L’imperialismo ecologico è uno dei motori della crisi globale

Eder Peña

Il Venezuela, come molti altri Paesi, soffre l’impatto della crisi climatica. Solo nei primi due giorni di piogge intense — in cui, secondo quanto riportato dal presidente Nicolás Maduro, “è caduto il 300% in più di pioggia nella regione andina” — si sono registrati danni rilevanti negli Stati di Mérida, Táchira, Trujillo, Portuguesa e Barinas. In queste zone sono crollati 25 ponti.

Oltre 10 mila famiglie sono state colpite, ritrovandosi isolate o in situazioni di alto rischio; vi sono state perdite abitative e resta ancora da calcolare l’impatto economico del passaggio di nove onde tropicali. A fronte di ciò, il presidente ha affermato: “Stiamo pagando le conseguenze di due secoli di inquinamento ambientale”.

Questo quadro va inserito in una visione più ampia, giacché la crisi climatica è parte di una crisi più estesa: la crisi ambientale globale. Essa include squilibri nei cicli vitali del pianeta ed estinzioni di massa, tra altri problemi. Non si tratta di un fenomeno isolato né di una catastrofe naturale inevitabile: è il risultato diretto di un sistema economico basato sull’accumulazione illimitata, che trasforma la natura in merce e ha condotto il pianeta sull’orlo del collasso.

La crisi climatica come effetto dell’imperialismo ecologico

Il cosiddetto imperialismo ecologico descrive come i Paesi industrializzati dell’emisfero nord abbiano convertito il Sud Globale in una fonte inesauribile di risorse ed energia; e anche in uno spazio per esternalizzare i propri rifiuti tossici, il tutto secondo la logica del capitalismo globalizzato.

Dalla colonizzazione a oggi, questo saccheggio è stato legittimato da un modello di sviluppo che giustifica l’estrazione di beni comuni globali — l’atmosfera, le foreste tropicali o gli oceani — al fine di concentrare la crescita economica al centro del sistema capitalista.

Come ha affermato lo storico colombiano Renán Vega Cantor, “i Paesi poveri del sud soffrono i rischi ambientali generati dalla creazione di ricchezza nel nord”, il che riflette un’ingiustizia strutturale che colpisce non solo i popoli, bensì anche interi ecosistemi.

Questo modello si è approfondito con l’espansione di meccanismi come i mercati del carbonio e la riduzione delle emissioni derivanti da deforestazione e degrado forestale (REDD+), pensati per ridurre le emissioni ma che in realtà permettono alle grandi imprese di continuare a inquinare, acquistando “diritti” dalle comunità dei Paesi periferici per continuare a occupare spazio nell’atmosfera.

Ricardo Vega, ricercatore sui temi dello sviluppo, spiega che questi mercati trasformano l’atmosfera in un “deposito aereo a capacità limitata”, il cui l’accesso viene privatizzato mediante compensazioni economiche che avvantaggiano le multinazionali e i governi del Nord Globale, mentre criminalizzano gli usi ancestrali dei territori da parte delle comunità locali.

Un’altra faccia del fenomeno è l’accaparramento di terre per progetti di “energie rinnovabili” che rispondono più a interessi finanziari che a reali esigenze di sostenibilità. In America Latina, ad esempio, alcuni governi promuovono mega-progetti idroelettrici, miniere “verdi” o monocolture forestali per ottenere crediti di carbonio, tutti appoggiati da organismi internazionali e fondi privati che operano sotto la falsa premessa di un’economia verde presuntamente inclusiva.

Ma questa visione mercantilista non danneggia solo l’ambiente: produce anche violenza strutturale e fisica.

Il controllo dei territori e delle territorialità ha nella militarizzazione uno strumento chiave per garantire la continuità di questi processi estrattivisti.

Gli eserciti dei Paesi sviluppati sono sempre più coinvolti in operazioni di “sicurezza climatica”, spesso con il pretesto di proteggere infrastrutture strategiche o combattere il terrorismo, quando in realtà agiscono come forze repressive contro movimenti sociali che difendono i propri territori.

