Caracas 4 dicembre 2006 - www.gennarocarotenuto.it

 

Chávez, l'America Latina e

il cadavere del liberismo

 


Il dodicesimo trionfo elettorale di Chávez, il più chiaro e monitorato di tutti, ma soprattutto il discorso politico con il quale gli ha conteso la presidenza Manuel Rosales, un Achille Lauro venezuelano, testimoniano che l'agenda politico-economica latinomericana è definitivamente cambiata e che nessuno può più vincere elezioni proponendo liberismo economico.

 

Bisogna vederlo il popolo venezuelano festeggiare. Nel metro di Caracas un anziano sulla settantina, in testa un improbabile cappellino con il volto del Che, che copre una pelata color carbone, stringe il braccio di sua moglie. Gli occhi le brillano di felicità. Tiene a bada una nipotina minuscola, 3-4 anni, anche lei in camiciola rossa, rojo-rojita come direbbe il Presidente. Festeggiano Chávez, il loro Presidente. Vanno verso un cerro, un ranchito, una favela. Questi anni bolivariani hanno dato loro salute, educazione, ma soprattutto una cosa che gli esclusi di questo paese non avevano mai avuto prima: partecipazione, il sentirsi parte di un progetto di paese, la speranza di non essere più esclusi. Non è più il calvinista sogno americano dell’individualismo neoliberale, è l’essere parte di un progetto di paese solidale.

In America Latina, nel giro di sette giorni, per due volte i candidati delle destre, Noboa in Ecuador e Rosales in Venezuela, appoggiati dagli Stati Uniti, dal neocolonialismo spagnolo del Grupo Prisa e dal sistema mediatico mondiale, si sono fermati alla metà dei voti dei loro avversari di sinistra, Chávez e Correa. È un disastro matematico. Tra dittature militari e neoliberismo in mezzo secolo le società latinoamericane hanno raddoppiato il numero di esclusi. Questi sono passati da un terzo a due terzi e oggi non credono più alla retorica del neoliberismo fallito. Nessuno sano di mente crede più alla balla, ancora oggi ripetuta da eminenti cattedratici nel nord del mondo, per la quale chiudere scuole e ospedali e ridurre le tasse ai ricchi sia la miglior maniera di aiutare i poveri. Ancora ieri il Fondo Monetario Internazionale ordinava di chiudere scuole e mense infantili. I governanti eseguivano; più impresa e meno stato, più precarietà e meno servizi pubblici, più privatizzazioni e più poveri. Chi non ricorda autocrati come Alberto Fujimori, Carlos Ménem, Carlos Andrés Pérez? Tutti furono eletti con voti di sinistra –Pérez fu perfino vicepresidente dell’Internazionale Socialista (sic!)- ma tutti, in politica economica e non solo, non si distinguevano da Augusto Pinochet, che l’inferno non gli sia lieve.

CAMBIO NEL LINGUAGGIO POLITICO

 

Il ventennio neoliberale, per il quale il genocidio delle dittature fu necessario e propedeutico, è finito. Ed è finito il 3 dicembre 2006 con Manuel Rosales. Se infatti fino allora la parte sinistra di sistemi politici bipolari, per vincere si vedeva obbligata a parlare ed operare come la destra, da oggi è quest’ultima a parlare (operare chissà) cercando di imitare un discorso politico di sinistra.

Manuel Rosales, il candidato delle destre sconfitto in maniera durissima da Hugo Chávez ne è un perfetto esempio. E’ un golpista dell’11 d’aprile 2002, uno che si fece fotografare con l’effimero dittatore Carmona nel palazzo di Miraflores. Ma il suo discorso è stato depurato da qualunque parola d’ordine della destra economica. Gli spin doctors mandati dagli Stati Uniti lo hanno trasformato in un socialdemocratico, uno statalista impresentabile per la buona società che si riunisce a Davos. Gli editoriali dei quotidiani di destra, dall’Universal al Nacional, sono pieni di affermazioni paradossalmente pietose: “è insopportabile che in Venezuela ci sia un terzo di popolazione in estrema povertà”. Peccato che lo scoprano solo adesso e soprattutto dimentichino che prima di Chávez in povertà estrema vivevano due terzi dei venezuelani. Oggi sono dimezzati e sono protagonisti della democrazia partecipativa che è nella Costituzione del paese.

