Paramilitarismo, narcotraffico e morte: il vero dossier di Uribe

Il peggio resta impunito

Misión Verdad

La sentenza del 29 luglio 2025 contro Álvaro Uribe per frode processuale e corruzione in ambito penale, al termine di 475 giorni di processo e con l’individuazione della pena ancora in sospeso, non deve servire da cortina fumogena. Mentre i riflettori si concentrano sulla novità giudiziaria, si sfuma un contesto ben più grave: i legami con il paramilitarismo, le accuse di narcotraffico e la memoria dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante il suo governo.

La giudice Sandra Heredia ha dichiarato Uribe colpevole di frode processuale e corruzione di testimoni, fatti connessi alla manipolazione di dichiarazioni in un’inchiesta risalente al 2012. La difesa insiste sulla sua innocenza e potrà ricorrere in appello. L’individuazione della pena è prevista per questo venerdì; per via dell’età e delle condizioni, tutto fa pensare agli arresti domiciliari.

Ma ridurre “il caso Uribe” alla condanna per manipolazione di testimoni impoverisce il quadro. Non guarda alle vittime né alla struttura di potere che ha segnato la Colombia tra il 2002 e il 2010, quando si consolidarono alleanze con i paramilitari, si ampliarono gli incentivi che portarono alle esecuzioni extragiudiziali — i cosiddetti “falsi positivi” — e si lasciò fuori controllo l’apparato d’intelligence.

1. Paramilitarismo: progetto politico e conquista territoriale

Il Patto di Ralito (2001), accordo per “rifondare la patria” tra capi delle AUC (Unità di Autodifesa della Colombia) e dirigenti dell’élite pubblica, ha rivelato la natura politica del paramilitarismo. La cosiddetta parapolitica ha portato decine di parlamentari ad essere indagati e condannati per complicità con le AUC; molti di loro appartenevano a forze politiche che sostenevano l’uribismo.

Nelle aree urbane, l’Operazione Orión (Medellín, ottobre 2002) ha condensato la convergenza tra forze armate e strutture paramilitari. Ci furono arresti di massa e sparizioni; in seguito, l’Oficina de Envigado e i suoi alleati — rete mafiosa nata come braccio armato del cartello di Medellín che, dopo la caduta di Pablo Escobar, si è riorganizzata per coordinare gang di quartiere e regolare economie illegali nella valle dell’Aburrá — hanno consolidato il controllo sociale del territorio.

Uribe nega qualsiasi alleanza con i paramilitari e non è mai stato condannato per tale crimine; tuttavia, sentenze e testimonianze giudiziarie di ex capi delle AUC ricostruiscono schemi di cooptazione a livello regionale. Ciò che oggi è rilevante sottolineare è che quei fatti si inserivano in un progetto con effetti strutturali che hanno modellato l’architettura del potere e dell’economia politica in vaste regioni del Paese.

2. Narcotraffico: come si documenta il legame criminale

Per comprendere l’itinerario dell’uribismo è necessario situarlo nel vero ecosistema che organizza la guerra e la politica regionale: il narcotraffico è il motore finanziario che collega attori armati, autorità locali e progetti di potere. In questa luce, la documentazione esistente registra legami operativi e benefici condivisi tra le reti del narco e il progetto politico guidato da Álvaro Uribe.

Sul piano documentale, il National Security Archive ha pubblicato, nel 2020, un dossier di documenti ufficiali USA declassificati che, fin dagli anni ’90, segnalano legami tra Álvaro Uribe, paramilitarismo e narcotraffico. Un rapporto della DIA (Agenzia di Intelligence della Difesa) del 1991 lo inseriva tra i “principali narcotrafficanti” e vicino a Pablo Escobar; un memorandum del Pentagono del 2004 avvisava Donald Rumsfeld che Uribe “quasi certamente” aveva avuto contatti con le AUC quando era governatore; e cablogrammi diplomatici, del periodo 1992–1997, documentavano contributi attribuiti agli Ochoa, contatti con l’ambiente di Escobar e la “ragnatela” tra governatore, Convivir, allevatori e AUC, ovvero una rete narco-paramilitare ed élitaria locale.

