Semiotica degli infiltrati

Fernando Buen Abad

Quando compaiono gli infiltrati nelle proprie file, bisogna spiegare come, quando e dove ci sono stati “errori”, complicità o scivoloni. Ci sono infiltrati che entrano dalla finestra, e altri che varcano la porta principale con la chiave che qualcuno ha prestato, venduto o affittato loro. Nella maggior parte dei casi, l’obiettivo principale è distruggere, rompere, infangare o tradire qualcosa che un tempo, in qualche modo, sembrava esattamente l’opposto rispetto all’impronta e ai piani dell’infiltrato. “Mio padre diceva che un solo traditore può valere contro mille valorosi”, scrisse Alfredo Zitarrosa.

Tutto si trasforma in un “mondo bizzarro” che mette a nudo debolezze e aberrazioni nelle azioni e nelle menti di chi dirige e di chi segue. A volte l’infiltrato obbedisce a ordini esterni, ma spesso è frutto di perversioni interne che diventano, prima o poi, l’atto di morte delle organizzazioni. È vecchio il trucco degli sfruttatori di approfittarsi dell’ingenuità, della bontà o dell’idiozia dominanti per inoculare una o più sanguisughe capaci di corrompere tutto.

Esistono capitoli terribili generati dal calcolo spietato, dall’opportunismo, dalla capacità di trovarsi al posto giusto nel momento giusto per avvelenare il miele degli sforzi altrui. Sono molti gli arrivisti, gli opportunisti, i parassiti che si sistemano o si nascondono in posizioni strategiche per distruggere tutto, rapidamente o poco a poco. Ogni infiltrato è l’espressione in miniatura del capitalismo, un verme che prospera in ogni angolo della vita quotidiana.

Nella loro logica, gli infiltrati operano camuffati da mediocri. Fanno tutto il necessario per assicurarsi “benefici” superiori a quelli che la loro condizione e miseria permetterebbero. Sono ovunque, e prosperano all’ombra di certi giochi interni in ambiti altrui, fino a contaminare ciò che è proprio degli altri, fertilizzando il proprio campo d’azione con generose dosi di tradimento e inganno.

Hanno discorsi commoventi e sono campioni della retorica che promette grandi dividendi con il minimo sforzo. Offrono la loro immoralità da sanguisughe a quei mondi dirigenziali che la borghesia difende come “politica”; ed è tipico in loro passare da una fonte all’altra non per una base concettuale, ma per l’impegno che richiede mantenere in vita le proprie mummie ideologiche. Sono spesso campioni dell’eclettismo.

Anche nel neoliberismo c’è un mercato di infiltrati cinici, che sono diventati “modelli” dell’ “essere vivo” e “furbo”. Per vivere più facilmente in mondi altrui, si camuffano da stilisti, pubblicitari, filosofi, giornalisti, ideologi e religiosi… pontificando ai quattro venti i vantaggi del tradire tutto grazie al “prendere il meglio di ogni cosa”, anche se ciò implica cancellare dalla storia l’autore di quella cosa. Non di rado, in nome di Dio.

Quelle orde di infiltrati sono eserciti di nemici nelle nostre file. Nessun piano di radice umanista è mai stato sconfitto solo dall’esterno. Le borghesie lo sanno bene: per perpetuarsi, devono infiltrarsi nei propri antagonisti. Le armi, le pressioni finanziarie o terroristiche, la polizia o il denaro non sono mai bastati. Hanno bisogno di “infiltrare”, non come accidente, ma come logica. Un infiltrato non agisce come una figura aneddotica, bensì come funzione organica della macchina egemonica. Viene da fuori e da dentro, perché qualcuno gli apre la porta. E dispiegano la loro guerra nei territori del linguaggio, del desiderio, dell’emozione, della fiducia collettiva.

Un infiltrato agisce come emissario del capitale nella coscienza. Si inserisce nelle file rivoluzionarie con la missione di inoculare dubbio, frammentazione, paura, dogma, culto della personalità, feticismo organizzativo o fede cieca nella sconfitta. Non sempre ha la faccia da spia. Può avere il volto del compagno, del dirigente, dell’intellettuale critico, della femminista funzionale al potere, del comunicatore popolare, dell’artista radicalizzato al servizio dello statu quo. La sua forma più perversa è quella di chi si traveste da “dissidenza”, ma solo per divorare il nervo strategico del pensiero emancipatore.

