Discorso Miguel Mario Díaz-Canel Bermúdez

Discorso pronunciato da Miguel Mario Díaz-Canel Bermúdez, Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba e Presidente della Repubblica, in occasione del 14° Incontro sui problemi della globalizzazione e dello sviluppo, presso il Palazzo dei Congressi, il 17 novembre 2023, “Anno 65 della Rivoluzione”.

Compagno Primo Ministro, Manuel Marrero Cruz;

Compagno Ministro degli Esteri della Repubblica di Cuba, Bruno Rodríguez;

Oscar Luis Hung, Presidente della nostra Associazione Nazionale degli Economisti;

Vice Primo Ministro Alejandro Gil;

Ministri, membri del Comitato organizzativo e del Comitato accademico dell’evento;

Cari economisti, sociologi e studenti:

Cito gli studenti per ultimi perché mi sento parte di loro. Su un palcoscenico come questo, pieno di accademici e professori che espongono le loro idee sui problemi globali, chi non si sente uno studente quando impara? Soprattutto oggi, 17 novembre, Giornata internazionale degli studenti.

Mi congratulo e mi congratulo con voi, cari studenti di economia. Avete davanti a voi la gigantesca sfida di contribuire a risolvere il più grande problema del nostro Paese: che la nostra economia abbatta i muri del blocco. E di dimostrare, con impegno e talento, quanto il socialismo sia in grado di realizzare, anche nell’economia.

E visto che stiamo parlando del problema, vorrei innanzitutto ringraziare, a nome del popolo e del Governo cubano, i visitatori stranieri per le loro forti espressioni di rifiuto del blocco genocida, insieme alla loro solidarietà e al loro sostegno all’eroico popolo cubano, che oggi resiste e crea nuovi modi per affrontare le enormi difficoltà derivanti dall’assedio economico e finanziario, comprese quelle che colpiscono direttamente la famiglia cubana.

Vi ringrazio anche per la vostra presenza a Cuba, in aperta sfida alla politica imperiale, e per i dibattiti sostanziali che si sono generati qui nel vivace e intenso scambio di criteri ed esperienze diverse che, a mio modesto parere, contribuiscono allo stesso obiettivo: far sì che i vantaggi della globalizzazione funzionino per le grandi maggioranze di tutti i Paesi e non solo per le élite di un gruppo selezionato di nazioni che hanno costruito la loro prosperità a spese dell’impoverimento delle nostre. Nazioni che, tra l’altro, sono poi diventate eterne creditrici, come dimostra in modo così chiaro e doloroso l’esempio di Haiti, sorella e mille volte impoverita, che ancora paga con la profonda povertà, la violenza crescente e altri mali la sua ribellione ispiratrice: la prima rivoluzione schiavista della storia moderna.

Il debito d’indipendenza, termine assurdo e paradossale, è quello che chiamano i pagamenti di “riparazione” che la repubblica haitiana è stata costretta a fare per 122 anni per non essere nuovamente invasa dalla potente ex-metropoli che aveva sfruttato tutte le sue risorse umane e materiali con i metodi più crudeli.

Ma ancora oggi, l’unica soluzione che coloro che pretendono di essere i salvatori dei nostri vicini puniti riescono a trovare è l’invio di truppe, come spesso accade dal 1915, data della prima invasione statunitense, che si dichiarò pronta ad affrontare la povertà e l’instabilità del Paese, dopo che le Marine del nascente impero statunitense svuotarono la Banca Nazionale di Haiti.

Haiti soffre come la Palestina, la cui piccola Striscia di Gaza è diventata un test dell’inoperosità dei meccanismi e degli strumenti del diritto internazionale per prevenire il genocidio nel XXI secolo. Numerose risoluzioni delle Nazioni Unite sono state ignorate da coloro che hanno la responsabilità e l’impegno di fermare il genocidio, ma preferiscono spendere miliardi dei loro bilanci per non fermare la guerra che alimenta la loro economia.

Mentre ci riuniamo qui all’Avana, capitale di una Cuba che è stata bloccata per più di 60 anni con lo scopo dichiarato di farsi esplodere, Gaza continua a essere bombardata come culmine genocida di un altro blocco decennale.

Sette anni fa, in occasione del Vertice dei Non Allineati sull’isola di Margarita, in Venezuela, l’allora Presidente di Cuba, il Generale dell’Esercito Raúl Castro Ruz, pronunciò parole che sembrano destinate a oggi, e cito: “È inaccettabile che il popolo palestinese continui a essere vittima dell’occupazione e della violenza, e che la potenza occupante continui a impedire la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale”.

Questo appello, ribadito tante volte da molti leader mondiali, attende ancora una risposta, come il debito estero impagabile e tante altre conseguenze di un mondo troppo ingiusto per la maggior parte dei suoi abitanti. Questa realtà non ci farà abbassare le braccia o rinunciare alla difesa di idee più giuste per realizzare il miglior mondo possibile, anche se non riusciamo a vederlo.

Questo incontro è un omaggio all’idea fondante del Comandante in Capo Fidel Castro, alla sua instancabile ricerca del miglior percorso verso l’emancipazione umana e la sopravvivenza della nostra specie, che il capitalismo neoliberista sta irrazionalmente spingendo verso l’estinzione.

Dai grandi incontri sul Debito Estero degli anni ’80 agli eventi di Globalizzazione e Sviluppo, Fidel è stato un grande costruttore di consenso e un leader dalla fede infinita nel fatto che un mondo migliore è possibile, ma solo se si trasforma l’antidemocratico e arcaico ordine economico internazionale, considerando tutte le idee volte alla salvezza dell’umanità. Le sue idee di allora, alla luce dei gravissimi problemi di oggi, sono di un’attualità sconvolgente e ci obbligano a trasformare il nostro omaggio in studio, dibattito e azione.

Pensavo a Fidel quando martedì abbiamo aperto questo incontro. La sua presenza si sente ancora qui e le sue parole vengono ricordate nelle tanto attese chiusure della Globalizzazione, sia che si tratti degli inaspettati e brevi minuti con cui ha sorpreso i partecipanti alla prima riunione, sia che si tratti delle sei ore e mezza che hanno prolungato un’altra riunione fino alle prime ore del mattino.

