Dove va Chàvez?

di Manuel Cabieses Donoso

Palacio Miraflores (Caracas) 27 luglio 2005


Questa intervista a Hugo Chávez Frías, Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, è stata fatta il 27 luglio scorso da Punto Final. Lo scenario: un cortile nell’appartamento all’ultimo piano del palazzo Miraflores che Chávez ha trasformato in un giardino. A volte gioca lì con il nipotino. Fra le piante c’è un’amaca per il riposo. In un angolo del cortile una scrivania all’ombra di un albero tropicale, lì Chávez legge, scrive e riceve visite informali. 

 

Presidente, la prima cosa che desidero sottoporle è il mio interesse a conoscere alcune idee circa una discussione che lei stesso ha provocato, sia in Venezuela che nel resto dell’America Latina. Mi riferisco al socialismo del XXI secolo. Immaginare un nuovo socialismo è una sfida, non solo intellettuale ma politica. Mi pare che la sua intenzione sia che un insieme di idee siano elaborate da ampi settori sociali e politici, invece che riferirsi soltanto alle illuminate idee di Carlo Marx. Lei può stimolare questa discussione con alcune idee e proposte di ciò che considera dovrebbe essere il socialismo del XXI secolo?


Anzitutto, per quanto mi riguarda, si tratta di una questione di coscienza. Perché? Perché il pensiero si evolve. Nel mio caso ho acquisito esperienza e raccolto idee prodotte da quella dialettica fra la teoria, i dibattiti, le discussioni e la prassi di ciò che sta accadendo in Venezuela. Questi ultimi sei anni, Manuel, sono stati molto ricchi, ci hanno nutrito dal punto di vista delle idee. Hanno alimentato il nostro pensiero. Come sai, sto per compiere 51 anni (il giorno dopo l’intervista). La mia lotta comincia attorno agli anni 80. Poco prima di quel decennio cominciammo a formare in seno all’esercito una corrente bolivariana e nazionalista che per allora non progettava alcuna rivoluzione. Verso la metà degli anni 80 proposi ai miei compagni militari di aggiungere la lettera “R” di rivoluzione alla sigla del nostro movimento, che si chiamava “Ejército Bolivariano 200”, 200 perché nell’83 ricorreva il bicentenario della nascita di Bolivar, e il movimento nacque nel 1982 con un atto simbolico. Ma in realtà era una piccola cellula clandestina. Nell’87 il movimento era cresciuto, ma in modo ancora insufficiente. Fu allora che affrontammo una dura discussione e alla fine ci definimmo “movimento bolivariano rivoluzionario”. Perseguivamo una rivoluzione, una trasformazione politica, sociale, economica e culturale ispirata alle idee di Bolívar. Disegnammo quindi l’albero dalle tre radici, che è la nostra fonte ideologica. Consiste nella radice bolivariana (i suoi ideali di uguaglianza e libertà, la sua visione geopolitica di integrazione dell’America Latina); la radice zamorana (da Ezequiel Zamora, il generale del popolo sovrano e dell’unità civile e militare) e la radice robinsoniana (da Simón Rodríguez, il maestro di Bolívar, il Robinson, il saggio dell’educazione popolare, la libertà e l’uguaglianza). Questo albero a tre radici dette sostanza ideologica al nostro movimento”.


Fra di voi vi erano militari con formazione marxista?


Sì che c’erano. I miei primi contatti col mondo politico, per esempio, furono con un ex guerrigliero venezuelano a cui porto molto rispetto, Douglas Bravo. Ho avuto varie colloqui con lui, persino prima che nascesse il nostro movimento. Douglas dirigeva il movimento “Ruptura”, che aveva una rivista con il medesimo nome. Poi ebbi colloqui anche con la “Causa R”, quel movimento di chiara matrice marxista che fondò Alfredo Maneiro. Tuttavia, quelli erano gli anni in cui cominciava a incrinarsi l’Unione Sovietica. Vedevamo come le idee socialiste stavano sparendo, persino nei circoli e nelle pubblicazioni che venivano dal marxismo e dalla lotta armata. Poi venne la ribellione militare del 4 febbraio del 1992. Allora il nostro movimento bolivariano non aveva ancora una prospettiva socialista. Se rileggi le mie interviste di quegli anni, vedrai che quando ci domandavano se eravamo di sinistra o di destra rispondevamo: “Questa divisione non esiste”. Era una posizione neutrale, scollegata dalla realtà, però molto influenzata da tutta quella “fine della storia”, la caduta dell’URSS, ecc. Fu solo quando fummo eletti al governo nel 1999 che formulammo la rivoluzione bolivariana che fece poi -come ricorderai- un gran balzo in avanti dopo il golpe dell’aprile del 2002. E’ allora che questa rivoluzione si dichiara antimperialista. Mai prima d’allora ci eravamo espressi in questi termini. Fu la nostra risposta al golpe e il nostro popolo la abbracciò con molto vigore.


