bonadona Vargas

Boliviano, ingegnere di sistemi con master in Telecomunicazioni ed Energie Rinnovabili.


Un mundo controlado por las élites tecnológicas.

El capitalismo de la fragmentación y el ascenso del tecnofeudalismo

Carlos Bonadona Vargas  

La creencia generalizada de que el dinero y la tecnología resolverán los problemas de la Humanidad no es más que un espejismo distópico. Bajo la promesa de un futuro liberador se esconde una trampa: la dependencia absoluta a plataformas digitales y sistemas financieros diseñados para concentrar poder. Las élites, al monopolizar los procesos productivos y la infraestructura tecnológica, convierten a las poblaciones –en especial a las más vulnerables– en engranajes de una maquinaria cuyo rédito solo beneficia a quienes ostentan el control. Así, las multinacionales emergen como los nuevos señores feudales de la era digital, extrayendo datos y plusvalía mientras erosionan la soberanía colectiva. Lo que se vende como progreso no es sino una servidumbre encubierta, donde la libertad individual se sacrifica en el altar del lucro corporativo. 

En El capitalismo de la fragmentación: el radicalismo de mercado y el sueño de un mundo sin democracia, el historiador Quinn Slobodian desentraña este fenómeno: un proyecto geopolítico orquestado por corporaciones para desmantelar los Estados-nación, evadir marcos regulatorios y transferir el poder a entidades privadas. Esta visión, nutrida por el neoliberalismo más radical, se materializa en figuras como Elon Musk, cuyos emprendimientos encarnan la fusión entre tecnología, capital y desregulación. Paralelamente, las élites aceleran la apropiación de recursos naturales críticos, conscientes de que su control es indispensable para sostener no solo la supremacía tecnológica, sino también un sistema financiero globalizado que prioriza el beneficio privado sobre el bien común.

En un contexto global de recursos naturales y energéticos menguantes, la obsesión por asegurar materias primas estratégicas redefine el imperialismo del siglo XXI. Estados Unidos, por ejemplo, ha intensificado su interés en los minerales de Ucrania y Groenlandia, cuya riqueza en tierras raras despierta apetitos expansionistas por parte de la administración Trump. Estos movimientos no responden a un afán de innovación, sino a una geopolítica del extractivismo: la alta tecnología requiere litio, cobalto y energía en escalas colosales, y quien controle estos insumos dominará la infraestructura del futuro. Bajo el paraguas del “tecnosolucionismo” se justifica esta carrera como un mal necesario, ignorando que su costo real es la perpetuación de un sistema que explota personas y ecosistemas por igual. La paradoja es letal: la promesa de un mundo salvado por la tecnología consolida otro donde la Humanidad sirve a sus propios verdugos.

La agenda de la ultraderecha y el tecnosolucionismo

El resurgimiento global de la ultraderecha, aliada a figuras como el presidente estadounidense, Donald Trump –cuyo discurso se reduce a la idolatría del poder económico y la sumisión a quienes lo ostentan—, se inserta en este esquema de dominación corporativa. Aunque estos movimientos se autoproclaman defensores de la soberanía nacional, operan en sintonía con agendas desreguladoras que privatizan bienes públicos y debilitan los marcos democráticos. Como señala Quinn Slobodian, teóricos como Peter Thiel, fundador de PayPal y arquitecto ideológico de la «globalización acelerada por la tecnología», han moldeado a una generación de magnates, propietarios y gerentes de las grandes multinacionales tecnológicas para quienes la democracia es un lastre que frena la acumulación de capital. Su ideal: un mundo donde el mercado, libre de ataduras políticas, redefina las reglas del poder.