Ho partecipato come ospite alla prima riunione e da allora ho riletto praticamente tutto ciò che ha detto nel corso degli anni; così, quando mi ha chiesto di parlare alla chiusura, mi sono ricordato delle sue parole quando gli è stato chiesto di fare lo stesso e ha detto che avrebbe voluto avere l’eloquenza e l’erudizione di coloro che avevano parlato prima.

È esattamente quello che ho provato ascoltando le relazioni di José Luis e Gambina nella sessione di apertura e condividendo poi alcune discussioni nelle sessioni. Ma sono state proprio queste analisi a ispirarmi a sviluppare le idee che vorrei condividere con voi oggi.

Questo incontro è stato una magnifica fonte di apprendimento e un’opportunità per affermare, ratificare le convinzioni sui temi trattati, grazie alla coincidenza con i punti di vista che abbiamo condiviso.

È magnifico confermare che continua a prevalere un dibattito plurale, anche polemico, aperto ai punti di vista più diversi su questioni che devono ancora essere chiarite e che sono il risultato dei processi associati alla globalizzazione, con un impatto sullo sviluppo.

Il confronto di idee è un principio di questi incontri che dobbiamo al loro principale promotore, Fidel, che si rese conto molto presto dell’importanza del processo già descritto dagli accademici e presentò sistematicamente e in modo convincente le proprie argomentazioni teoriche, sempre dalla prospettiva degli sfruttati e degli esclusi.

Descrisse la globalizzazione come un processo oggettivo e inarrestabile di crescente interconnessione e interdipendenza delle economie nazionali a livello mondiale, che influenza tutte le sfere della vita sociale e che ha le sue basi e i suoi pilastri fondamentali nello sviluppo raggiunto nella tecnologia dei trasporti, delle comunicazioni e dell’elaborazione e trasmissione automatizzata delle informazioni. Ma denunciò anche con forza l’irrazionalità e l’insostenibilità dell’ondata neoliberista e l’urgenza che l’umanità prendesse coscienza della necessità di una globalizzazione della solidarietà umana come passo importante verso il trionfo definitivo della globalizzazione socialista come alternativa per la sopravvivenza della specie.

Da allora il mondo è cambiato radicalmente. Ne abbiamo avuto la conferma in un colpo solo, con la recente pandemia che ha paralizzato il pianeta per lunghi e incerti anni e ci ha lasciato tutti peggio per non aver dato alla cooperazione e alla solidarietà la loro possibilità.

I conflitti vecchi e nuovi si trasformano in guerre da cui traggono profitto solo i produttori e i trafficanti di armi. Il multilateralismo emergente sta cercando di avanzare su un percorso minato da obsolete ambizioni imperiali. Le Nazioni Unite, i suoi organi e i suoi principi sono costantemente disattesi e violati perché hanno ritardato troppo a lungo la loro necessaria democratizzazione.

Se non cambiamo l’attuale disordine mondiale, l’avidità e l’egoismo di pochi ci faranno precipitare nell’abisso, dal quale non potranno sfuggire nemmeno coloro che sono determinati a impedire un diverso paradigma di convivenza; un mondo più giusto, inclusivo ed equo, che offra alle nazioni impoverite reali opportunità di una vita dignitosa e sostenibile, in cui la fame e la povertà scompaiano definitivamente e in cui il diritto alla vita e allo sviluppo siano rispettati.

Vorrei tornare a Fidel e alle sue idee sulle sfide dell’alternativa alla globalizzazione neoliberista.

Alla chiusura del V Encuentro, lo storico leader della Rivoluzione cubana disse: “C’è un campo in cui la produzione di ricchezza può essere infinita: il campo della conoscenza, della cultura e dell’arte in tutte le sue espressioni, compresa un’attenta educazione etica, estetica e solidale, una vita spirituale piena, socialmente sana, mentalmente e fisicamente sana, senza la quale non potremo mai parlare di qualità della vita”.

“C’è qualcosa che ci impedisce di raggiungere questi obiettivi? -ha chiesto.

E poi ha detto: “Vogliamo dimostrare ciò che tutti proclamiamo: che un mondo migliore è possibile!

“È giunto il momento che l’umanità inizi a scrivere la propria storia!”.

Dopo sei decenni di blocco criminale, di 243 misure per rafforzare questa persecuzione ossessiva di tutto ciò che potrebbe significare una via d’uscita dalla crescita sulla strada dello sviluppo, Cuba sta scommettendo tutto su questo campo dove la produzione di ricchezza può essere infinita, come Fidel ha detto e dimostrato, promuovendo lo sviluppo della scienza e della conoscenza.

Permettetemi di dire a chi ancora non lo sapesse che il blocco statunitense contro Cuba non ha lasciato nulla di intentato, fino all’assurdo inserimento in una lista di presunti sponsor del terrorismo, una sorta di campo imperiale che vieta l’accesso a crediti e finanziamenti.

Gli economisti sono nella posizione migliore per capire cosa significhi questo atto di suprema malvagità contro un’intera nazione. Non esiste economia al mondo che funzioni senza finanza e credito. Ma i portavoce di questa malvagità e perversione, mentre ci bloccano e ci molestano, lanciano fiumi di diffamazione e manipolazione, con un unico scopo: incolpare il governo cubano per il dolore che causano, far credere che la pianificazione neghi lo sviluppo, che gli Stati responsabili siano inoperosi e che il socialismo sia impraticabile.

Ed ecco che Cuba, bloccata, vessata, diffamata, dimostra che solo il socialismo può garantire la giustizia sociale, anche in un mondo ingiusto, diseguale e governato da regole cieche e poteri abusivi come quello attuale.

Cuba soffre e denuncia il blocco come illegale, criminale e una violazione dei diritti umani di un’intera nazione da più di 60 anni. Ma non si ferma nei suoi programmi, non rinuncia a uno solo dei suoi Obiettivi di Sviluppo fino al 2030, cosa che poche nazioni in via di sviluppo possono anche solo tentare.

