26 novembre 2006 - M.Chierici www.unita.it

 

Chavez sì, Chavez no

 

 

 

Domenica si vota in Venezuela, quasi sicuro che Chavez venga confermato presidente. Di lui sappiamo tante cose, ma sempre parziali: una voce contro l'altra. Anche le previsioni lasciano capire la radicalizzazione a tutti i costi. Gran parte dei sondaggi (soprattutto dell´altra America) lo danno vincitore con 15-20 punti di vantaggio. I numeri dell´opposizione (sempre società Usa, la stessa alla quale si affida Berlusconi) assicurano l'impatto tecnico: Chavez e il contendente Rosales sarebbero divisi da sfumature, zero virgola qualcosa. Annunciano un Paese e il petrolio nel caos. Già l'opposizione brontola sui voti nascosti ed elettori fantasma. Si prepara una "campagna internazionale" di ripudio, storia venezuelana che ricorda una storia italiana.

Per capire quali verità manchino all'informazione alla quale si affidano giornali e Tv che guardano da fuori, l'Unità ha raccolto in due libri tutte le voci. Parlano i lealisti, parlano gli oppositori: «Chavez e il Venezuela», «Chavez e l´America Latina». Il primo esce domani, martedì. Il secondo dedicato alle bandiere che cambiano nel continente, verrà distribuito il 6 dicembre. Bandiere rosse, bandiere bianche, bandiere rosa.

Rovesciando il sospiro di Benito Juarez negli anni in cui il Messico soffriva l'ingerenza Usa, dopo le elezioni che hanno cambiato il continente nel 2006 i latini potrebbero essere più vicini a Dio e più lontani dagli Stati Uniti: Washington si è un pò dimenticata del giardino di casa, ma la tragedia irachena potrebbe riaccendere l'interesse.

Mai in modo così clamoroso l'informazione ha accompagnato una campagna elettorale lunga sei anni perché da sei anni il Venezuela continua a votare. Appena eletto a furor di popolo e con l'appoggio della borghesia (quasi il 90 per cento di adesioni), Chavez ha cambiato la Costituzione con un referendum che sostituiva la Carta Magna vecchia di 40 anni. Fino a quel momento l'alternanza era obbligatoria. Dopo un presidente socialcristiano veniva un presidente socialdemocratico, formula che in apparenza garantiva la democrazia nel gioco di due partiti le cui radici affondavano nella politica europea. Ma ha anche favorito la formazione di lobbies blindate: hanno travolto nella corruzione un Paese ricco, poco popolato, consegnandolo alle mani delle elites del privilegio. Due ex presidenti - Lusinchi e Peréz - sono scappati all'estero inseguiti dalla giustizia. Gran parte della popolazione lasciava le campagne del latifondo allargando favelas disperate. Incombono sugli ospiti degli alberghi di lusso. E le città sono diventate violente. Nel 1997 il giornalista sbarcato a Caracas contava sui giornali i delitti del fine settimana. Morti per un paio di scarpe, l´orologio, qualche dollaro: 197 solo nella capitale, risultato delle due società parallele, vicine ma lontanissime. La violenza continua anche se repressa. La relazione di un'agenzia Onu fa scendere percentualmente il Venezuela dal primo al secondo posto nella triste classifica delle americhe insanguinate: 38,3 morti violente ogni 100mila abitanti, il Brasile guadagna il primato con 43,1 vittime. Sempre giovani e ragazzi. La disattenzione che nutriva e nutre il benessere di una certa cupola per lo più bianca, raramente marron, mai nera, ha addensato nel tempo una moltitudine che non ha niente da perdere: sopravvive come può. Sulle loro teste sono passati miliardi invisibili. Per trent'anni il 20-23 per cento del petrolio del quinto produttore del mondo, spariva senza passare dogana. Non si è mai saputo chi vendeva, chi incassava e dove finiva l'oro nero, produzione simile a quella del Kuwait svanita nel mistero delle nuove ricchezze. La monocoltura del petrolio è il solo interesse curato da chi non si preoccupava del futuro di un Paese normale. Enormi piantagioni abbandonate all'allevamento costringevano ad importare più del 70 per cento di ciò che si mangia in un posto largo un milione di chilometri quadrati con possibilità di due raccolti l'anno. Gli anni di Chavez hanno ridotto il deficit a meno del 60 per cento, fra mille ostacoli e tensioni in ogni settore. Nessuno aveva costruito una ferrovia. Solo adesso corrono i primi treni. Ospedali pubblici pochissimi, campagne abbandonate. La parola «ospedali» definiva strutture fatiscenti dove si entrava per morire, poche speranze di guarigione mentre prosperano cliniche e scuole private. Due società parallele destinate ad incontrarsi nei cimiteri, spesso neanche lì.