Sono predicatori del tradimento, che per loro è religione, struttura di pensiero servile, forma filosofica della resa. Sono una forma estrema della ragione cinica: sanno cosa fanno, sanno che servono il nemico, dentro e fuori, per il quale accumulano potere, vantaggi, sopravvivenze miserabili. Tradiscono perché il tradimento è la forma più intima dell’alienazione: alienazione di classe, di storia, di destino comune. È il riflesso di un io oscuro che sceglie di strisciare sotto l’ordine dominante per mettere a nudo una certa fragilità (o complicità) delle organizzazioni, ma soprattutto la violenza simbolica che il capitale ha installato persino nei settori che lottano contro di esso.

Da sempre, in ogni ribellione, l’infiltrato ha avuto il ruolo di Giuda che vende le trasformazioni per denaro, incarichi, sicurezze o odio. I suoi camuffamenti obbediscono ad una logica precisa dell’immoralità che lo finanzia e ospita. Viene formato, addestrato, indottrinato. È parte dell’ingegneria della controinsurrezione che la borghesia affina come arte macabra. Costa molte vite, in molti sensi. Si infiltra nel senso dell’insinuazione e della distorsione, spesso travestito da onesto, cristiano, probo e integerrimo. Sono anche opportunisti che maneggiano le bandiere di Dio per stringere patti con i demoni del tradimento. Una certa sinistra incline alla mondanità fa il gioco della destra e si lascia infiltrare tra tiepidezze e pedanterie tecnocratiche. Affari strani e terribili. Guarda l’Argentina.

Nella fase attuale del capitalismo, dove il simbolico è campo di battaglia quotidiano, l’infiltrato ha una nuova funzione: infiltra idee, narrazioni, agende. Non serve più solo distruggere fisicamente: basta colonizzare e naturalizzare il proprio ruolo corrotto per oscurare i programmi emancipatori con valanghe di falsità. Parla in nome del popolo, invoca la giustizia divina, cita i padri della patria per negare la lotta di classe. Parla del bene comune, ma applaude le guerre della NATO e il genocidio a Gaza.

Sono emissari della distruzione tollerata, parassiti della semantica ingannevole. La loro tattica è la cooptazione. L’infiltrato è l’opposto esatto del vero militante: si sa, dove uno semina chiarezza, l’altro semina ombra; dove uno rischia, l’altro calcola; dove uno costruisce popolo, l’altro consegna informazioni. Riconoscerlo, denunciarlo e combatterlo non è paranoia, ma dovere etico, con ogni mezzo. E ci fanno perdere troppo tempo. Chi è che gli apre la porta?

(Tratto da La Jornada)


Semiótica de los infiltrados

Por: Fernando Buen Abad  

Cuando aparecen los infiltrados en las propias líneas hay que explicar cómo, cuándo y dónde hubo “descuidos”, complicidades o deslices. Hay infiltrados que se meten por la ventana y los hay que entran por la puerta grande con la llave que alguien le prestó, le vendió o le alquiló. En la mayoría de los casos el objetivo máximo es destruir, romper, ensuciar o traicionar algo que alguna vez y de alguna manera, pareció todo lo contrario a la impronta y a los planes del infiltrado. “Dice mi padre que un solo traidor puede con mil valientes”, escribió Alfredo Zitarrosa.

Todo se vuelve un “mundo bizarro” que deja al desnudo debilidades y aberraciones en las acciones y en las cabezas de quienes dirigen y quienes secundan. Algunas veces el infiltrado obedece órdenes exógenas y no pocas veces es obra de perversiones endógenas que son, tarde o temprano, el acta de defunción de las organizaciones. Es añejo el truco de vividores de inocular uno o varios chupasangre capaces de pudrirlo todo aprovechando unas veces la ingenuidad, la bondad o la idiotez dominantes.

Hay múltiples capítulos terribles producto del cálculo desalmado, por el acomodo de ocasión, por el saber meterse en el lugar y el momento correctos para intoxicar las mieles del esfuerzo de otros. Son muchos los trepadores, arribistas y vividores que se acomodan o agazapan en lugares estratégicos para ir destruyendo todo, rápido o poco a poco. Cada infiltrado es expresión en miniatura del capitalismo, sabandijas que medran en todo rincón de la vida diaria.

En su lógica, los infiltrados operan disfrazados de mediocres. Hacen los esfuerzos necesarios para asegurarse más “beneficios” de los que su circunstancia y miseria les permiten. Están en todas partes y florecen a la sombra de ciertos malabares intestinos en lo ajeno hasta que intoxican lo que de otros es propio y para eso fertilizan su campo de acción con dosis generosas de traiciones y engaños.