Anche se Rosales si presenta come un moderno socialdemocratico che prende i voti della destra golpista, la differenza tra Chávez e Rosales resta abissale. Mentre dal basso il movimento bolivariano usa lo stato, e soprattutto l’impresa pubblica petrolifera PDVSA, per generare diritti, inclusione e sviluppo, il programma di Rosales prometteva di usare lo stato per creare un clientelismo che ricorda da vicino quello della destra monarchica di Achille Lauro, che regalava ai sottoproletari napoletani la scarpa destra prima delle elezioni, con la promessa che la scarpa sinistra sarebbe stata consegnata ad elezione avvenuta. Il punto centrale del programma sociale di Rosales, “Mi negra” - già il nome è indiscutibilmente razzista - ha distribuito in piena campagna elettorale 2.5 milioni di carte di credito – la scarpa destra - a cittadini poveri. La carta di credito sarebbe stata attivata - scarpa sinistra - ad elezione di Rosales avvenuta. Questa avrebbe concesso ai poveri l’inalienabile diritto umano a diventare clienti di banche private, e avrebbe girato direttamente nelle loro tasche i soldi che sarebbero serviti per pagare i servizi privatizzati che oggi con Chávez ricevono gratuitamente.

Ci vuole molto cinismo per accusare Chávez di assistenzialismo per aver dato impulso alla costruzione, da zero o quasi, di sistemi sanitari e scolastici pubblici. Ma bisogna essere in malafede per non accorgersi del gioco sporco e del trasferimento di risorse pubbliche dai poveri –che sarebbero stati comprati con l’inflattiva illusione di ricevere contante- all’impresa privata dietro iniziative come “Mi negra”. Il cambio di discorso di Rosales, che non è stato creduto ed è stato polverizzato elettoralmente da Chávez, testimonia una svolta epocale. Chávez, i molti Chávez dell’America Latina, quelli già al governo e quelli che ancora mancano all’appello, a partire dal Messico, non sono una meteora. E il discorso neoliberale non compra più nessuno.

Gennaro Carotenuto
 

 

 

Caracas 3 dicembre 2006 - www.gennarocarotenuto.it

 

Da Caracas a seggi aperti, voto elettronico

in Venezuela e negli Stati Uniti

 


 

B

Da osservatore internazionale, e a seggi aperti, non posso emettere dichiarazioni su temi politici ma è corretto, necessario ed urgente fare una puntualizzazione tecnica per impedire che informazioni in malafede possano condizionare l'opinione pubblica sul processo elettorale venezuelano.

In Venezuela il processo elettorale è completamente elettronico. Da studioso dei sistemi elettorali e da critico del voto elettronico devo ammettere che nelle ultime 48 ore ho avuto occasione per ricredermi completamente. Le macchine sviluppate dalla Commissione Nazionale Elettorale venezuelana (CNE) sono all'avanguardia nel mondo. Anzi, due giorni fa il Washington Post, riconosceva che c'è un abisso tra la sicurezza del processo elettorale venezuelano e l'aleatorietà arbitraria di quello statunitense. Veniamo ai fatti principali (che il lavoro di osservatore incombe).

1) La CNE, è un potere completamente indipendente da quello esecutivo, legislativo e giudiziario.

2) Si vota con SOLO due clic sullo schermo, uno per selezionare il candidato e un altro per inviare il voto. Le macchine a quel punto stampano una scheda fisica che il candidato ripiega e inserisce nell'urna come in un voto manuale.

3) Al termine del voto, alle 16 venezuelane, le 21 italiane, si procede, centro elettorale per centro elettorale, al sorteggio del 55% dei seggi e si effettua immediatamente un controllo tra voti digitali e voti fisici emessi dagli elettori.