Questa militarizzazione è doppiamente ingiusta e quindi coloniale, poiché:

1.I Paesi storicamente responsabili del cambio climatico sono gli stessi che controllano la narrativa su quali soluzioni devono essere implementate.

2.Tali soluzioni implicano spesso l’uso della forza contro comunità che resistono all’imposizione di progetti che, lungi dal mitigare il riscaldamento globale, lo aggravano sotto la copertura della sostenibilità.

Quindi parlare di imperialismo ecologico significa dunque riferirsi non solo alla perpetuazione della dinamica coloniale di sfruttamento delle risorse e appropriazione degli spazi vitali del Sud Globale, ma anche alla sua adattabilità a nuove forme di controllo territoriale, finanziario e simbolico, tutte mascherate da discorsi “verdi” che legittimano lo status quo.

L’incertezza climatica è economica, sociale ed esistenziale

La crisi climatica è strettamente intrecciata con la disuguaglianza economica globale e con il basso impegno della cosiddetta “comunità internazionale” nel superare la povertà e il collasso della civiltà. Man mano che gli impatti del cambio climatico si fanno più evidenti — siccità prolungate, inondazioni catastrofiche, innalzamento del livello del mare — sono le popolazioni più vulnerabili a pagare il prezzo più alto, pur essendo le meno responsabili delle emissioni storiche.

Una ricerca pubblicata da scienziati delle università di Stanford e Northwestern, nel maggio 2024, avverte che i danni economici legati al cambio climatico potrebbero raggiungere trilioni di dollari l’anno se non si adottano misure urgenti. Tuttavia, la risposta globale continua a essere insufficiente.

I Paesi industrializzati, pur avendo maggiore capacità tecnica e finanziaria per affrontare questa emergenza, continuano a rimandare azioni concrete, privilegiando gli interessi delle grandi imprese rispetto alla vita umana e non umana.

Altre ricerche consolidate evidenziano come il capitalismo sia il motore principale del cambio climatico, non solo per la sua logica di produzione illimitata in un mondo di risorse finite, ma anche per il modo in cui i costi ambientali vengono scaricati sui Paesi periferici.

Ciò genera un’incertezza socioeconomica che colpisce tanto i Paesi del Sud quanto quelli del Nord, sebbene in modo diseguale. Mentre l’élite possono adattarsi tramite tecnologie costose, migrazioni selettive o rifugi climatici privati, milioni di persone nel Sud Globale affrontano la perdita dei mezzi di sussistenza, gli sfollamenti forzati e i conflitti per la scarsità di risorse.

I rapporti scientifici, come quelli del Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambio Climatico (IPCC), insistono sul fatto che il tempo per agire è breve. Ma la storia recente mostra che i vertici sul clima hanno fallito nel produrre accordi vincolanti che affrontino le cause strutturali del problema. Il lobbying delle imprese e gli interessi finanziari hanno corrotto la scienza climatica, orientandola verso soluzioni tecnologiche di mercato invece di politiche redistributive radicali.

Altri studi e proiezioni avvertono che il collasso della civiltà è una possibilità reale se non si cambia rotta. Tuttavia, i governi continuano ad aderire al dogma neoliberista: mercati del carbonio, geoingegneria, biocarburanti e altre tecnologie che, oltre a essere inefficaci, risultano spesso controproducenti. Ad esempio:

1.Le società di cattura del carbonio che emettono più CO₂ di quanto ne assorbano.

2.L’etanolo è semplicemente energia solare “comicamente inefficiente”.

Questa mancanza di volontà politica ha conseguenze imprevedibili. Gli obiettivi di finanziamento climatico stabiliti negli accordi internazionali, come i 300 miliardi di $ annui promessi alla COP 2024 per i Paesi del sud, non vengono rispettati.

Inoltre, gran parte di questi fondi arriva sotto forma di prestiti, aumentando il debito estero di nazioni già impoverite. Questa situazione rafforza una dinamica di dipendenza che impedisce qualsiasi tentativo genuino di sovranità energetica o autodeterminazione ambientale.