In ambito istituzionale, la Commissione per la Verità ha descritto, con testimonianze e documenti dettagliati, come durante la governazione di Uribe (1995–1997) l’espansione delle Convivir in Antioquia si intrecciò con strutture paramilitari finanziate dal narcotraffico che, nei fatti, operavano sotto coperture legali e con legittimazione politica a livello dipartimentale nei territori centrali. Il rapporto considera questa penetrazione narco come un tratto strutturale del dispositivo di controllo territoriale dell’epoca, coerente con testimonianze giudiziarie e documenti ufficiali declassificati che ne ricostruiscono il funzionamento.

In sede giudiziaria, capi paramilitari come Salvatore Mancuso e Ever Veloza (“HH”) hanno testimoniato sotto giuramento nei processi di Giustizia e Pace su corridoi, patti locali, protezione territoriale e coordinamento con le autorità per consolidare il controllo paramilitare in regioni come Antioquia, Córdoba e la Costa Caraibica. In tali confessioni menzionano direttamente Álvaro Uribe nel contesto delle relazioni politico-territoriali che favorirono quel dominio armato, benché molte di quelle operazioni fossero alimentate da economie legate al narcotraffico.

3. Crimini di guerra e contro l’umanità: i “falsi positivi”

Tra il 2002 e il 2008, sotto il governo Uribe, l’esercito colombiano ha giustiziato, sistematicamente, migliaia di civili innocenti per farli passare come guerriglieri uccisi in combattimento. Secondo quanto stabilito dalla Giurisdizione Speciale per la Pace (JEP), queste esecuzioni illegittime, note come “falsi positivi”, hanno lasciato almeno 6402 vittime, con Antioquia che concentra un quarto dei casi. I picchi si sono registrati tra il 2006 e il 2008, quando le unità militari subivano la massima pressione per mostrare “risultati” nel quadro della politica di Sicurezza Democratica.

I fascicoli giudiziari rivelano un modello ricorrente: quote di morti, incentivi come promozioni o ferie, adescamento di giovani disoccupati con false offerte di lavoro, trasferimento in zone di conflitto, esecuzione sommaria, manipolazione della scena del crimine, semina di armi e successiva presentazione alla stampa come caduti in combattimento. La JEP ha concluso che questi crimini facevano parte di una politica istituzionale promossa dai vertici militari, premiata dal potere civile.

Tra le dichiarazioni raccolte nei processi di verità e riparazione, il generale in pensione Henry Torres ha riconosciuto davanti alla JEP di aver agito su ordini del generale Mario Montoya e sotto pressioni dirette del presidente Uribe. A ciò si aggiunge la testimonianza di un alto funzionario del DAS a Casanare, che ha dichiarato che la politica istituzionale d’intelligence “dipendeva e obbediva a ordini diretti della Presidenza della Repubblica”.

Le stesse parole di Uribe rafforzano questa linea di responsabilità. In un consiglio comunitario tenutosi nel 2007 ad Aracataca, disse senza mezzi termini: “Generale Padilla, che dicano quel che vogliono, ma sotto la mia responsabilità politica, finisca con ciò che resta delle FARC”.

Al di là del verdetto

La condanna per frode processuale e corruzione può costituire un precedente, ma non riesce a restituire la portata del danno rappresentato da Álvaro Uribe come figura politica. Il suo percorso è stato legato a un modello di potere fondato su assassinii, esecuzioni extragiudiziali, alleanze con il paramilitarismo e strutture statali penetrate da economie del narcotraffico. Quell’apparato non solo ha configurato un’architettura della violenza in Colombia, ma ne ha proiettato gli effetti anche in altri paesi, tra cui il Venezuela, dove ha agito come promotore di strategie di destabilizzazione.

