Un cubano racconta … della caduta del muro di Berlino

Grande intervista di István Ojeda Bello, dal suo blog “Cubaizquierda” (vedi il testo originale). La grande storia vista dall’interno di Cuba…

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Anche se lo nega, molto di questo Antonio Medina che conosco probabilmente era già presente in quel giovane di 19 anni che se ne andò al tecnologico industriale dell’allora Repubblica Democratica Tedesca; oltre ai capelli lunghi, l’intelligenza e la determinazione di non lasciarsi schiacciare da nessuno. Non ammette nemmeno di saper bene il tedesco, ma rievocando quest’epoca varie volte l’ha fatto con parole e frasi complete in quella lingua.

Era una conversazione che mi doveva da tempo, perché Tony è sempre stato come la mia macchina del tempo verso una fase che ho vissuto senza la maturità sufficiente. Adesso, i 25 anni dalla caduta del muro di Berlino sono stati il pretesto per rompere, alla fine, il ghiaccio, mentre lui scavava tra le sue foto come chi fruga nei suoi ricordi.

Perché in Germania ?

rdarecuerdos_tony_0001Mi sono diplomato a La Habana come meccanico riparatore di macchine e attrezzature. Mi hanno mandato alla CUAJE ( è l’Instituto Superior Politécnico José Antonio Echeverríadell’Avana. NdT) per diventare specialista in “Manutenzione preventiva pianificata”. Si supponeva che saremmo andati in Spagna, io e un elettricista, a comprare gru per il laminatoio che si stava costruendo a Las Tunas. Poi mi hanno spostato all’area di lubrificazione, e hanno pensato che era meglio mandarmi a studiare in Germania. Questo fu nel 1886.

Non immaginavo la Germania, non conoscevo nessuno. Per me il sogno era l’URSS, la Bulgaria o la Cecoslovacchia perché la maggior parte dei miei amici avevano studiato lì. Ma la macchina assemblatrice di auto che si supponeva dovessimo avere a Las Tunas c’era solo in Germania e siamo andati là in undici.

Prima abbiamo fatto un corso di lingua e a poco a poco ci abituavamo a stare con i lavoratori di diverse fabbriche dell’industria automobilistica. Era come un tecnologico, il Federico Engels, a Lipsia; poi saremmo passati all’Università Lenin.

I tedeschi…

All’inizio sono stati straordinari. Non so se per i miei 19 anni ma gli sono sempre piaciuto. Però c’era anche un tipo, lo chiamavamo “el Petroya”, che aveva tutte le caratteristiche del tipico nazista: alto, forte, capelli bianchi. Ricordo che in una delle prime lezioni di lingua io ero stanco per il cambio di fuso orario ed ero come piegato sulla mia sedia, lui viene e mi dà una pedata. Mi sono alzato e anch’io gli ho dato una pedata. “No. Puoi anche mandarmi al mio paese in questo momento. Io sarò nero ma a me nessuno dà una pedata”gli ho detto.

Ma tu non sei nero. A Cuba sei bianco…

C’era xenofobia. L’ho potuto vedere nei primi momenti. Se eri straniero, non importava se eri biondo, per loro eri nero. Oppure passavi per indiano. C’era una signora che è stata come una mia seconda mamma in Germania che quando le ho mostrato la foto di mia figlia a Cuba mi ha detto: ”Un’autentica indiana”.

Se parlavi di Cuba pensavano che fossimo dei selvaggi. La propaganda che c’era su Cuba era canna da zucchero, un machetero nero che tagliava la canna o alcuni neri nei loro balli africani.

Io domandavo tutto, come si dice questo o quello. Come si corteggiava una donna, cosa bisognava dirle. Poi un amico mi ha consigliato di non avere un traduttore. “Ti imbrogliano” mi ha detto. Mi sono cercato un amico che parlasse meglio di me finchè un giorno gli ho detto: ”non continuare, parlo da solo”. Ho rinunciato del tutto allo spagnolo. Parlavo, sognavo, scrivevo in tedesco.