L’incertezza globale attuale non è solo climatica, ma anche sociale, economica ed esistenziale. In assenza di una dirigenza collettiva capace di affrontare le radici del problema — il capitalismo e la sua logica predatoria —, la tendenza è verso un futuro di caos, disuguaglianza e conflitto.

False soluzioni, ecofascismo e militarizzazione

La narrazione dominante sull’azione climatica è stata sequestrata da un’élite imprenditoriale e governativa che cerca di mantenere lo status quo sotto nuovi nomi. Ciò che viene presentato come “rivoluzione verde” o “transizione ecologica” non è altro che una nuova fase del capitalismo, volta a trarre profitto dalla crisi ambientale, mercificare la natura e perpetuare il controllo imperiale sulle risorse del Sud Globale.

Il capitalismo climatico si nutre di una serie di presunte soluzioni, ma sta anche rafforzandosi un nuovo paradigma di pensiero ambientale che mescola idee liberali con tratti autoritari: l’ecofascismo.

Ricercatori come Jason Moore hanno avvertito che alcuni settori dell’ambientalismo elitario propongono soluzioni che includono controlli demografici, frontiere chiuse per i migranti climatici e l’idea che solo pochi meritino di sopravvivere al collasso. Questa visione non è solo moralmente inaccettabile, ma ignora completamente le cause reali del problema.

D’altra parte, la militarizzazione della risposta climatica si sta consolidando come strategia geopolitica di primo ordine. Gli eserciti vengono ripensati per operare in contesti di emergenza climatica, ma anche per garantire la protezione delle infrastrutture energetiche e delle risorse naturali strategiche.

Sono in atto anche processi di riproduzione neocoloniale. Alcuni paesi del Nord Globale investono miliardi nella difesa climatica delle proprie popolazioni, mentre quelli del Sud rischiano interventi armati, ingerenze e controllo politico straniero sotto il pretesto della stabilità regionale. L’Africa subsahariana ne è un esempio lampante.

L’ecologia politica critica avverte che queste vie d’uscita non solo non risolvono il problema, ma lo aggravano. Trasformando la natura in un attivo finanziario e usando il clima come scusa per espandere l’apparato militare-industriale, il sistema capitalistico assicura la propria sopravvivenza a scapito della maggioranza dell’umanità.

La transizione ecologica rischia così di convertirsi in un processo di mercificazione totale della natura, dove perfino aria, acqua e foreste vengono gestiti da fondi di investimento e multinazionali. Questa visione strumentale dell’ecologia non solo nega la complessità dei sistemi viventi, ma mina anche l’autonomia dei popoli e i loro saperi ancestrali.

Greenwashing per controllare ciò che resta del petrolio nel mondo

Sotto il discorso della “transizione energetica” e della “neutralità climatica”, le grandi potenze e le multinazionali petrolifere stanno reinventando la propria strategia per mantenere il controllo sulle risorse energetiche globali. Questo fenomeno è noto come greenwashing e consiste nel presentare azioni di sostenibilità superficiali per nascondere pratiche estrattiviste e predatorie che continuano a beneficiare l’élite del Nord Globale.

Imprese come ExxonMobil, Shell o BP hanno lanciato campagne di immagine che mettono in risalto i loro investimenti nelle energie rinnovabili, mentre continuano ad aumentare la produzione di combustibili fossili. Molte di queste aziende destinano meno del 5% del loro budget complessivo a progetti realmente puliti, preferendo esplorare ed estrarre petrolio e gas in regioni vulnerabili del pianeta.

La logica centrale del mercantilismo – controllare le risorse, dominare il commercio e accumulare ricchezza – persiste. Il petrolio continua a scrivere integralmente le linee della geopolitica. Stati e corporazioni si contendono il suo controllo, promuovendo interventi militari, innovazioni tecnologiche e sistemi economici basati sulla dipendenza dai combustibili fossili e sul loro ruolo nel potere industriale.