Una risposta al golpe imperialista?


Esattamente. Fu una risposta a ciò che stavamo vivendo. Forse, Manuel, nei primi anni del nostro governo - e ti confesso che anch’io ci ho creduto, anche se per poco tempo - vi fu l’illusione che avremmo potuto convivere con dio e col diavolo. Alcune persone che mi avvicinarono e che fino a un certo punto mi affiancarono in questo palazzo - tu sai che attorno al potere si generano anelli di influenza -, portavano avanti il discorso “non bisogna cercare conflitti, bisogna cercare consensi”. Mi lasciai influenzare da questa linea nei primi anni di governo. Erano i giorni in cui mi incontravo con Clinton e con i grandi imprenditori statunitensi. Andai al Fondo Monetario Internazionale, alla Borsa di New York ... Però, Manuel, alla fine scoprii, perché sono uomo di montagna e i montanari sviluppano un istinto speciale, che mi stavano accerchiando. Una mattina all’alba andai al centralino telefonico del palazzo e lì scoprii che avevano ricevuto istruzioni di non passarmi certe telefonate. Per esempio quelle di Fidel Castro erano annotate nel libro, ma non me le passavano perché nel gruppo che mi affiancava vigeva la tesi che la relazione con Fidel Castro non era positiva né necessaria.


E quelle persone avevano l’autorità per dare tale tipo di istruzioni al centralino?


Non ti ricordi che - per esempio - il Ministro dell’Interno era Luis Miquilena? Egli fu uno di quelli che strinse il cerchio attorno a me... E il Ministro nella Segreteria del Governo era niente meno che Alfredo Peña. E Cisneros veniva qui a pranzare con Peña. Mi resi conto che mi stavano manipolando. Allora io ero giovane, uno però matura. Un amico mio, un saggio, il generale Pérez Arcay, mi disse: “Hugo, devi crescere. Anche se hai 40 anni devi diventare vecchio, devi imparare in fretta, matura subito!”. Mi aiutò ad aprire gli occhi. Scusa, Manuel, se tendo a dilungarmi nelle risposte, però questo tema dell’ideologia non lo avevo mai analizzato come adesso, ripensando la traiettoria. Dunque, cosa produsse tutto ciò? Golpe del 2002, sciopero, sabotaggio petrolifero, controgolpe, discussione e letture. Arrivai alla conclusione -me ne assumo la responsabilità perché non l’ho discusso con nessuno prima di renderlo pubblico al Social Forum di Porto Alegre - che l’unica strada per uscire dalla povertà è il socialismo. Ci fu un’epoca nella quale arrivai a pensare alla terza via. Avevo qualche difficoltà a interpretare il mondo. Ero confuso, leggevo cose sbagliate, avevo dei consiglieri che mi confondevano ancora di più. Arrivai persino a proporre un foro in Venezuela sulla terza via di Tony Blair. Parlai e scrissi molto sul “capitalismo umano”. Oggi sono convinto che ciò sia impossibile. Ma questo è il frutto di sei anni di dura lotta e degli insegnamenti di molte persone. Mi sono convinto che il socialismo è la strada e così l’ho detto prima a Porto Alegre e poi qui, davanti all’Assemblea Nazionale. Ho invitato il paese a dibattere la questione. Credo che debba essere un socialismo nuovo, con progetti freschi, che si fondano sulla nuova era che sta cominciando. Per questo mi sono azzardato a definirlo “socialismo del XXI secolo”. Credo che sia una sfida. Sono molto contento di come la mia dichiarazione sia caduta su un terreno fertile. Sono già apparsi libri che dibattono il tema. In Venezuela il dibattito si sta ampliando. Il generale Alberto Müller Rojas ha invitato l’Assemblea Nazionale, nel giorno della patria, a fare il Manifesto Socialista del XXI secolo. Per adesso ciò che stiamo facendo è dibattere nuove idee e vecchie esperienze al fine di delineare questo nuovo socialismo. Per esempio, io vorrei dare un apporto con alcune idee. Una è affermare che il primo socialista della nostra storia è stato Cristo. Sono cristiano e penso che il socialismo deve nutrirsi delle correnti più genuine del cristianesimo. Non si tratta di andare alla ricerca di un illuminato affinché ci confezioni un modello da copiare. Sarebbe assurdo. Costruiremo il socialismo dalle nostre stesse radici, dai nostri aborigeni, dalle comunità del Paraguay e del Brasile, dal socialismo utopico che rappresentò Simón Rodríguez, dal pensiero di Bolívar di libertà e uguaglianza, dal progetto di Artigas, il grande uruguaiano che diceva che bisogna invertire l’ordine della giustizia, eliminando i privilegi. In Venezuela abbiamo iniziato questo lavoro.