Praticamente privi di finanziamenti, crediti e accesso alle tecnologie con componenti nordamericane, così comuni da molto prima che si parlasse di globalizzazione, abbiamo progettato un sistema di governo basato sulla scienza e sull’innovazione, scommettendo sulla risorsa primaria di Cuba: il talento e la creatività del popolo, alimentati in 64 anni di Rivoluzione con solidi programmi educativi, scientifici e culturali.

Abbiamo chiesto di trasferire la ricerca dalle aule universitarie alla produzione e ai servizi, di promuovere e scambiare le conoscenze, di sfruttare al massimo gli indiscutibili vantaggi di vivere in una società in cui i mezzi di produzione fondamentali appartengono al popolo, non come un’entelechia ma come l’unica spiegazione della nostra sopravvivenza dopo sei decenni di blocco da parte di coloro che si comportano da padroni del mondo.

Crediamo e confidiamo nei giovani affinché questi progetti si concretizzino. Crediamo persino nelle migliaia di giovani che sono emigrati perché credevano che qui sarebbe stato impossibile realizzare i loro sogni, e perché abbiamo visto, soprattutto, migliaia di altri che si sono messi in gioco senza altro compenso che la felicità di fare cose eccezionali o semplici per il loro Paese.

Nonostante le aperte azioni di fuga di cervelli, di assedio e di conquista di centinaia di migliaia di giovani altamente preparati che si laureano nelle università cubane; nonostante la criminale Legge di Aggiustamento Cubano con la quale gli Stati Uniti ricevono quasi automaticamente come emigranti politici i nostri cittadini che arrivano irregolarmente alle loro frontiere, Cuba ha una massa di giovani studenti e lavoratori che stanno realizzando progetti impressionanti in patria.

Siamo l’unico Paese in via di sviluppo ad avere un proprio vaccino contro la COVID-19 e altre malattie, creato principalmente da giovani scienziati, così come quelli che hanno prodotto ventilatori polmonari paragonabili ai migliori al mondo; o quelli che attualmente stanno compiendo un’impresa nella manutenzione delle centrali elettroenergetiche, consumate da anni di sfruttamento; Oppure gli insegnanti e gli operatori sanitari, che lavorano in città e in montagna, negli ospedali e nei policlinici, a volte senza le condizioni materiali per fornire un servizio ottimale, eppure hanno mantenuto i nostri indicatori di qualità della vita a livelli paragonabili ai migliori del mondo; o ancora coloro che intraprendono progetti in forme non statali, le note PMI, spesso legate a entità statali cubane. Le abbiamo incontrate nei nostri viaggi in tutto il Paese, alle prese con la scarsità ma anche con l’inefficienza e l’ozio.

Non esistono società perfette. Noi siamo ben lontani dall’esserlo. E ci manca così tanto che coloro che misurano lo sviluppo in base ai livelli di consumo della società ci descrivono come un Paese impantanato nella povertà. Tuttavia, chi conosce il volto e l’essenza della povertà descrive un’altra realtà: una nazione che resiste senza rinunciare allo sviluppo in base ai suoi livelli di conoscenza e di partecipazione al progetto sociale.

Il socialismo, un sistema così nuovo, così diverso, così bisognoso di volontà politica e partecipazione sociale per affermarsi e progredire, ci sfida a tentare ogni giorno con un nuovo ostacolo davanti a noi. Per questo non è possibile giudicare Cuba senza considerare le sfide che rendono unica la nostra esperienza e i percorsi che stiamo aprendo con la spinta della storia e del futuro che potrebbe ancora essere.

Abbiamo detto più di una volta che in un’autentica Rivoluzione, la vittoria è apprendimento, perché non stiamo marciando su un percorso collaudato. Marceremo lungo un sentiero recintato, cercando di evitare gli ostacoli dell’avversario e i nostri stessi errori. Chiamiamo questo esercizio continuo di apprendimento e generazione di alternative resistenza creativa.

Siamo orgogliosi di essere sfuggiti alla globalizzazione neoliberista, che non è solo un modello economico, ma anche una concezione ideologica e un progetto politico di dominio imperiale, promosso dalle principali potenze mondiali con gli Stati Uniti in testa, determinate a controllare, ridisegnare e sfruttare l’ingiusto sistema di relazioni internazionali per strutturare un Nuovo Ordine Mondiale che permetta loro di mantenere i propri interessi egemonici, quando altri importanti attori optano per il multilateralismo e la cooperazione.

Al recente Vertice del Gruppo dei 77 e della Cina, tenutosi proprio in questo Palazzo dei Congressi, abbiamo condiviso gli indicatori di sviluppo che mostrano solo il clamoroso fallimento del neoliberismo per la grande maggioranza della popolazione mondiale.

Riprendo alcuni dei dati e delle osservazioni che abbiamo espresso allora e che vorremmo ribadire ora, per la loro dolorosa forza nel descrivere l’attuale ordine globale ingiusto e insostenibile:

A soli sette anni dalla scadenza fissata per la realizzazione dell’Agenda 2030, le prospettive sono scoraggianti. Al ritmo attuale, nessuno dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile sarà raggiunto e più della metà dei 169 obiettivi concordati saranno mancati.

È inaccettabile che nel XXI secolo quasi 800 milioni di persone soffrano la fame su un pianeta che produce abbastanza per sfamare tutti.

Non c’è alcuna giustificazione al fatto che, nell’era della conoscenza e dello sviluppo accelerato delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, più di 760 milioni di persone, due terzi delle quali donne, non sappiano leggere o scrivere.

I Paesi del nostro Gruppo hanno dovuto destinare 379 miliardi di dollari delle loro riserve per difendere le loro valute nel 2022, quasi il doppio dell’importo dei nuovi Diritti speciali di prelievo assegnati loro dal Fondo monetario internazionale.

Mentre i Paesi più ricchi si sottraggono all’impegno di destinare almeno lo 0,7% del loro prodotto nazionale lordo all’aiuto pubblico allo sviluppo, le nazioni del Sud devono spendere fino al 14% del loro reddito per pagare gli interessi sul debito estero.