L’esaurimento delle fonti redditizie ha condizionato la geopolitica energetica, poiché aumenta l’investimento netto per ogni barile di petrolio. Per questo, regioni come l’Alaska o l’Oceano Artico sono obiettivi strategici per la sopravvivenza dell’attuale modello civilizzatorio energivoro.

Questo greenwashing si estende anche a livello politico. Paesi come USA, Germania o Regno Unito promuovono politiche di “crescita verde”, sostenendo che sia possibile mantenere la crescita economica senza aumentare le emissioni. Ma ricerche alternative al nuovo discorso verde dominante dimostrano che ciò è impossibile: il consumo materiale ed energetico deve essere drasticamente ridotto se si vuole davvero evitare il punto di non ritorno climatico.

Inoltre, progetti di miniere “verdi” per l’estrazione di minerali – come litio, cobalto, terre rare – necessari per alimentare le tecnologie “pulite” si espandono in Africa, America Latina e Asia, generando nuovi conflitti per l’appropriazione di territori e risorse. Questi minerali, essenziali per batterie di veicoli elettrici e pannelli solari, vengono estratti in condizioni lavorative precarie e con impatti devastanti su comunità indigene ed ecosistemi fragili.

Vaclav Smil, accademico dell’Università di Manitoba (Canada), identifica quattro materiali fondamentali per la civiltà moderna: cemento, acciaio, plastica e ammoniaca. Egli aggiunge: “la modernità non può esistere senza questi quattro elementi, tutti richiedono combustibili fossili”, mettendo così in evidenza la contraddizione tra il discorso verde e una realtà profondamente fossile.

Il greenwashing si manifesta anche nella diplomazia climatica. Accordi come quelli del Green Deal Europeo, pur presentati come modelli di sostenibilità, stanno generando esternalità negative in altri continenti. L’Unione Europea richiede biomassa e importa energia “verde” prodotta a partire dalla deforestazione in Africa occidentale e nel sud-est asiatico. Tutto ciò sotto il pretesto di ridurre le emissioni in Europa, mentre i paesi del Sud pagano il prezzo ecologico e umano.

Solo il capitalismo (in declino) può salvarci?

La domanda fondamentale che rimane è se sia possibile affrontare il collasso climatico all’interno di un sistema che, per sua stessa logica, richiede crescita costante, estrazione intensiva e disuguaglianza strutturale. Molti analisti ritengono di no, e che l’unica via d’uscita sia una rottura radicale con il capitalismo così come lo conosciamo.

Stiamo entrando in un’epoca di crisi sistemiche multiple – climatica, economica, energetica – che potrebbero generare profonde trasformazioni politiche, mentre l’inazione dell’ élite globali sta lasciando che il sistema collassi senza offrire spazi a fattibili alternative.

Ciò che appare chiaro è che le soluzioni dovranno arrivare dal basso. Diversi movimenti di base stanno offrendo modelli alternativi di relazione con la natura, fondati sulla reciprocità, la sostenibilità e la giustizia sociale. Questi approcci, sebbene emarginati nei luoghi ufficiali di decisione, rappresentano cammini reali e non egemonici per ricostruire un mondo postcapitalista e postclimatico.

Il mito del progresso lineare deve essere abbandonato. Non si tratta di trovare un modo per far funzionare meglio il capitalismo, ma di immaginare un altro modo di vivere, in cui la natura non sia una merce, ma una compagna di viaggio nel cammino comune della specie umana.

L’élite, consapevoli della gravità della crisi, stanno cercando modi per mantenere il proprio potere attraverso tecnologie di controllo, militarizzazione e “nuove” forme di governance globale orientate a preservare l’imperialismo ecologico. Ma queste vie non offrono soluzioni reali: prolungano il collasso mentre concentrano ancora di più ricchezza e potere nelle mani di pochi.

La mercificazione della natura e il capitalismo climatico sono ostacoli fondamentali per affrontare la crisi globale. Sotto l’ombrello dell’economia verde e dell’ambientalismo corporativo, si nascondono nuove forme di dominio, estrazione e violenza che mirano a mantenere il controllo su ciò che resta del petrolio. L’imperialismo ecologico, lungi dall’essere un concetto accademico, è una realtà che colpisce milioni di persone nel Sud Globale, mentre l’élite del Nord cercano di fuggire dalle conseguenze del proprio sistema.