Mi rendevo conto che all’inizio facevi ridere e quindi mi offendevo. C’erano volte che si dicevano cose tra di loro e scoppiavano in una risata. Ho cominciato a capire che quello che prima ti faceva ridere non faceva poi tanto ridere. Sono arrivato a capirli e a smentirli quando parlavano male del mio paese.

I primi indizi…

Nel 1988 sono venuto in vacanza a Cuba e amici di mio papà della Sicurezza dello Stato sono venuti a vedermi e a domandarmi come stavano le cose là in Germania, in Ungheria. Perché viaggiavo anche in Ungheria. Lì e in Cecoslovacchia si comprava tutto meno caro. Quando sono stato l’ultima volta in Ungheria c’era un ambiente totalmente diverso. Ho avuto una donna che era mia moglie e la mia professoressa, per questo ci vedevamo di nascosto. Andavo in treno fino a Dresda, salivo sulla sua Skoda e viaggiavamo.

Dopo essere ritornato da Cuba mi dicono che l’Ungheria vuole rompere con il COMECON. Ma,  dato che la politica non mi aveva mai interessato molto, sinceramente non avevo notato niente. Avevo sì amici che avevano tentato di oltrepassare il muro e odiavano a morte Erich Honecker.

Un lunedì sotto la bacheca della scuola dove annunciavano sempre quello che ci sarebbe stato durante la settimana, concerti, partite di calcio… c’era un cartello che diceva “non dormire più, sveglia, giovedì usciremo assieme ecc.”

Era la convocazione di una manifestazione…

Esatto. Avevamo sempre con noi un compagno del Partito e ci riunivamo tutti i giorni a commentare queste cose. Sono arrivato e ho detto al capo del mio gruppo: “Hai letto quello che c’è in bacheca ?”. Ci siamo riuniti e ci hanno proibito di uscire al giovedì perché alle 5 della sera c’era una manifestazione. Prima hanno cominciato dei tipi con pettinature strane, sembravano tifosi del calcio, non politici. La manifestazione è cresciuta sempre di più e la polizia li ha repressi. Poi un gruppo di artisti famosi, un tenore credo, perché Lipsia era una città molto forte nella musica sinfonica e lirica; anche quattro o cinque campioni olimpici, si sono messi tutti alla testa della manifestazione come scudi umani e lo Stato non ha potuto più reprimerli.

Io vivevo con la mia sposa tedesca e non con gli altri cubani. Andavo alla mia scuola, cercavo lavoro quando avevo bisogno di soldi. Sono stato a Rostock dove avevamo alcuni amici; ma è capitato che siamo saliti su un treno che era collegato a un ferry che andava in Svezia e che passava per un’isola che si diceva privata di Honecker. Alla fine siamo scesi a Straisund e ho visto un cartello con un simbolo nazista che diceva “stranieri andatevene”. Siamo arrivati a Rostock e alla stazione ho visto un’altra scritta che diceva “per un tedesco morto 10 cubani devono avere lo stesso destino”. Lì abbiamo cominciato ad avere paura. Quando arrivo all’edificio dove vivevano i nostri amici, mi apre la porta una donna ma con paura. “Di dove sei? cosa cerchi? sei cubano?” mi domanda. C’era una risoluzione che proibiva ai cubani di andare in quella provincia.

Cominciano a cambiare le cose…

Tutti gli anni partecipavamo a due marce: per il 1° maggio e per la Rivoluzione d’Ottobre. In quel 1989 siamo usciti normalmente il 7 novembre per la marcia della Rivoluzione d’Ottobre con i cartelli di sempre. Arrivavamo tutti e ci fu all’improvviso una grande confusione, un carnevale, e hanno detto “tutti a casa, buttate i cartelli e tutti a casa”.

Arrivo e accendo la televisione, ricorda che si marciava in tutte le città nello stesso momento; a Berlino durante la manifestazione hanno cambiato i i cartelli e chiedevano l’unificazione. E arriva la notizia della destituzione di Honecker.