Tienen discursos conmovedores y son campeones en retóricas proclives al poco esfuerzo para grandes dividendos. Aportan su inmoralidad de sanguijuela en mundillos gerenciales que la burguesía defiende como su “política” y es su cualidad el ir y venir de una fuente a otra, no por su base conceptual, sino por el esfuerzo que reclama mantener vivas sus momias ideológicas. Suelen ser campeones del eclecticismo.

En el neoliberalismo también hay un mercado de infiltrados cínicos que se han convertido en “tendencia” ejemplificadora del “ser vivo” y “sagaz”. Para vivir más fácil en mundos ajenos se camuflan como diseñadores de moda, publicistas, filósofos, periodistas, ideólogos y clérigos… pontificando a los cuatro vientos las ventajas de traicionarlo todo gracias a “tomar lo mejor de cada cosa”, incluso si hubiere que borrar de la historia al creador de la cosa “tomada”. No pocas veces en nombre de Dios.

Esas hordas de infiltrados son ejércitos de enemigos en nuestras filas. Ningún plan de raíces humanistas ha sido derrotado sólo desde afuera. Saben muy bien las burguesías que, para perpetuarse, necesitan infiltrarse en sus antagonistas. Nunca alcanzó con las armas y los agobios financieros o terroristas, la policía o el dinero. Necesita “infiltrar”, no como accidente, sino como lógica. Un infiltrado no actúa como un personaje anecdótico, sino como función orgánica de la maquinaria de hegemonía. De afuera y de adentro porque alguien les abre la puerta. Y ellos despliegan su guerra en los dominios del lenguaje, del deseo, de la emoción, de la confianza colectiva.

Un infiltrado actúa como emisario del capital en la conciencia. Un infiltrado se introduce en las filas revolucionarias con la misión de inocular duda, fragmentación, miedo, dogma, culto a la personalidad, fetichismo organizativo o fe ciega en la derrota. No siempre tiene cara de espía. Puede tener rostro de compañero, de dirigente, de intelectual crítico, de feminista funcional al poder, de comunicador popular, de artista radicalizado al servicio del statu quo. Su forma más perversa es la de aquel que se reviste de “disidencia”, pero sólo para devorar el nervio estratégico del pensamiento emancipador.

Son predicadores de la traición, que para ellos es religión, estructura de pensamiento servil, forma filosófica de entreguismo. Son una forma extrema de la razón cínica, saben lo que hacen, saben que sirven al enemigo, de adentro y de afuera, para quien amasan poder, ventaja, supervivencia miserable. Traicionan porque la traición es la forma más íntima de la alienación: alienación de clase, de historia, de destino común. Es el reflejo de un yo oscuro que decide reptar bajo el orden dominante para desnudar cierta fragilidad (o complicidad) de las organizaciones, pero sobre todo, la violencia simbólica que el capital ha instalado incluso en los sectores que luchan contra él.

Desde siempre, en todas las rebeldías, el infiltrado ha jugado el papel de Judas que vende las transformaciones por monedas, por cargos, por seguridades o por odio. Sus camuflajes responden a una lógica precisa de la inmoralidad que lo financia y hospeda. Lo forma, lo entrena, lo adoctrina. Es parte de la ingeniería de contrainsurgencia que la burguesía refina como arte macabro. Cuesta muchas vidas en muchos sentidos. Se infiltraba en el sentido del ninguneo y de la distorsión y frecuentemente travestidos como honestos, cristianos, probos e intachables. Son también oportunistas que manosean las banderas de Dios para pactar con los demonios de la traición. Alguna de izquierda proclive a la farándula le hace el juego a la derecha y se hace infiltrar entre tibiezas y pedantería tecnocrática. Raros y terribles negocios. Mira Argentina.

En la fase actual del capitalismo, donde lo simbólico es campo de batalla cotidiano, el infiltrado cumple una nueva función: infiltra ideas, narrativas, agendas. Ya no necesita sólo destruir físicamente: basta colonizar y naturalizar su rol corrupto para ocluir los programas emancipadores con falacias a destajo. Habla en nombre del pueblo, invoca la justicia divina, cita a los próceres para negar la lucha de clases. Habla del bien común, pero aplaude las guerras de la OTAN y el genocidio en Gaza.

Son emisarios de la destrucción tolerada, como parásitos de la semántica falaz. Su táctica es la cooptación. El infiltrado es el reverso exacto del militante verdadero, se sabe, donde uno siembra claridad, el otro siembra sombra, donde uno arriesga, el otro calcula, donde uno construye pueblo, el otro entrega información. Reconocerlo, denunciarlo y combatirlo no es opción paranoica, sino deber ético por todos los medios. Y nos hacen perder demasiado tiempo. ¿Quién les abre la puerta?

(Tomado de La Jornada)

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