Il cammino per smantellare le strutture che trasformano la natura in proprietà di pochi e che usano il clima come pretesto per nuove forme di controllo è stato pieno di ostacoli e ha costo la vita a persone che lottano per la propria identità con la terra.


El imperialismo ecológico es uno de los motores de la crisis global

Eder Peña

Venezuela, como muchos países, sufre el impacto de la crisis climática. Nada más tras los primeros dos días de intensas lluvias en los que, según informó el presidente Nicolás Maduro, “cayó un 300% más de agua en los Andes”, hubo importantes daños en los estados Mérida, Táchira, Trujillo, Portuguesa y Barinas. Estos estados sufrieron el colapso de 25 puentes.

Más de 10 mil familias resultaron afectadas al quedar aisladas o en alto riesgo, hubo pérdidas de viviendas y aún falta por calcular las consecuencias económicas generadas por el paso de nueve ondas tropicales. Ante ello el mandatario afirmó que “estamos corriendo con las consecuencias de dos siglos de contaminación ambiental”.

Esto debe enmarcarse en una visión más general, ya que la crisis climática es parte de una mayor: la crisis ambiental global. Esta incluye desbalances en los ciclos vitales del planeta y extinciones masivas, entre otros problemas. No es un fenómeno aislado ni una catástrofe natural inevitable; es el resultado directo de un sistema económico basado en la acumulación sin límites, que convierte a la naturaleza en mercancía y que ha llevado al planeta al borde del colapso.

La crisis climática como efecto del imperialismo ecológico

El llamado imperialismo ecológico describe cómo los países industrializados del hemisferio norte han convertido al Sur Global en una fuente inagotable de recursos y energía; también en espacios para externalizar sus residuos tóxicos, todo ello bajo la lógica del capitalismo globalizado.

Desde la colonización hasta la actualidad, este saqueo ha sido legitimado por un modelo de desarrollo que justifica la extracción de bienes comunes globales —la atmósfera, los bosques tropicales o los océanos— con el fin de concentrar el crecimiento económico en el centro del sistema capitalista.

Como señaló el historiador colombiano Renán Vega Cantor, “los países pobres del sur sufren los riesgos ambientales generados por la creación de riqueza en el norte”, lo que refleja una injusticia estructural que no solo afecta a los pueblos, sino también a los ecosistemas enteros.

Este modelo se ha profundizado con la expansión de mecanismos como los mercados de carbono y la reducción de las emisiones derivadas de la deforestación y la degradación forestal (REDD+, por sus siglas en inglés), diseñados supuestamente para reducir emisiones, pero que en realidad permiten a las grandes corporaciones continuar contaminando mientras compran “derechos” a comunidades de países periféricos para seguir ocupando espacio en la atmósfera.

Ricardo Vega, investigador en temas sobre el desarrollo, explica que estos mercados transforman la atmósfera en un “depósito aéreo con capacidad limitada”, donde el acceso es privatizado mediante compensaciones que benefician económicamente a empresas transnacionales y gobiernos del Norte Global, mientras criminalizan los usos ancestrales de los territorios por parte de comunidades locales.

Otra faceta es la apropiación de tierras para proyectos de “energías renovables” que responden más a intereses financieros que a necesidades reales de sostenibilidad. En América Latina, por ejemplo, algunos gobiernos promueven megaproyectos hidroeléctricos, mineras “verdes” o monocultivos forestales para créditos de carbono, todos ellos respaldados por organismos internacionales y fondos privados que operan bajo la falsa premisa de una economía verde que presumen de inclusiva.

Pero esta visión mercantilista no solo afecta al ambiente; también se traduce en violencia estructural y física.

El control de los territorios y las territorialidades tiene en la militarización una herramienta clave para garantizar la continuidad de estos procesos extractivistas.