Secondo tutti gli esperti indipendenti, e i vari gruppi di osservatori internazionali, CNE, UE, OEA, Centro Carter, dei quali mi onoro di fare parte, il sistema appare ineccepibile e, nonostante quanto denuncia parte dell'opposizione e parte della stampa internazionale, per provocare instabilità in Venezuela, non ci sono possibilità di brogli, o almeno ce ne sono meno che in qualunque altra parte del mondo, che si voti in maniera manuale o elettronica. In ogni caso, ci sono migliaia di osservatori internazionali, e decine di migliaia di rappresentanti di lista pronti a verificare. In particolare, riprendo l'articolo del Washington Post, la comparazione tra il voto statunitense e quello venezuelano è impressionante nei seguenti punti:

1) solo in casi quantitativamente marginali, negli Stati Uniti viene emesso un voto stampato, mentre in Venezuela è emesso nel 100% dei casi. E' per questo che Al Gore ha dovuto rinunciare a ulteriori verifiche quando fu battuto da Bush nel 2000.

2) negli Stati Uniti il controllo viene fatto sul 2% dei seggi (e non si capisce che raffronto facciano, se non c'è un voto fisico da confrontare), mentre in Venezuela c'è un reale doppio scrutinio per il 55% dei seggi, un numero definito impressionante da Avi Rubin, esperto di voto elettronico, della John Opkins University.

3) negli Stati Uniti, le macchine e il software sono di proprietà di imprese private che dietro la scusa della proprietà intellettuale, impediscono il controllo del meccanismo. In Venezuela il software è aperto ed è verificabile ogni passaggio del meccanismo ed ogni riga di codice che gestisce le elezioni.

In pratica quando un elettore vota negli Stati Uniti, il suo voto è gestito da un'impresa privata che ha vinto un appalto del governo. Il voto è amministrato attraverso codici proprietari e segreti perchè protetti dalle leggi sul copyright e non c'è nessun riscontro che il voto dell'elettore corrisponda a quello conteggiato dalla macchina. Nella Repubblica Bolivariana del Venezuela, e ne sono giustamente orgogliosi, il voto si svolge attraverso un codice aperto e verificabile, viene emessa una scheda fisica che viene inserita in un'urna e conteggiata in maniera tradizionale per poter verificare il voto. Per un'Occidentale medio è difficile ammettere che un paese del terzo mondo possa essere all'avanguardia in qualcosa, tantomeno in democrazia. Probabilmente un viaggio in Venezuela con occhi aperti può essere occasione per un bagno d'umiltà necessario.

Ovviamente e chiudo, ci sono molte maniere per continuare a denunciare brogli. In questo paese si creano polemiche paradossali sul nulla, spesso orchestrate dall'estero o dall'estero riprese pedissequamente per lanciare sospetti.

Per esempio:

1) qualcuno denuncia che l'elettore non può bivaccare dentro il seggio per ore, ma può solo votare per poi ritornare, se vuole, al momento dello scrutinio. Ho diritto - si inventa - a restare dentro il mio seggio tutto il giorno a controllare. E se 500 elettori volessero bivaccare tutti dentro il seggio per tutto il giorno? Dove al mondo si può fare?

2) qualcuno denuncia che la CNE non permette di portare la stampata a casa. Perché mai la CNE vuole tenerla per sé dentro quell'urna di cartone? Se provi a spiegare che a) la stampata serve per la verifica e non come ricordino; b) se il voto uscisse dal seggio non sarebbe più segreto, ti guardano strano.

3) qualcuno denuncia che il 55% di verifiche è poco, e che non è il 100% perché i brogli si faranno sul 45% restante. Chissà cosa pensa il prof. Rubin, con quel 2% miserello e senza verifiche degli Stati Uniti?

Su cretinate simili si sono sprecati fiumi d'inchiostro, in Venezuela e all'estero. Intanto in strada le code sono lunghissime, ma pacifiche e tranquille e i venezuelani ci accolgono con amicizia e ci ringraziano per essere venuti a testimoniare della loro democrazia.

 

Gennaro Carotenuto