La maggior parte dei Paesi del G77 è costretta a spendere più per il servizio del debito che per gli investimenti nella sanità o nell’istruzione.

Il cambiamento climatico minaccia la sopravvivenza di tutti, con effetti già irreversibili.

Più di 3 miliardi di persone sono colpite dal degrado degli ecosistemi. Più di un milione di specie di piante e animali sono a rischio di estinzione. Se non agiamo immediatamente, lasceremo in eredità ai nostri figli e nipoti un pianeta irriconoscibile e inabitabile.

Coloro che hanno meno influenza sulla crisi climatica sono quelli che ne subiscono maggiormente gli effetti, in particolare i piccoli Stati insulari in via di sviluppo. Mentre i Paesi industrializzati, voraci predatori di risorse e di ambiente, si sottraggono alla loro grande responsabilità e non rispettano gli impegni assunti nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e dell’Accordo di Parigi.

Per citare solo un esempio, è profondamente deludente che l’obiettivo di mobilitare non meno di 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020 come finanziamenti per il clima non sia mai stato raggiunto.

Sono le popolazioni del Sud del mondo a soffrire di più per la povertà, la fame, la miseria, la morte per malattie curabili, l’analfabetismo, gli spostamenti umani e altre conseguenze del sottosviluppo. Molte delle nostre nazioni sono definite povere, mentre in realtà dovrebbero essere considerate nazioni impoverite. E questa condizione, in cui siamo stati precipitati da secoli di dipendenza coloniale e neocoloniale, deve essere invertita, perché non è giusta e perché il Sud non porti più il peso morto di tutte le disgrazie.

Nel mezzo del più colossale sviluppo scientifico e tecnico di tutti i tempi, il mondo è tornato indietro di tre decenni in termini di riduzione della povertà estrema e ci sono livelli di carestia che non si vedevano dal 2005.

Nel Sud del mondo, più di 84 milioni di bambini sono ancora fuori dalla scuola e più di 660 milioni di persone sono prive di elettricità; solo il 36% della popolazione utilizza internet nei Paesi in via di sviluppo meno sviluppati e senza sbocco sul mare, rispetto al 92% che ha accesso nei Paesi sviluppati.

Si consideri che il costo medio di uno smartphone è pari ad appena il 2% del reddito mensile pro capite in Nord America, mentre questa cifra sale al 53% in Asia meridionale e al 39% nell’Africa subsahariana. Non si può parlare seriamente di progresso tecnologico o di accesso equo alle comunicazioni di fronte a queste realtà.

La transizione energetica avviene anche in condizioni di profonda disuguaglianza che tende a perpetuarsi. La sproporzione nel consumo di energia tra i Paesi sviluppati (167,9 gigajoule per persona all’anno) e quelli in via di sviluppo (56,2 gigajoule per persona all’anno) è una conseguenza del divario economico e sociale esistente ed è anche la causa di questo divario che continua a crescere.

Una parte sostanziale delle malattie più diffuse nei Paesi in via di sviluppo sono quelle prevenibili e/o curabili. L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato nel suo Rapporto sulla salute mondiale che, secondo le stime, ogni anno 8 milioni di persone muoiono prematuramente a causa di malattie e condizioni prevenibili. Questi decessi rappresentano un terzo di tutte le morti umane che avvengono ogni anno nel mondo.

Tutti, o quasi, cerchiamo di attrarre investimenti diretti esteri come componente necessaria per lo sviluppo e la gestione delle economie.

Ma sappiamo che il più delle volte non sono accompagnati dal trasferimento di conoscenze e dall’assistenza allo sviluppo delle capacità. Questa assenza fa sì che i Paesi in via di sviluppo vengano collocati in fondo alle catene globali del valore e che la loro ricerca in campo sanitario, alimentare, ambientale e in altri settori venga fortemente limitata o sistematicamente svalutata.

Questo fenomeno si accompagna alla fuga dei talenti o a quella che viene comunemente definita “fuga dei cervelli”, ovvero la pratica dei Paesi più sviluppati di beneficiare delle competenze e delle conoscenze dei professionisti che i Paesi in via di sviluppo formano faticosamente, spesso senza alcun sostegno da parte delle nazioni più ricche.

Si tratta di una fuga massiccia e di un contributo finanziario notevole dai Paesi in via di sviluppo a quelli ricchi, molto più grande, tra l’altro, dell’aiuto pubblico allo sviluppo, sulla base di un flusso migratorio devastante per i Paesi sottosviluppati.

La privatizzazione del sapere pone limiti alla circolazione e alla ricombinazione delle conoscenze. Limita il progresso e le soluzioni scientifiche ai problemi. Costituisce un ostacolo significativo allo sviluppo e al ruolo che la scienza, la tecnologia e l’innovazione dovrebbero svolgere in esso. Aggrava le condizioni socio-economiche dei Paesi in via di sviluppo.

Basti pensare che, nel bel mezzo della più grande pandemia che l’umanità abbia mai conosciuto, solo dieci produttori rappresentavano il 70% della produzione di vaccini contro il COVID-19. La pandemia ha illustrato in modo eclatante il costo dell’esclusione scientifica e digitale, mietendo vittime e aumentando il divario tra Nord e Sud.

Di conseguenza, i Paesi in via di sviluppo avevano solo 24 dosi di vaccino ogni 100 persone, mentre i Paesi più ricchi avevano quasi 150 dosi ogni 100 persone. Di fronte all’invito a moltiplicare la solidarietà e ad accantonare le fratture, il mondo ha finito per essere assurdamente più egoista.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha formulato la ben nota sindrome 90/10, secondo la quale il 90% delle risorse per la ricerca sanitaria sono destinate alle malattie che causano il 10% della mortalità e della morbilità, mentre quelle che causano il 90% della mortalità e della morbilità ricevono solo il 10% delle risorse. Le multinazionali del farmaco non sono chiaramente interessate a curare le persone, ma hanno bisogno che siano malate per ottenere maggiori profitti.