Los ejércitos de los países desarrollados están cada vez más involucrados en operaciones de seguridad climática, muchas veces bajo el pretexto de proteger infraestructuras estratégicas o combatir el terrorismo, cuando en realidad actúan como fuerzas represivas frente a movimientos sociales que defienden sus territorios.

Esta militarización es doblemente injusta y, por lo tanto, colonial, debido a que:

.Los países responsables históricos del cambio climático son los mismos que toman el control de la narrativa sobre cuáles soluciones se deben implementar.

..Estas soluciones suelen implicar el uso de la fuerza contra comunidades que resisten la imposición de proyectos que, lejos de mitigar el calentamiento global, lo agravian bajo el paraguas de la sostenibilidad.

Así, hablar de imperialismo ecológico es referirse a lo que no solo mantiene viva la dinámica colonial de explotación de los recursos y la apropiación de espacios vitales del sur global, sino que ahora se adapta a nuevas formas de control territorial, financiero y simbólico, todas ellas encubiertas bajo discursos verdes que legitiman el statu quo.

La incertidumbre climática es económica, social y existencial

La crisis climática está profundamente entrelazada con la desigualdad económica global y con el poco compromiso de la “comunidad internacional” por superar la pobreza y el colapso civilizatorio. A medida que los impactos del cambio climático se vuelven más evidentes —sequías prolongadas, inundaciones catastróficas, aumento del nivel del mar—, las poblaciones más vulnerables son las que pagan el precio más alto, a pesar de ser las menos responsables de las emisiones históricas.

Una investigación publicada por científicos de las universidades de Stanford y Northwestern en mayo de 2024 alerta que el daño económico asociado al cambio climático podría alcanzar billones de dólares anuales si no se toman medidas urgentes. Sin embargo, la respuesta global sigue siendo insuficiente.

Los países industrializados, que tienen mayor capacidad técnica y financiera para enfrentar esta emergencia, continúan postergando acciones concretas y priorizando intereses corporativos sobre la vida humana y no humana.

Otras investigaciones consolidadas destacan que el capitalismo actúa como motor principal del cambio climático, no solo por la lógica de producción ilimitada en un mundo con recursos finitos, sino también por la forma en que internaliza los costos ambientales en los países periféricos.

Esto genera una incertidumbre socioeconómica que afecta tanto a los países del sur como a los del norte, aunque de manera desigual. Mientras las élites pueden adaptarse mediante tecnologías caras, migración selectiva o refugios climáticos privados, millones de personas en el Sur Global enfrentan la pérdida de sus medios de vida, desplazamientos forzados y conflictos por escasez de recursos.

Informes científicos, como los del Grupo Intergubernamental de Expertos sobre el Cambio Climático (IPCC), insisten en que el tiempo para actuar es corto. Pero la historia reciente muestra que las cumbres climáticas han fracasado en generar acuerdos vinculantes que atiendan las causas estructurales del problema. El lobby corporativo y los intereses financieros han corrompido la ciencia climática, orientándola hacia soluciones tecnológicas de mercado en lugar de políticas redistributivas radicales.

Otros estudios y proyecciones advierten que el colapso civilizatorio es una posibilidad real si no se cambia el rumbo. Sin embargo, los gobiernos siguen apostando por el dogmatismo neoliberal: mercados de carbono, geoingeniería, biocombustibles y otras tecnologías que no solo son ineficaces, sino que muchas veces resultan contraproducentes. Por ejemplo:

Las empresas de captura de carbono que emiten más CO₂ del que capturan.

El etanol es simplemente energía solar “cómicamente ineficiente”.

Esta falta de voluntad política tiene consecuencias inciertas. Las metas de financiación climática establecidas en los acuerdos internacionales, como los 300 mil millones de dólares anuales prometidos en la COP 2024 a los países del sur, no se cumplen.

Además, gran parte de esos fondos llegan en forma de préstamos, aumentando la deuda externa de naciones ya empobrecidas. Esta situación refuerza una dinámica de dependencia que impide cualquier intento genuino de soberanía energética o autodeterminación ambiental.