Esta convergencia entre ultraderecha y tecnosolucionismo no es fortuita. Los líderes neofascistas aprovechan la retórica de la «innovación salvadora» para legitimar el despojo sistemático de recursos y la reestructuración jerárquica de la sociedad. Un claro ejemplo de esta dinámica es el actual mandato de Trump, que condiciona el apoyo militar a Ucrania al acceso a sus reservas minerales, reduciendo la geopolítica a un trueque entre armamento y materias primas. Bajo este paradigma, las poblaciones marginadas –desde los mineros congoleños hasta los trabajadores de plataformas digitales– se transforman en siervos involuntarios de un feudalismo 2.0, en el que los datos y los minerales sustituyen a la tierra como principal fuente de explotación.

Thiel, pionero en teorizar la fusión entre tecnología y autoritarismo mercantil, imaginó un capitalismo sin Estados, donde algoritmos y criptomonedas reemplacen la gobernanza colectiva. Musk, por su parte, criado bajo el apartheid sudafricano, proyecta una visión aún más cruda: enclaves para élites autosuficientes, segregadas de una mayoría desechable. Proyectos como Neuralink o Starlink no son meros avances técnicos, sino herramientas para institucionalizar un apartheid tecnocrático. En esta visión la desigualdad no es un error a corregir, sino un diseño esencial: la eficiencia del mercado exige sacrificar derechos en nombre del progreso, mientras el poder se concentra en manos de una oligarquía que ve a la Humanidad como un recurso más, no como un fin.

El mito del tecnosolucionismo y la explotación oculta

El tecnosolucionismo –esa fe casi religiosa en que algoritmos, chips y promesas de Silicon Valley resolverán crisis climáticas, hambrunas y guerras– no es simplemente una narrativa ingenua, sino un espejismo que oculta complejas cadenas de explotación global. Antonio Casilli, sociólogo crítico del trabajo digital, también desmonta este mito recordándonos que detrás de cada smartphone o Inteligencia Artificial (IA) se esconde una constelación de sufrimiento humano: mineros en el Congo explotados por la extracción de coltán, obreros en fábricas asiáticas sometidos a jornadas inhumanas y moderadores de contenido en el Sur Global que sufren traumas por filtrar violencia a cambio de escasos dólares diarios. La automatización, lejos de ser sinónimo de liberación, es apenas la punta de un iceberg conformado por redes de extracción colonial y mano de obra precarizada.

Las élites tecnológicas, lejos de creer en su propia retórica altruista, operan con un pragmatismo despiadado en que el control de los recursos estratégicos es la máxima prioridad. Los Estados Unidos, actuando como el brazo armado del capitalismo digital, personifican esta lógica. En su primer discurso ante el Congreso, el 4 de marzo de 2025, Trump reiteró su interés por las tierras raras de Groenlandia –elementos esenciales para la fabricación de vehículos eléctricos y sistemas de defensa inteligentes–, afirmando que su anexión al territorio estadounidense ocurrirá “de un modo u otro”. Al mismo tiempo, la guerra en Ucrania ha revelado el creciente apetito por sus yacimientos de litio y cobalto, presentados como parte de un “intercambio estratégico” a cambio de apoyo militar para defenderse de Rusia.

Este no es un simple enfrentamiento geopolítico, sino una batalla por la supremacía en la nueva geoeconomía digital. Para sostener a gigantes como Tesla o Amazon –cuyo consumo electrónico y energético supera al de naciones medianas– es imperativo monopolizar minerales y territorios. Y la estrategia no se limita a la extracción: ahora las corporaciones construyen sus propias centrales nucleares, privatizando incluso la energía que alimenta sus centros de datos. El mensaje es claro: el futuro no será democratizado, sino cercado y controlado.

Tecnofeudalismo: la nueva servidumbre digital

El economista Yanis Varoufakis acuñó el término “tecnofeudalismo” para definir un orden donde gigantes como Meta/Facebook o Google funcionan como señores medievales de lo digital: monopolizan datos, plataformas y atención, mientras usuarios y trabajadores de la economía gig –convertidos en siervos sin tierra ni derechos– “arran” campos virtuales. Su labor invisible sustenta el sistema: publican, comentan y moderan contenido, nutriendo algoritmos que extraen valor de cada clic. Slobodian amplía esta crítica al exponer cómo el capitalismo contemporáneo fragmenta fronteras y legisla a conveniencia corporativa: los Estados, debilitados, se pliegan a tratados que protegen a las multinacionales y no a las personas. La soberanía ya no reside en parlamentos, sino en servidores controlados por Silicon Valley.

