La repubblica che era, e quella che vogliono

Che repubblica rimpiangono  Carlos Giménez, Mario Díaz-Balart, Marco Rubio, María Elvira Salazar e compagnia, se non quella farsa del 20 maggio?  

Il 20 maggio del 1902, dopo quattro secoli di colonialismo spagnolo e tre decenni di cruenta guerra che lasciarono indimenticabili impronte di sacrificio nella storia Patria, doveva nascere la repubblica martiana «giusta e aperta, una nel territorio, nel diritto, nel lavoro e nella cordialità, innalzata con tutti e per il bene di tutti».

Il giorno in cui Tomás Estrada Palma assunse presidenza, la nazione si risvegliò incatenata da un’appendice alla sua Legge delle Leggi che erodeva la sua sovranità e lacerava la sua dignità.

Nacque una repubblica governata da generali e dottori, soggetta ai disegni di Washington, nè giusta, nè per tutti  e tanto meno per il bene di tutti.

L’intervento USA nella guerra d’indipendenza del 1898, contro il giogo spagnolo, aveva frustrato le aspirazioni rivoluzionarie del movimento nazionalista cubano, imponendo un nuovo modello di dipendenza.

Solo quattro anni dopo le grandi imprese USA controllavano estesi latifondi, le ferrovie, l’elettricità, i telefoni, il trasporto, la costruzione, le miniere e le banche dell’Isola.

L’Avana divenne un paradiso per le mafie del gioco, dell’alcool, delle droghe e della prostituzione, un regno d’impunità che arricchiva una borghesia di uomini di punta, che riceveva i benefici delle briciole del potere del nord.

Fu una repubblica marcata dalla disoccupazione, dalla fame cronica nelle campagne,  dalla precarietà nella quale il favoritismo, il clientelismo la tortura e il crimine sostituivano la giustizia. Ma i figli di Martí non desisterono.

Nuovamente, il sacrificio di uomini e donne irrigò i campi di Cuba, prima per ottenere una repubblica libera e indipendente nel 1959, poi per difenderla dai suoi nemici.

«I timidi, gli irresoluti, gli amanti della ricchezza», come li definiva Martí, eredi di quelli  che aspettavano nelle loro case di Miami che l’esercito statunitense riconsegnasse loro le aziende e i privilegi, innalzano oggi le bandiere dell’annessione.

Che repubblica rimpiangono  Carlos Giménez, Mario Díaz-Balart, Marco Rubio, María Elvira Salazar e compagnia, se non quella del 20 maggio, quella del componte  e il Palmacristi, la bottiglia e l’ignominia? Giménez, «orgoglioso» congressista USA –promotore di sanzioni, campione della sofferenza, disposto ad uccidere per fame uomini e donne in una nazione nella quale dice d’avere radici – ha poco da dire ai cubani. Per i suoi colori s’identifica: i colori dell’impero.

Loro appartengono a questa classe «contenta solo se c’è un padrone yankee o spagnolo che li mantenga o crei loro in premio dell’impegno di celestini, la posizione di probiviri disdegnosi della massa appassionata – la massa meticcia, abile e commovente del paese – la massa intelligente e creatrice dei bianchi e dei neri».

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