Se ci si rivolge ai mercati finanziari, le nazioni del Sud del mondo hanno dovuto affrontare tassi di interesse fino a otto volte superiori a quelli dei Paesi sviluppati. Circa un quinto delle economie in via di sviluppo ha liquidato più del 15% delle proprie riserve valutarie internazionali per attutire la pressione sulle valute nazionali.

Nel 2022, 25 Paesi in via di sviluppo hanno dovuto destinare più di un quinto del loro reddito totale al servizio del debito pubblico estero, il che equivale a una nuova forma di sfruttamento.

La spesa globale per la ricerca e lo sviluppo tra il 2014 e il 2018 è aumentata del 19,2%, superando il tasso di crescita economica globale del 14,6%. Tuttavia, rimane altamente concentrata, con un contributo del 93% da parte dei Paesi del G20.

Le risorse necessarie per una soluzione fondamentale a questi problemi esistono. Solo nel 2022, la spesa militare globale ha raggiunto la cifra record di 2,24 trilioni di dollari. Quanto si potrebbe fare con queste risorse a vantaggio del Sud del mondo?

Per raggiungere la partecipazione inclusiva universale all’economia digitale sarà necessario investire nei nostri Paesi almeno 428 miliardi di dollari entro il 2030, una richiesta che può essere soddisfatta con appena il 19% della spesa militare globale.

Eppure il Sud sembra destinato a vivere con le briciole che il sistema attuale gli riserva. Il sostegno finanziario del Fondo Monetario Internazionale ai Paesi meno sviluppati e ad altri a basso reddito dal 2020 alla fine di novembre 2022 non supera l’equivalente di quanto la Coca Cola ha speso solo per la pubblicità del marchio negli ultimi otto anni.

Nel frattempo, appena meno del 2% del già carente Aiuto pubblico allo sviluppo è stato destinato alla scienza, alla tecnologia e alle capacità di innovazione.

Secondo le stime, il 9% della spesa militare globale potrebbe finanziare l’adattamento al cambiamento climatico in dieci anni e il 7% sarebbe sufficiente a coprire il costo della vaccinazione universale contro le pandemie.

Un’architettura finanziaria internazionale che perpetua tali disparità e costringe i Paesi in via di sviluppo a vincolare le risorse finanziarie e a indebitarsi per proteggersi dall’instabilità che il sistema stesso genera, che allarga le tasche dei ricchi a spese delle riserve dei più poveri per l’80% è, senza dubbio, un’architettura ostile al progresso delle nazioni. Deve essere demolita se davvero aspira a portare allo sviluppo la grande massa delle nazioni in via di sviluppo.

La pandemia COVID-19, da cui il pianeta non è ancora completamente libero, ci ha insegnato dure lezioni. Se da un lato si sono manifestati valori e virtù edificanti e ci sono stati notevoli esempi di spirito di solidarietà, dall’altro è stata purtroppo rivelata la natura profondamente disumana dell’attuale sistema internazionale. Hanno prevalso l’insensibilità e l’egoismo di fronte alle sofferenze umane e la logica del profitto per i vaccini e le attrezzature mediche essenziali.

È essenziale intraprendere una riforma approfondita delle istituzioni finanziarie internazionali, sia in termini di governance che di rappresentanza e accesso ai finanziamenti, che tenga in debito conto gli interessi legittimi dei Paesi in via di sviluppo ed espanda la loro capacità decisionale nelle istituzioni finanziarie globali.

È essenziale chiedere la fine delle misure coercitive unilaterali e dei blocchi illegali, come quello contro Cuba, ulteriormente intensificato dall’inclusione fraudolenta del nostro Paese nell’elenco arbitrario e unilaterale dei Paesi che presumibilmente sponsorizzano il terrorismo.

Questo per quanto riguarda i frammenti della presentazione che abbiamo fatto a nome delle maggioranze, escluse dai benefici della globalizzazione e dello sviluppo.

In questi giorni mi sono chiesto in silenzio, ascoltando con attenzione ogni intervento, se esiste oggi nel mondo un’economia in via di sviluppo che sia sfuggita alle conseguenze del disordine globale e che offra prosperità al suo popolo. Non ho sentito citare alcun esempio.

Dovremo concludere che la tirannia del mercato al servizio delle economie più potenti del pianeta non solo non ha risolto nessuno dei nostri problemi, ma ci ha fatto cadere in quella che il mio caro amico Frei Betto chiama globocolonizzazione.

Cari amici:

Grazie per l’opportunità di ascoltarli e di ascoltarmi!

C’è ancora molto da dire e da proporre. Per questo ci auguriamo di vedervi all’Avana nel 2025.

Muchas gracias.


Discurso pronunciado por Miguel Mario Díaz-Canel Bermúdez, Primer Secretario del Comité Central del Partido Comunista de Cuba y Presidente de la República, en el XIV Encuentro sobre Globalización y Problemas del Desarrollo, en el Palacio de Convenciones, el 17 de noviembre de 2023, “Año 65 de la Revolución”

Compañero Primer Ministro, Manuel Marrero Cruz;

Compañero Canciller de la República de Cuba, Bruno Rodríguez;

Óscar Luis Hung, Presidente de nuestra Asociación Nacional de Economistas;

Viceprimer Ministro Alejandro Gil;

Ministros, miembros del Comité Organizador y del Comité Académico del evento;

Estimados economistas, cientistas sociales y estudiantes:

Menciono en último lugar a los estudiantes porque me siento parte de ellos. En un escenario como este, lleno de académicos y de profesores exponiendo sus ideas sobre los problemas globales, ¿quién no se siente un estudiante cuando está aprendiendo? Especialmente hoy, 17 de noviembre, Día Internacional de los Estudiantes.

Los felicito y los convoco, queridos estudiantes de Ciencias Económicas. Ustedes tienen por delante el desafío gigantesco de ayudar a resolver el mayor problema de nuestro país: que nuestra economía derribe los muros del bloqueo. Y de probar, con esfuerzo y talento, cuánto es capaz de lograr el socialismo, también en la economía.