Da questo lato della frontiera, è fondamentale non perdere di vista che il suo lascito, lungi dall’essersi concluso, è un progetto criminale, violento e transnazionale che continua a rappresentare una minaccia attuale per la Colombia e per l’intera regione.


Lo más grave sigue sin condena

Paramilitarismo, narcotráfico y muerte: el verdadero expediente de Uribe

El veredicto del 29 de julio de 2025 contra Álvaro Uribe por fraude procesal y soborno en actuación penal, tras 475 días de juicio y con la individualización de la pena aun pendiente, no debe servir de cortina de humo. Mientras los reflectores se quedan en la novedad judicial, se desdibuja un trasfondo más grave: vínculos con el paramilitarismo, señalamientos por narcotráfico y la memoria de crímenes de guerra y de lesa humanidad durante su gobierno.

La jueza Sandra Heredia declaró culpable a Uribe de fraude procesal y soborno a testigos, hechos conectados con la manipulación de declaraciones en un expediente que se remonta a 2012. La defensa insiste en su inocencia y podrá apelar. La individualización de la pena se anunciaría este viernes; por edad y condiciones, todo indica arresto domiciliario.

Pero reducir “el caso Uribe” a la condena por manipulación de testigos empobrece el cuadro. No mira a las víctimas ni a la arquitectura de poder que marcó a Colombia entre 2002 y 2010, cuando se consolidaron alianzas con paramilitares, se expandieron los incentivos que derivaron en ejecuciones extrajudiciales —”falsos positivos”— y se desbordó el aparato de inteligencia.

  1. Paramilitarismo: proyecto político y captura territorial

El Pacto de Ralito (2001), acuerdo para “refundar la patria” entre jefes de las AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) y dirigentes de la élite pública, reveló la naturaleza política del paramilitarismo. La llamada parapolítica dejó decenas de congresistas investigados y condenados por connivencia con las AUC; muchos pertenecían a fuerzas que respaldaron el uribismo.

En la ciudad la Operación Orión (Medellín, octubre de 2002) condensó la convergencia entre fuerza pública y estructuras paramilitares. Hubo detenciones masivas y desapariciones; después, la Oficina de Envigado y aliados, red mafiosa nacida como brazo de cobro del cartel de Medellín que, tras la caída de Pablo Escobar, se reconfiguró para coordinar combos barriales y regular economías ilegales en el valle de Aburrá, consolidaron el control social del territorio.

Uribe niega alianzas con paramilitares y no ha sido condenado por ese delito; sin embargo, sentencias y testimonios judiciales de exjefes de las AUC reconstruyen patrones de cooptación regional. Lo relevante hoy es subrayar que aquellos hechos se insertaron en un proyecto con efectos estructurales que moldearon la arquitectura del poder y de la economía política en amplias regiones del país.

  1. Narcotráfico: cómo se documenta la conexión criminal

Para comprender el itinerario del uribismo hay que situarlo en el ecosistema real que ordena la guerra y la política regional: el narcotráfico es el motor financiero que articula actores armados, autoridades locales y proyectos de poder. Bajo esa luz, la documentación existente registra vínculos operativos y beneficios compartidos entre redes del narco y el proyecto político que encabezó Álvaro Uribe.

En el plano documental, el National Security Archive publicó en 2020 un dossier de registros desclasificados oficiales estadounidenses que, desde los años noventa, señalan vínculos de Álvaro Uribe con paramilitares y narcotráfico. Un informe de la Agencia de Inteligencia de Defensa (DIA, por sus siglas en inglés) de 1991 lo ubicó entre los “principales narcotraficantes” y cercano a Pablo Escobar; un memorando del Pentágono de 2004 advirtió a Donald Rumsfeld que Uribe “casi con seguridad” tuvo tratos con las AUC cuando fue gobernador; y cables diplomáticos de 1992–1997 registraron aportes atribuidos a los Ochoa, contactos con el entorno de Escobar y la “telaraña” entre gobernador, Convivir, ganaderos y AUC, es decir, un entramado narco-paramilitar y de élites locales.