La incertidumbre global actual no solo es climática, sino también social, económica y existencial. En ausencia de un liderazgo colectivo capaz de confrontar las raíces del problema —el capitalismo y su lógica depredadora—, la tendencia es hacia un futuro de caos, desigualdad y conflicto.

Falsas soluciones, ecofascismo y militarización

La narrativa dominante sobre la acción climática ha sido secuestrada por una élite empresarial y gubernamental que busca mantener el status quo bajo nuevos nombres. Lo que se presenta como “revolución verde” o “transición ecológica” no es más que una nueva fase del capitalismo que busca rentabilizar la crisis ambiental, comercializar la naturaleza y perpetuar el control imperial sobre los recursos del Sur Global.

El capitalismo climático se alimenta de una serie de pretendidas soluciones, pero además hay un fortalecimiento de un nuevo paradigma de pensamiento ambiental que mezcla ideas liberales con tintes autoritarios: el ecofascismo.

Investigadores como Jason Moore han advertido que algunos sectores del ambientalismo elitista proponen soluciones que incluyen controles demográficos, fronteras cerradas para migrantes climáticos y la idea de que solo unos pocos merecen sobrevivir al colapso. Esta visión no solo es moralmente inaceptable, sino que ignora completamente las causas reales del problema.

Por otra parte, la militarización de la respuesta climática se está consolidando como una estrategia geopolítica de primer orden. Los ejércitos están siendo rediseñados para operar en contextos de emergencia climática, pero también para garantizar la protección de infraestructuras energéticas y recursos naturales claves.

También concurren procesos de reproducción neocolonial. Algunos países del Norte Global invierten miles de millones en defensas climáticas para sus propias poblaciones, mientras que los del sur enfrentarán riesgos de intervenciones armadas, injerencia y control político foráneo bajo el pretexto de estabilidad regional. El África subsahariana es un claro ejemplo de ello.

La ecología política crítica advierte que estas salidas no solo no resuelven el problema, sino que lo agravan. Al convertir la naturaleza en activo financiero y usar el clima como excusa para expandir el aparato militar-industrial, el sistema capitalista asegura su supervivencia a costa de la mayoría de la humanidad.

La transición ecológica corre el riesgo de convertirse en un proceso de mercantilización total de la naturaleza, donde incluso el aire, el agua y los bosques pasan a ser gestionados por fondos de inversión y corporaciones transnacionales. Esta visión instrumental de lo ecológico no solo niega la complejidad de los sistemas vivos, sino que también socava la autonomía de los pueblos y sus conocimientos ancestrales.

Greenwashing para controlar lo que queda de petróleo en el mundo

Bajo el discurso de la “transición energética” y la “neutralidad climática”, las grandes potencias y corporaciones petroleras están reinventando su estrategia para mantener el control sobre los recursos energéticos globales. Este fenómeno se conoce como greenwashing, y consiste en presentar acciones superficiales de sostenibilidad para ocultar prácticas extractivistas y depredadoras que continúan beneficiando a las élites del Norte Global.

Empresas como ExxonMobil, Shell o BP han lanzado campañas de imagen que destacan sus inversiones en energías renovables, mientras siguen aumentando su producción de combustibles fósiles. Muchas de estas empresas destinan menos del 5% de su presupuesto total a proyectos verdaderamente limpios, prefiriendo seguir explorando y explotando pozos de petróleo y gas en regiones vulnerables del planeta.

La lógica central del mercantilismo —controlar los recursos, dominar el comercio y acumular riqueza— persiste. Pero el petróleo sigue escribiendo por completo las líneas de la geopolítica. Naciones y corporaciones luchan por su control, impulsando intervenciones militares, avances tecnológicos y sistemas económicos construidos en torno a la dependencia de los combustibles fósiles y su papel en el poder industrial.

El agotamiento de fuentes rentables ha condicionado la geopolítica energética debido a que aumenta la inversión neta por cada barril de petróleo. De allí que regiones como Alaska o el océano Ártico son objetivos estratégicos para que sobreviva el actual modelo civilizatorio energívoro.