Y ya que hablamos del problema, quiero que mis primeras palabras, en nombre del pueblo y Gobierno cubanos, sean para agradecerles profundamente a los visitantes extranjeros sus fuertes expresiones de rechazo al genocida bloqueo, junto a la solidaridad y apoyo al heroico pueblo cubano, que hoy resiste y crea enfrentando las enormes dificultades derivadas del cerco económico y financiero, incluyendo las que golpean directamente a la familia cubana.

Les agradezco también su presencia en Cuba, en abierto desafío a la política imperial, y los sustantivos debates que se han generado aquí en el intercambio vivo e intenso de criterios y experiencias diversas que, en mi modesta opinión, tributan a un mismo objetivo: hacer que las ventajas de la globalización funcionen para las grandes mayorías de todos los países y no solo para las élites de un grupo selecto de naciones que construyeron su prosperidad a costa del empobrecimiento de las nuestras. Naciones que, por cierto, después se convirtieron en eternos acreedores, como ilustra tan clara y dolorosamente el ejemplo de la hermana y mil veces empobrecida Haití, que todavía paga en pobreza profunda, espiral de violencia y otros males su inspiradora rebeldía: la primera revolución de esclavos de la historia moderna.

Deuda de la independencia, término absurdo y paradójico, llaman a los pagos “por reparaciones” que fue obligada a hacer durante 122 años la república haitiana para no ser invadida otra vez por la poderosa exmetrópoli que había explotado todos sus recursos humanos y materiales con los métodos más crueles.

Pero todavía hoy la única solución que se les ocurre a quienes se pretenden salvadores de nuestros castigados vecinos es el envío de tropas, como tantas veces desde 1915, fecha de la primera invasión yanqui, que se declaró dispuesta a enfrentar la pobreza e inestabilidad del país, después de que marines del naciente imperio norteamericano vaciaran el Banco Nacional de Haití.

Duele Haití como duele Palestina, cuya pequeña Franja de Gaza se ha convertido en una prueba de la inoperancia de los mecanismos e instrumentos del Derecho Internacional para evitar un genocidio en pleno siglo XXI. Numerosas resoluciones de Naciones Unidas han sido desconocidas por quienes tienen la responsabilidad y compromiso de detener el genocidio, pero prefieren destinar miles de millones de sus presupuestos para que no pare la guerra que alimenta su economía.

Mientras nos reunimos aquí en La Habana, capital de una Cuba que lleva más de 60 años bloqueada con el declarado propósito de que estalle contra sí misma, Gaza sigue siendo bombardeada como colofón genocida de otro bloqueo de décadas.

Hace siete años, en una Cumbre de los No Alineados, en Isla de Margarita, en Venezuela, el entonces Presidente de Cuba, el General de Ejército Raúl Castro Ruz pronunció palabras que parecen pensadas para hoy mismo, y cito: “Resulta inaceptable que todavía el pueblo palestino continúe siendo víctima de la ocupación y la violencia, y que la potencia ocupante siga impidiendo la creación de un Estado palestino independiente y con Jerusalén Oriental como su capital”.

Aquel llamado que tantas veces se ha reiterado por numerosos líderes mundiales sigue esperando respuesta, como la impagable deuda externa y tantas otras consecuencias de un mundo demasiado injusto para la mayoría de sus habitantes. Esa realidad no nos hará bajar los brazos ni renunciar a la defensa de ideas más justas para hacer el mejor mundo posible, aunque no alcancemos a verlo.

Este encuentro es un homenaje a la idea fundadora del Comandante en Jefe Fidel Castro, a su incansable búsqueda del mejor de los caminos hacia la emancipación humana y la supervivencia de nuestra especie, a la que el capitalismo neoliberal empuja irracionalmente hacia su extinción.

Desde las grandes reuniones sobre la Deuda Externa en la década de los 80 hasta los eventos de Globalización y Desarrollo, Fidel fue un gran constructor de consensos y un líder de fe infinita en que un mundo mejor es posible, pero solo si se transforma el antidemocrático y arcaico orden económico internacional, considerando todas las ideas que apunten a la salvación de la humanidad. Sus ideas de entonces, a la luz de los gravísimos problemas de hoy, estremecen por su vigencia y nos obligan a convertir el homenaje en estudio, debate y acciones.

En Fidel pensaba cuando inauguramos este encuentro el martes. Todavía se siente aquí su presencia y se recuerdan sus palabras en las esperadas clausuras de Globalización, fueran los inesperados y breves minutos con que sorprendió a los asistentes al primer encuentro o las seis horas y media que extendió otra cita hasta bien avanzada la madrugada.

Yo asistí como invitado al primer encuentro y luego he releído prácticamente todo lo que dijo a lo largo de los años; así que al solicitarme hablar en la clausura, recordé sus palabras cuando le pidieron lo mismo y dijo que le gustaría tener la elocuencia y la erudición de los que habían hablado antes.

Exactamente eso sentí al escuchar las conferencias magistrales de José Luis y Gambina en la sesión inaugural y compartir después algunos de los debates en sesiones. Pero justamente esos análisis también me inspiraron para elaborar las ideas que quisiera transmitirles hoy.

Este encuentro ha sido una magnífica fuente de aprendizaje y una oportunidad para afirmar, ratificar convicciones acerca de los temas abordados, por la coincidencia con los puntos de vista que hemos compartido.

Es magnífico confirmar que continúa prevaleciendo el debate plural, incluso polémico, abierto a los más diversos puntos de vista sobre temas que siguen necesitando luz y que son el resultado de los procesos asociados a la globalización, con impacto en el desarrollo.

Esa confrontación de ideas es un principio de estas reuniones que le debemos a su principal gestor, Fidel, quien se percató muy pronto de la trascendencia del proceso que ya habían descrito los académicos y expuso de forma sistemática y convincente sus propios argumentos teóricos, siempre desde la perspectiva de los explotados y los excluidos.