Il  muro è  caduto e tutto è finito…

In quei giorni di manifestazioni noi stavamo in casa, non solo non potevamo uscire al giovedì ma hanno cominciato ad aggredirci con molotov, pietre, sedie… E il primo a farci quelle cose dopo la caduta del muro è stato un tipo che sembrava il più amico di tutti. La prima cosa che ha fatto è stato tagliarci il riscaldamento, in mezzo a quel freddo. Non avevamo acqua neanche per lavarci i denti. Non potevamo avvicinarci ai corridoi e alle finestre e abbiamo cominciato a stringerci in piccole stanze con gli estintori vicino per spegnere le bottiglie incendiarie che ci tiravano.

Hanno chiuso tutti i negozi gestiti dallo Stato. I negozi dove compravi prima non c’erano più. C’era una specie di giubilo, di rabbia. Non era la rabbia di averla fatta finita con il sistema, era che volevano farla finita con tutti noi. Uno degli slogan che più dicevano era sempre “se ne vadano gli stranieri”.

Quelli che erano tuoi amici hanno smesso di esserlo. Nell’estate seguente sono andato a Amburgo, a Monaco, in Danimarca. Ma continuavamo ad essere assediati e hanno cominciato a espellerci e le notizie che arrivavano ci preoccupavano.

Vedevamo in televisione l’invasione di Panama. Anche la partenza dei cubani dall’Africa ha coinciso con la partenza dei sovietici dalla Germania. In una stazione potevi incontrare tutti, dai biondi agli asiatici sparsi dappertutto. Un giorno sono arrivato a scuola e ho trovato che il cartello con il nome “Federico Engels” non c’era. Questo adesso appartiene alla Volkswagen, mi hanno detto. Dei più di tremila tra professori e alunni che c’erano ne sono rimasti circa 500.

Il ritorno…

Ci hanno cambiato l’Istituto. Dell’edificio dove stavo io se ne sono dovuti andare tutti. Io mi sono detto: questo è morto. Ci hanno riunito, i 27 o 28 studenti cubani che rimanevano. Hanno fatto dei tentativi per mandarci in URSS, ma era cambiato tutto.

“Ritornate a Cuba con una vacanza di 45 giorni e vediamo cosa si deciderà per voi” ci hanno detto. E’ venuto il direttore della scuola e mia ha detto: “Ti do casa, nazionalità e lavoro, puoi rimanere”. Gli ho detto: “No. Ho la mia famiglia a Cuba”.

Mi dava molto fastidio questo trattamento da “negro”, mi gridavano addosso, mi sputavano addosso. I cubani stupidi che sono andati a lavorare si lasciavano umiliare dai tedeschi. “Abbaia come un cane, buttati in terra..” e loro lo facevano.

Un’altra volta arrivo a un a fabbrica dove avevo trovato un buon lavoro e avevano messo la bandiera della Germania Federale assieme a quella degli Stati Uniti. Sono arrivato dove erano gli altri cubani e ho detto “quello che va a lavorare sotto questa bandiera se la vede con me”. Abbiamo fatto una specie di sciopero.

E’ stato come un atto di ribellione. Uno dei tipi mi ha insultato, quando siamo usciti dal locale dagli armadietti mi ha detto “porco” e mi ha buttato in terra. All’uscita l’ho aspettato e l’ho preso a sassate. Sono state cose così che sono successe. Sono diventati più aggressivi verso di noi. E le risse tra cubani e tedeschi sono diventate più frequenti.

25 anni dopo…

Adesso non sono più il giovane di allora. Sempre immaginavo in Germania che l’unificazione doveva arrivare. Che piacesse o no. Non gli avremmo nemmeno perdonato i crimini che hanno commesso nella Seconda Guerra Mondiale, ma ho sempre pensato che se noi non meritavamo una Base Navale di Guantanamo, la Germania non meritava un muro…

Solo una biondina, dalla labbra deliziosamente pronunciate, chiedendogli che le facesse una caricatura, ha potuto porre fine alla nostra conversazione. Non senza prima avvertirmi che fu là, sulle lavagne del tecnologico di Lipsia, dove ha cominciato a scarabocchiare i primi tratti che avrebbero segnato l’inizio della sua attuale carriera di umorista grafico, e di quelli buoni !

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