Non crede, presidente, che dichiarare le sue intenzioni socialiste sia un po’ prematuro nell’attuale situazione venezuelana e latinoamericana? Non è una scommessa troppo alta quella che ha fatto?


E’ possibile che sia così, non credo di possedere la verità. Ma il mio istinto politico mi dice che questo è il momento di formulare questa proposta. Dal punto di vista del calcolo elettorale alcuni buoni amici e compagni mi hanno detto che non era opportuno. Che sarebbe stato meglio aspettare le elezioni del 2006 e avanzare la proposta dopo averle vinte, però io non la penso così. I tempi politici non coincidono necessariamente con i tempi elettorali. Da qui a un anno c’è un secolo. Il tempo è relativo, lo ha già dimostrato Einstein. Credo che questo sia il momento. Quando vedi che i campi rinverdiscono, quello è il momento di seminare. Quando vediamo ciò che sta succedendo in America Latina, soprattutto nell’America del Sud, il grande dibattito che si è aperto in Brasile, in Uruguay, e i governi che spingono per nuove cose, quando vediamo quello che sta succedendo in Ecuador e in Bolivia, anche in Venezuela naturalmente, in Centroamerica e nei Caraibi... Ma l’epicentro è l’America del Sud. A questo fiorire popolare e democratico è necessario dare sostanza ideologica. E qual è? Io rispondo, dalla mia coscienza politica, che è la via socialista. In Venezuela l’ho presentata nel seguente modo: siamo in una transizione e, come diceva Gramsci, che muoia ciò che deve morire e che nasca ciò che deve nascere. Una transizione che mi permetto di chiamare “democrazia rivoluzionaria”, un termine che non è mio ma del poeta cubano Roberto Fernández Retamar. Ne parla in un’intervista del 1992 che lessi quando ero in carcere, in un libro del cileno Sergio Marras. Fernández Retamar parla del bolivarianismo e della democrazia rivoluzionaria...  Stiamo vivendo una fase di transizione verso il socialismo, ciò è molto evidente in Venezuela. Se fino a quattro anni fa mi avessero chiesto: “Chávez, dove andiamo?”, forse la mia risposta non sarebbe stata altrettanto precisa, benché anche la risposta che ti sto dando sia carente di precisione. Ti avrei detto, come tante volte ho detto: qui c’è la Costituzione Bolivariana, questo è il progetto. Adesso credo che andiamo verso il socialismo. La democrazia rivoluzionaria deve essere orientata verso il socialismo. Questa svolta ha generato nel paese una dinamica dal basso molto interessante. Pdvsa (petrolio del Venezuela), per esempio, sta discutendo questo tema all’interno dell’industria con quel leader straordinario che è il ministro di Energia e Petrolio, Rafael Ramírez, un giovane che si è formato in quel movimento “Ruptura” del quale ti ho parlato. Ma i funzionari del mio governo con formazione marxista non si azzardavano a parlare di socialismo. Io ho dato loro il segnale verde. Adesso persino l’Assemblea Nazionale parla di socialismo. E’ stata come una liberazione, si ritorna a parlare di un tema tabù. Il ricatto mediatico era molto pesante: se ti dichiaravi socialista, ti davano del rincretinito, troglodita, dinosauro. Adesso non più, il socialismo è per la strada e persino alcuni imprenditori dichiarano che non li spaventa. Magnifico! Dovremo ascoltare le loro ragioni, rispettarle e discuterle. I militari parlano di rivoluzione e socialismo e anche tra loro si è aperta una discussione. Credo che ciò sia molto positivo. Io assumo la responsabilità che mi spetta in questo processo. Dobbiamo studiare e dibattere molto. Magari potessimo fare presto un evento internazionale sul socialismo per conoscere le diverse opinioni e esperienze!


Ci sono cose del vecchio socialismo, Presidente, che sono fallite. Per esempio la concezione del partito, l’assenza di partecipazione reale della popolazione nelle decisioni, la mancanza di pluralismo, l’immobilità dell’economia, il basso profilo dei diritti umani, delle libertà pubbliche e della libertà d’espressione... che cosa differenzia il socialismo del XXI secolo da quello del passato?