Él describió la globalización como un proceso objetivo, indetenible, de crecientes interconexiones e interdependencias de las economías nacionales a nivel mundial, que influye en todas las esferas de la vida social y que tiene sus bases y pilares fundamentales en el desarrollo alcanzado en la técnica del transporte, de las comunicaciones y del proceso y transmisión automatizada de información. Pero también denunció con énfasis la irracionalidad e insostenibilidad de la ola neoliberal y la necesidad imperiosa de que la humanidad tomara conciencia de que se precisa la globalización de la solidaridad humana como un paso importante hacia el triunfo definitivo de la globalización socialista como la alternativa para la supervivencia de la especie.

El mundo ha cambiado dramáticamente desde entonces. Lo hemos confirmado de golpe, con la reciente pandemia que paralizó al planeta durante largos e inciertos años y nos dejó a todos en peores condiciones, por no darles su oportunidad a la cooperación y la solidaridad.

Viejos y nuevos conflictos se transforman en guerras de las que solo sacan ganancias los fabricantes y traficantes de armas. El multilateralismo emergente trata de avanzar en un camino minado por obsoletos afanes imperiales. La Organización de las Naciones Unidas, sus organismos y principios son constantemente burlados y violados por haber demorado demasiado tiempo su necesaria democratización.

Si no cambiamos el actual desorden mundial, la codicia y el egoísmo de unos pocos nos precipitarán al abismo, del cual no podrán salir tampoco quienes se empeñan en impedir un paradigma de coexistencia diferente; un mundo más justo, inclusivo y equitativo que ofrezca a las naciones empobrecidas oportunidades reales para una vida digna y sostenible, en el que por fin desaparezcan el hambre y la pobreza, y en el que se respete el derecho a la vida y al desarrollo.

Permítanme que vuelva a Fidel y sus ideas sobre los desafíos de la alternativa frente a la globalización neoliberal.

En la clausura del V Encuentro, el líder histórico de la Revolución Cubana dejó dicho que: “Hay un campo donde la producción de riquezas puede ser infinita: el campo de los conocimientos, de la cultura y el arte en todas sus expresiones, incluida una esmerada educación ética, estética y solidaria, una vida espiritual plena, socialmente sana, mental y físicamente saludable, sin lo cual no podrá hablarse jamás de calidad de vida.

“¿Acaso algo impide que podamos alcanzar tales objetivos?” –se preguntaba.

Y después afirmaba: “¡Queremos demostrar lo que todos proclamamos: que un mundo mejor es posible!

“¡Ha llegado la hora de que la humanidad comience a escribir su propia historia!”

Después de seis décadas de criminal bloqueo, de 243 medidas de reforzamiento de esa obsesiva persecución de todo cuanto puede significar una salida al crecimiento en el camino al desarrollo, Cuba apuesta todo a ese campo donde la producción de riquezas puede ser infinita, como dijo y demostró Fidel, al impulsar el desarrollo de la ciencia y el conocimiento.

Permítanme decirles a quienes puedan desconocerlo todavía, que el bloqueo de los Estados Unidos contra Cuba no ha dejado espacio sin acosar, hasta el absurdo de incluirnos en una lista de supuestos patrocinadores del terrorismo, una suerte de bando imperial que prohíbe acceso a créditos y financiamientos.

Los economistas están en condiciones de comprender como nadie lo que significa ese acto de maldad suprema contra toda una nación. No hay economía en el mundo que funcione sin financimientos y sin créditos. Pero los voceros de esa maldad y perversidad, a la par que nos bloquean y acosan, lanzan ríos de difamaciones y manipulación, con un solo propósito: culpar al Gobierno cubano del dolor que ellos causan, hacer creer que la planificación niega el desarrollo, que los Estados responsables son inoperantes y que el socialismo es inviable.

Y aquí está Cuba, bloqueada, acosada, difamada, demostrando que solo el socialismo puede garantizar la justicia social, incluso en un mundo tan injusto, desigual y regido por reglas ciegas y poderes abusivos como el mundo actual.

Cuba sufre y denuncia el bloqueo por ilegal, criminal y violatorio de los derechos humanos de toda una nación durante más de 60 años. Pero no se detiene en sus programas, no renuncia a uno solo de sus Objetivos de Desarrollo hasta el 2030, algo que pocas naciones en desarrollo pueden siquiera intentar.

Privados prácticamente de financiamientos, créditos y acceso a tecnologías con componentes norteamericanos, tan comunes desde mucho antes de que se hablara de globalización, hemos diseñado un sistema de gobierno basado en ciencia e innovación, apostando al primer recurso de Cuba: el talento y la creatividad del pueblo, alimentados en 64 años de Revolución con sólidos programas educativos, científicos y culturales.

Hemos exigido que las investigaciones salten de las aulas universitarias a la producción y los servicios, que los saberes se potencien e intercambien, que se aprovechen al máximo las indiscutibles ventajas de vivir en una sociedad donde los medios fundamentales de producción pertenecen al pueblo, no como una entelequia sino como la única explicación a nuestra sobrevivencia después de seis décadas bloqueados por quienes actúan como dueños del mundo.

Creemos y confiamos en la juventud para hacer que cristalicen esos proyectos. Creemos incluso en los miles de jóvenes que han emigrado por creer que sería imposible realizar sus sueños aquí, y porque hemos visto, sobre todo, a otros miles poniendo el pecho a los desafíos sin más pago que la felicidad de hacer cosas excepcionales o sencillas por su país.

A pesar de las abiertas acciones de robo de cerebros, de asedio y conquista de cientos de miles de jóvenes muy preparados que egresan de las universidades cubanas; a pesar de la criminal Ley de Ajuste Cubano por la cual Estados Unidos recibe casi automáticamente como emigrados políticos a nuestros nacionales que llegan de modo irregular a sus fronteras, Cuba cuenta con una masa de jóvenes estudiantes y trabajadores que están haciendo en la patria proyectos que impresionan.