En el campo institucional, la Comisión de la Verdad describe con extensos testimonios y documentos cómo durante la gobernación de Álvaro Uribe (1995–1997) la expansión de las Convivir en Antioquia se entrelazó con estructuras paramilitares financiadas por el narcotráfico y que, en los hechos, operaron bajo coberturas legales y con validación política departamental en territorios centrales. El informe sitúa esa permeación narco como rasgo estructural del dispositivo de control territorial de la época y la pone en correspondencia con testimonios judicializados y registros desclasificados oficiales que documentan cómo funcionó ese entramado.

En sede judicial, jefes paramilitares como Salvatore Mancuso y Ever Veloza (“HH”) han declarado bajo juramento en Justicia y Paz sobre corredores, pactos locales, protección territorial y coordinación con autoridades para consolidar el control paramilitar en regiones como Antioquia, Córdoba y la Costa Caribe. En esas confesiones mencionan directamente a Álvaro Uribe en el contexto de relaciones político-territoriales que facilitaron ese dominio armado, aunque el trasfondo de muchas de esas operaciones estaba alimentado por economías del narcotráfico.

  1. Crímenes de guerra y de lesa humanidad: los “falsos positivos”

Entre 2002 y 2008, bajo el gobierno de Uribe, el Ejército colombiano ejecutó de forma sistemática a miles de civiles inocentes para hacerlos pasar por guerrilleros muertos en combate. Según estableció la Jurisdicción Especial para la Paz (JEP), estas ejecuciones ilegítimas, conocidas como “falsos positivos”, dejaron al menos 6 mil 402 víctimas, con Antioquia concentrando una cuarta parte de los casos. Los picos ocurrieron entre 2006 y 2008, cuando las unidades militares enfrentaban la mayor presión por mostrar “resultados” en el marco de la política de Seguridad Democrática.

Los expedientes judiciales revelan un patrón recurrente: cuotas de muertes, incentivos como ascensos o vacaciones, captación de jóvenes desempleados con falsas ofertas laborales, traslado a zonas de conflicto, ejecución sumaria, manipulación de la escena, siembra de armas y posterior presentación ante la prensa como bajas en combate. La JEP concluyó que estos crímenes fueron parte de una política institucional impulsada por altos mandos militares, premiada desde el poder civil.

Entre las declaraciones judicializadas en procesos de verdad y reparación, el mayor general retirado Henry Torres reconoció ante la JEP haber actuado por órdenes del general Mario Montoya y bajo presiones directas del presidente Uribe. A esto se suma el testimonio de un alto funcionario del DAS en Casanare, quien declaró que la política institucional de inteligencia “dependía y cumplía órdenes directas de la Presidencia de la República”.

Las propias palabras de Uribe refuerzan esa línea de responsabilidad. En un consejo comunitario realizado en 2007 en Aracataca dijo sin ambages: “General Padilla, que critiquen lo que critiquen pero, bajo mi responsabilidad política, acabe con lo que queda de las FARC”.

Más allá del veredicto

La condena por fraude procesal y soborno puede marcar un precedente, pero no alcanza a reflejar la magnitud del daño que representa Álvaro Uribe como figura política. Su trayectoria ha estado ligada con un modelo de poder sostenido en asesinatos, ejecuciones extrajudiciales, alianzas con el paramilitarismo y estructuras estatales penetradas por economías del narcotráfico. Esa maquinaria no solo configuró una arquitectura de violencia en Colombia sino que proyectó sus efectos hacia otros países, incluida Venezuela, donde ha operado como promotor de estrategias de desestabilización.

Desde este lado de la frontera, lo fundamental es no perder de vista que su legado, lejos de culminar, es un proyecto criminal, violento y transnacional que sigue siendo una amenaza vigente para Colombia y el resto de la región.

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