Chavez è un populista che parla sfinendo chi l'ascolta. Roboante, ripetitivo. «Devo convincere una popolazione per mezzo secolo imbrogliata. Convincerla a fidarsi, a sperare, capire. Ad associarsi attorno all'idea che le risorse sono di tutti. Lo chiamerei socialismo cristiano del ventunesimo secolo. So che ne sorridete, ma non abbiamo scelta altrimenti i diseredati andranno avanti ad arrangiarsi come possono. E il disordine e il crimine continueranno». Populismo nel distribuire terre, piccole case, ambulatori nelle favelas, sussidi ai ragazzi per obbligarli a studiare? È possibile. Populismo a volte scostante, ma è difficile rimettere in piedi un Paese che potrebbe volare e fino a ieri strisciava senza prospettive.

Rispondono gli oppositori: «Non sono riforme strutturali. Solo furbizie elettorali. Distribuisce soldi calcolando i voti. Siamo di fronte ad una autocrazia che a poco a poco annullerà ogni regola democratica». Lo sospettano i monsignori della commissione episcopale storicamente critici verso il presidente. Ma la Chiesa di base la pensa diversamente. Suore missionarie straniere scrivono la loro protesta al primate emerito duro con Chavez: «venga a vedere come vive la gente e come la loro vita stia cambiando». Roma cambia il nunzio e raccomanda cautela. Il professor Giannetto, ex rettore dell'università importante, definisce «fascista» l'uomo che governa. E quando il giornalista lo invita a sfumare la parola forte, il professore insiste: la scriva, voglio dirla perché è proprio così. Insomma, il Venezuela è un laboratorio maleducato ma anche insolito nell'America Latina dei colpi di mano e colpi di Stato. L'opposizione ha provato la soluzione armata nel 2002 e appena Chavez si è risieduto nel suo palazzo, l'opposizione ha insistito con un secondo capitolo di lotta: sciopero petrolifero che ha inginocchiato il Paese. Con l'aiuto del Brasile di Lula e della folla che non l'abbandona, Chavez ce l'ha fatta un'altra volta. Adesso col petrolio alle stelle, i suoi petrodollari stanno inondando l'America Latina dei debiti aiutandola a liquidare Fondo Monetario e Banche Mondiali. Sta per cominciare la stagione delle scelte liberate dalle ragnatele del neoliberismo, catastrofi argentine, uruguayane, brasiliane per non parlare della Bolivia isolata in fondo al mondo. Se domani il continente latino sbaglia, questa volta sbaglia da solo.

Raramente le voci venezuelane vengono messe a confronto. Ne è responsabile un'informazione interna non solo furibonda, ma in grado di proiettare la deformazione in Europa e Stati Uniti. Bisogna dirlo, con l'aiuto di Chavez. Non trattiene le improvvisazioni: slogan, discorsi, perfino show sul palcoscenico delle Nazioni Unite. Sempre Bush l'obiettivo. Sempre «l'impero» satana dei popoli oppressi. Ma una volta ha risposto: «Con Bush alla fine trovo sempre un accordo. Siamo tutti e due petrolieri». E il presidente della Camera di Commercio Americana-Venezuelana, si frega le mani contento: mai l'interscambio è andato tanto bene. E le previsioni sono ancora più rosa.