Varoufakis alerta que este desplazamiento del poder –de lo público a lo privado– profundiza desigualdades estructurales, mientras Antonio Casilli desmonta el mito de la tecnologización neutral: tras cada algoritmo hay cuerpos explotados, desde conductores de Uber hasta mineros de tierras raras. La fe en la omnipotencia tecnológica –advierte– es un espejismo que oculta la continuidad del colonialismo bajo código binario. Así, la promesa de emancipación digital se revela como una trampa: cuanto más se cree en la autonomía de las máquinas, más se naturaliza un sistema donde los oligarcas dictan las reglas del juego y el resto paga con datos y sudor.

Musk es el epítome de este tecnofeudalismo performativo. Su control de Twitter/X –plataforma que manipula narrativas globales– y sus fábricas de vehículos eléctricos –dependientes de litio sudamericano y cobalto congoleño– revelan un modelo basado en el extractivismo clásico, ahora disfrazado de verde. Mientras promueve colonias marcianas para élites, sus negocios terrestres drenan recursos hídricos y energéticos, privatizandolos en nombre del “progreso”. Para Varoufakis esto no es capitalismo de vigilancia, sino un retorno a lógicas feudales: Musk actúa como un señor de la guerra digital, acaparando riqueza y poder mientras vende la ilusión de que la tecnología nos salvará… de todo menos de él.

 ¿Hacia un colapso democrático?

El proyecto tecnosolucionista no es un mero plan empresarial: es una profecía autorrealizada donde las multinacionales erigen un feudalismo digital. Bajo la retórica de la innovación, acaparan recursos estratégicos –agua, litio, datos– y reducen a las poblaciones a engranajes de una maquinaria cuyo único fin es enriquecer a una oligarquía transnacional. La paradoja es perversa: mientras se celebra la «libertad» de tener un smartphone o un perfil en redes sociales, la soberanía se desvanece. Lo que queda no es democracia, sino un capitalismo mutante, fragmentado en jurisdicciones a medida y blindado contra toda rendición de cuentas. Aquí el autoritarismo no lleva uniforme: se codifica en algoritmos y se disfraza de eficiencia.

Slobodian insiste: este no es el guión de una distopía futura, sino un presente en aceleración. La tecno-utopía de Musk –colonias en Marte, cerebros conectados a máquinas– funciona como cortina de humo para un saqueo sin precedentes. Mientras el Sur Global suministra mano de obra barata y minerales para baterías «verdes», las élites repiten el libreto colonial con jerga de startup: extraer, explotar, externalizar. Hasta la crisis climática se convierte en negocio, con corporaciones patentando semillas resistentes a sequías o vendiendo créditos de carbono como absolución para los contaminadores. El progreso, en este marco, no es más que la coartada perfecta para un golpe de Estado corporativo en cámara lenta.

Frente a esto, la resistencia exige dos frentes: desenmascarar el mito tecnosolucionista y reclamar la tecnología como bien común. Como señalan Varoufakis y Casilli, esto implica auditar algoritmos, nacionalizar infraestructuras digitales críticas y prohibir la privatización de recursos naturales. No se trata de rechazar la innovación, sino de subordinarla a la justicia social. La disyuntiva es clara: o la tecnología se democratiza, o seremos testigos de un nuevo orden donde los oligarcas, desde bunkers climáticos y oficinas orbitales, gobiernen sobre un planeta exhausto. El tiempo de elegir no es mañana: es ahora.

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Carlos Bonadona Vargas Boliviano, ingeniero de Sistemas con maestrías en Telecomunicaciones y Energías Renovables

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