Este greenwashing se extiende también a nivel político. Países como Estados Unidos, Alemania o Reino Unido promueven políticas de “crecimiento verde”, afirmando que es posible mantener el crecimiento económico sin aumentar las emisiones. Pero otras investigaciones disidentes del nuevo discurso verde dominante demuestran que tal cosa es imposible: el consumo material y energético debe reducirse drásticamente si se busca evitar realmente el punto de no retorno climático.

Además, proyectos de minería “verde” para obtener minerales —como litio, cobalto, tierras raras— que sostengan tecnologías “limpias” se expanden en África, América Latina y Asia, y generan más conflictos por la apropiación de territorios y recursos. Estos minerales, esenciales para baterías de vehículos eléctricos y paneles solares, están siendo extraídos bajo condiciones laborales precarias y con impactos devastadores en comunidades indígenas y ecosistemas frágiles.

Vaclav Smil, académico de la Universidad de Manitoba, en Canadá, señala cuatro materiales que ocupan el primer lugar en la escala de necesidad y son los pilares de la civilización moderna: el cemento, el acero, los plásticos y el amoniaco. Agrega que “la modernidad no puede existir sin estos cuatro ingredientes, todos ellos requieren combustibles fósiles”, lo cual pone en evidencia la contradicción entre un discurso verde y una realidad profundamente fósil.

El greenwashing también se manifiesta en la diplomacia climática. Acuerdos como los del Pacto Verde Europeo, aunque presentados como modelos de sostenibilidad, están generando externalidades negativas en otros continentes. La Unión Europea demanda biomasa e importa energía “verde” producida a partir de la deforestación en África occidental y el sureste asiático. Todo esto bajo el pretexto de reducir emisiones en Europa, mientras los países del sur pagan el costo ecológico y humano.

¿Solo el capitalismo (en declive) salva?

La pregunta fundamental que queda es si existe la posibilidad de enfrentar el colapso climático dentro de un sistema que, por su propia lógica, exige crecimiento constante, extracción intensiva y desigualdad estructural. Muchos analistas sostienen que no, y que la única salida viable es una ruptura radical con el capitalismo tal como lo conocemos.

Estamos entrando en una era de múltiples crisis sistémicas —climática, económica, energética— que podrían dar lugar a transformaciones políticas profundas y la inacción de las élites globales está dejando que el sistema simplemente colapse sin dejar espacio para alternativas viables.

Lo que sí parece claro es que las soluciones deben venir desde abajo. Distintos movimientos de base están ofreciendo modelos alternativos de relación con la naturaleza, basados en la reciprocidad, la sostenibilidad y la justicia social. Estos enfoques, aunque marginados en los espacios oficiales de decisión, representan caminos reales y no hegemónicos para reconstruir un mundo poscapitalista y posclimático.

El mito del progreso lineal debe ser abandonado. No se trata de encontrar una manera de hacer funcionar mejor el capitalismo, sino de imaginar un modo de vida diferente, donde la naturaleza no sea una mercancía, sino una compañera de viaje en el camino común de la especie humana.

Las élites, conscientes de la gravedad de la crisis, están buscando formas de mantener su poder a través de tecnologías de control, militarización y “nuevas” formas de gobernanza global orientadas a preservar el imperialismo ecológico. Pero estas salidas no ofrecen soluciones reales, solo prolongan el colapso mientras concentran aún más la riqueza y el poder en manos de unos pocos.

La mercantilización de la naturaleza y el capitalismo climático son obstáculos mayores para enfrentar la crisis global. Bajo el paraguas de la economía verde y el ambientalismo corporativo, se ocultan nuevas formas de dominación, extracción y violencia que persiguen sostener el control de lo que queda de petróleo. El imperialismo ecológico, lejos de ser un concepto académico, es una realidad que afecta a millones de personas en el Sur Global, mientras las élites del norte buscan escapar de las consecuencias de su propio sistema.

La ruta para desmantelar las estructuras que convierten la naturaleza en propiedad de unos pocos y que utilizan el clima como pretexto para nuevas formas de control ha estado llena de obstáculos y ha costado vidas de gente que lucha por su identidad con la tierra.

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