La maleducazione del laboratorio Venezuela è il risultato di una strana informazione. Con qualche violenza, offese e minacce, da una parte e dall´altra, ma, per la prima volta nel continente le pallottole sono soltanto parole. Elettroniche nelle radio e Tv, monopolio di editori che hanno tanti affari e non sopportano il presidente. Di carta, con altri editori e altri affari: tutti sperano di rovesciare «il mostro dell'America Latina». Due giornalisti le cui analisi sono le più seguite (Roberto Giusti, «El Universal», portabandiera dell'opposizione ed Ernesto Villegas Poijak, prima voce nella piccola Tv di Stato) naturalmente non sono d'accordo su niente, ma una considerazione li accomuna: nel vuoto dell'opposizione che va dalla sinistra moderata alla destra fascista, il Venezuela è diventato il laboratorio maleducato nel quale si rovesciano le regole naturali dell'informazione, assegnando ai media la responsabilità di imporre ai politici ciò che è stato deciso in redazione. E il compito di leader non irresistibili si riduce all'applicazione delle strategie annunciate da giornali e Tv. «Tutto è discutibile, tutto diventa relativo», analisi di Roberto Giusti. «Se dico che in Venezuela esiste libertà di stampa, posso dire una bugia. Ma se rovescio l'opinione per affermare il contrario, non sto dicendo la verità». E sono «verità» pesanti. Per capire: insulti da osteria nello stile del «Libero» di Feltri. L´importante è colpire aspettando la risposta che arriva sulle stesse corde. Suonano meno perché i media di Chavez restano barchette e non corazzate. Chi arriva da fuori per raccontare il Venezuela si appoggia ai grandi quotidiani e alle Tv importanti, ecco perché ascoltiamo quasi sempre voci di una sola campana.

Se Chavez resterà presidente, una certa America Latina consoliderà i progetti che l'allontanano dall'altra America. Argentina e Brasile ufficialmente ne affiancheranno la politica continentale con una diplomazia diversa dall'irruenza di Chavez: moderazione di Kirchner e Lula. Ma il disegno finale non cambia: fare da soli. La Bolivia di Morales è aggrappata al Venezuela: non solo tecnologie e strategie nel rinnovo dei contratti alle multinazionali del gas, anche le nuove dottrine che limano i latifondi, nazionalizzano le risorse. Per non parlare della pedagogia dell'alfabetizzazione che il Venezuela da poco alfabetizzato dai maestri cubani (con buchi che la dichiarazione Unesco trascura) esporta a La Paz per rafforzare il governo traballante di un Morales minacciato dai governatori delle regioni petrolifere. Respingono nuova Costituzione e riforma agraria. Il ritorno del piccolo Nicaragua nell'alveo della sinistra chiacchierata di Daniel Ortega, può solo consolare Chavez, non dargli la forza, mentre la confusione messicana di un Lopez Obrador battuto dalla destra di Calderon e non rassegnato ad accettare la sconfitta, crea tensioni lungo la frontiera Usa dove cresce il muro anti clandestini. Immaginato da Reagan, realizzato da Bush. In queste ore si contano i voti delle elezioni in Ecuador. Tornano le contraddizioni di ogni altro posto latino. Da una parte l'uomo più ricco del Paese, Alvaro Noboa, liberista che ammira Berlusconi; dall'altra Rafael Correa che guarda Chavez. Per protesta contro i "brogli" non ha partecipato alle elezioni del Congresso dove non conta un solo seggio. Se hanno ragione le previsioni che lo danno vincitore, l'Ecuador potrebbe affondare nell'inquietudine messicana.

Bandiere rosse, bandiere rosa pallido (il Cile della Bachelet) bandiere bianche (Peru di Garcia), bandiera gialla della Colombia liberista di Uribe. Cuba sullo sfondo: ha fatto sognare l'indipendenza di un continente negli anni delle dittature addestrate da Washington. Resta congelata nell'isolamento che perfino il presidente della Cina Popolare ha rimproverato durante l'ultima visita a l'Avana. Adesso il declino biologico di Castro. Il Dipartimento di Stato sta finanziando i comitati incaricati di «promuovere la transizione democratica»; il partito unico di Cuba sta stringendo le file per resistere «ad ogni pressione esterna». E il petrolio di Chavez illumina il tramonto di Fidel.