Hanno ragione quelli che dicono che in realtà non ci fu mai il socialismo... Circolava una barzelletta su Breznev o un altro leader sovietico che confessava a un amico: “speriamo che qui non arrivi mai il socialismo!” Ebbene, fra gli elementi che potrebbero definire il socialismo del XXI secolo, direi che in primo luogo c’è la morale. Bisogna iniziare da lì, dalla coscienza, dall’etica. Il Che scrisse molto sulla morale socialista. Dalla visione del mondo di ciascuno è necessario recuperare il senso etico della vita. Senza dubbio ciò che dico ha molto di cristianesimo: “Amatevi gli uni con gli altri” o “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Realmente si tratta di questo: la solidarietà con il fratello. Lottare contro i demoni che ha seminato il capitalismo: individualismo, egoismo, odio, privilegi. Credo che da qui dobbiamo cominciare. E’ un lavoro quotidiano, una lavoro culturale e educativo di largo respiro. In Venezuela abbiamo cominciato a dibattere questo aspetto e ciò è molto positivo. E’ un’arma nella lotta contro la corruzione, un male che è proprio del capitalismo. Industrie e industriali corrotti, affari oscuri, funzionari corrotti, mossi solo dall’ambizione. Benché la corruzione fosse presente anche nel socialismo, il fenomeno ha una radice capitalista, è l’ambizione della ricchezza. Il socialismo deve difendere l’etica, la generosità. Bolívar fu un esempio: abbandonò tutto per essere utile al suo paese. Bisogna ricordare che anche Cristo disse all’uomo ricco che voleva andare in cielo: lascia tutto e distribuiscilo fra i poveri. L’uomo si mise a piangere perché non era capace di farlo. Fu allora quando Cristo disse quella frase: “sarà più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel regno dei cieli”. In ambito politico uno dei fattori determinanti del socialismo del XXI secolo deve essere la democrazia partecipativa e protagonista. Il potere popolare. Questo è un elemento politico definitivo che contrasta con quello del partito unico o di concentrare tutte le decisioni nel partito. Bisogna concentrare tutto nella popolazione, il partito deve essere subordinato al popolo. Non il contrario.


Un sistema politico pluralista che permetta a differenti settori di partecipare? Un reale potere popolare?


Esatto, una democrazia partecipativa e aperta. In campo sociale, il socialismo deve coniugare uguaglianza e libertà. Una società di inclusi, di uguali, senza privilegi, senza questa abissale differenza fra estrema ricchezza e estrema povertà. In campo economico: un cambiamento del sistema di funzionamento metabolico del capitale. Questo è un tema complesso da trattare. Qui, in Venezuela, abbiamo cominciato a sperimentare come la cooperazione e l’associazionismo, la proprietà collettiva, la banca popolare, nuclei di sviluppo endogeno, diano impeto e impulso. Si tratta di abbandonare la logica del funzionamento perverso del capitalismo. Sono valide molte esperienze: l’autogestione e la cogestione, la proprietà cooperativa e collettiva... Stiamo costruendo un esperimento di industrie di produzione sociale e di unità di produzione comunitaria. Sta nascendo solo adesso, ma aiuterà a individuare un modello teorico con una connotazione speciale: non si tratta di un gruppo di intellettuali che stanno scrivendo un saggio di duemila pagine. Pratica e teoria devono muoversi di pari passo.


Come vede l’attuale situazione in America Latina? Crede che l’impero cercherà di generare conflitti per destabilizzare governi ribelli come il suo?


Siamo preparati alla reazione internazionale, già la si sente. Non solo nel caso del Venezuela, ma anche del Brasile. Il caso di questo paese e lo scandalo che è scoppiato per la corruzione senza che significasse tolleranza per la corruzione, ha l’aria di avere un solo obiettivo: indebolire il governo di Lula, uno straordinario leader, per cercare di ricattarlo. Spero vivamente che Lula riesca a uscire da una situazione tanto difficile e il Brasile si unisca al nuovo cammino che i popoli dell’America Latina hanno la necessità di intraprendere. Anche in Argentina vi è un processo complesso: permanenti attacchi di settori dell’oligarchia al governo, attacchi internazionali, ecc. Vediamo ciò che sta succedendo in Bolivia, in Ecuador, in Uruguay. Anche in Messico vi sono prospettive di un governo diverso. Insomma, con questo sguardo alla situazione latinoamericana, che non pretende tuttavia d’essere un’analisi: direi che abbiamo ragioni per essere ottimisti. Chi sta alla testa di alcuni processi in America Latina, sia dal governo che dai movimenti sociali, deve disegnare una mappa non solo strategica ma anche tattica e operativa. In questo siamo un po’ carenti e sarà necessario che pensatori e leader di diversi paesi formino una squadra capace di fare proposte che abbiano impatto su questa realtà. Come continuare a dare impulso a TeleSur, per esempio. Petrosur, Petroamérica, la Banca del Sud, l’Università del Sud, sono progetti di integrazione che non possono rimanere solo a livello di governo. Ad ognuno di questi dobbiamo dare contenuti di partecipazione popolare, altrimenti, come diceva Bolívar, diventano “castelli in aria".


La sua, Presidente, è una visione ottimista sul futuro dell’America Latina?


Sì, è ottimista.