Somos el único país en desarrollo con vacunas propias contra la COVID-19 y otras enfermedades, creadas mayormente por jóvenes científicos, como lo son también quienes produjeron ventiladores pulmonares comparables a los mejores del mundo; o los que ahora mismo están protagonizando una proeza en los mantenimientos de las plantas electroenergéticas, consumidas por años de explotación; o el personal docente y el de Salud, que ejercen en la ciudad y en las montañas, en hospitales o en policlínicos, a veces sin condiciones materiales para brindar un servicio óptimo y, sin embargo, han mantenido nuestros indicadores de calidad de vida en niveles comparables con los mejores del mundo; o los que emprenden proyectos en formas no estatales, las conocidas mipymes, muchas veces encadenadas con entidades del Estado cubano. Los hemos encontrado en nuestros recorridos por todo el país, batiéndose con la escasez y también con la ineficiencia o la desidia.

No hay sociedades perfectas. Estamos lejos de ser algo así. Y carecemos de tanto, que quienes miden el desarrollo por los niveles de consumo de la sociedad nos describen como un país sumido en la pobreza. Sin embargo, quienes conocen el rostro y la esencia de la pobreza describen otra realidad: una nación que resiste sin renunciar a un desarrollo acorde con sus niveles de conocimiento y de participación en el proyecto social.

El socialismo, un sistema tan nuevo, tan diverso, tan necesitado de la voluntad política y la participación social para establecerse y avanzar, nos desafía a intentarlo cada día con un nuevo obstáculo enfrente. Por eso no es posible juzgar a Cuba sin considerar los desafíos que singularizan nuestra experiencia y los caminos que vamos abriendo con el empuje de la historia y del futuro que puede ser todavía.

Hemos dicho más de una vez que en una Revolución auténtica la victoria es el aprendizaje, pues no marchamos sobre una ruta probada. Marchamos por un camino cercado, tratando de esquivar los obstáculos del adversario y de nuestros propios errores. A ese ejercicio continuo de aprendizaje y generación de alternativas le llamamos resistencia creativa.

Estamos orgullosos de haber escapado de la globalización neoliberal, que no es solo un modelo económico, es además una concepción ideológica y un proyecto político de dominación imperial, impulsado por las principales potencias mundiales con Estados Unidos a la cabeza, empeñados en controlar, rediseñar y sacar provecho del injusto sistema de relaciones internacionales para estructurar un Nuevo Orden Mundial que les permita mantener sus intereses hegemónicos, cuando otros actores de peso optan por el multilateralismo y la cooperación.

En la reciente Cumbre del Grupo de los 77 y China, celebrada en este mismo Palacio de Convenciones, compartíamos indicadores del desarrollo que solo muestran el estruendoso fracaso del neoliberalismo para la inmensa mayoría de la población mundial.

Retomo algunos datos y comentarios que expresamos entonces y que nos interesa reiterar ahora, por su dolorosa contundencia para describir el injusto e insostenible orden global vigente:

A solo siete años del plazo fijado para el cumplimiento de la Agenda 2030, el panorama es desalentador.  Al ritmo actual, no se alcanzará ninguno de los 17 Objetivos de Desarrollo Sostenible, y más de la mitad de las 169 metas acordadas serán incumplidas.

No es aceptable que en pleno siglo XXI padezcan de hambre casi 800 millones de personas, en un planeta que produce lo suficiente para alimentar a todos.

No hay justificación alguna para que en esta era del conocimiento y desarrollo acelerado de las tecnologías de la información y las comunicaciones más de 760 millones de personas, dos terceras partes de ellas mujeres, no sepan leer ni escribir.

Los países de nuestro Grupo han debido destinar 379 000 millones de dólares de sus reservas para defender sus monedas en 2022, casi el doble de la cantidad de nuevos Derechos Especiales de Giro que les asignó el Fondo Monetario Internacional.

Mientras los países más ricos incumplen su compromiso de destinar al menos el 0,7 % de su producto nacional bruto a la Ayuda Oficial al Desarrollo, las naciones del Sur tienen que gastar hasta el 14 % de sus ingresos para pagar intereses asociados a la deuda externa.

La mayoría de las naciones del Grupo de los 77 se ven compulsadas a destinar más recursos al servicio de la deuda que a inversiones en salud o educación.

El cambio climático amenaza la supervivencia de todos, con efectos ya irreversibles.

Más de 3 000 millones de personas se ven afectadas por la degradación de los ecosistemas. Más de un millón de especies de plantas y animales están en peligro de extinción. Si no actuamos de inmediato, legaremos a nuestros hijos y nietos un planeta irreconocible e inhabitable.

Los que menos influyen en la crisis climática son los que más padecen sus efectos, en particular los Pequeños Estados Insulares en Desarrollo. Mientras los países industrializados, depredadores voraces de recursos y del medio ambiente eluden su mayor responsabilidad e incumplen sus compromisos bajo la Convención Marco de las Naciones Unidas sobre el Cambio Climático y del Acuerdo de París.

Por solo citar un ejemplo, resulta profundamente decepcionante que la meta de movilizar no menos de 100 000 millones de dólares al año y hasta 2020 como financiación climática nunca se haya cumplido.

Son los pueblos del Sur los que más padecen pobreza, hambre, miseria, muertes por enfermedades curables, analfabetismo, desplazamientos humanos y otras consecuencias del subdesarrollo. Muchas de nuestras naciones son llamadas pobres, cuando en realidad deberían considerarse naciones empobrecidas. Y es preciso revertir esa condición en que nos sumieron siglos de dependencia colonial y neocolonial, porque no es justo y porque no soporta ya el Sur el peso muerto de todas las desgracias.

En medio del más colosal desarrollo científico-técnico de todos los tiempos, el mundo ha retrocedido tres décadas en materia de reducción de la pobreza extrema y se registren niveles de hambruna no vistos desde 2005.

En el Sur, más de 84 millones de niños permanecen sin escolarizar y más de 660 millones de personas sin electricidad; solo el 36 % de la población utiliza Internet en los países menos adelantados y en las naciones en desarrollo sin litoral, frente al 92 % con acceso en los países desarrollados.

Tómese en cuenta que el costo medio de un teléfono inteligente apenas representa el 2 % de los ingresos mensuales per cápita en Norteamérica, mientras esta cifra asciende al 53 % en el sur de Asia y al 39 % en África subsahariana. No se puede hablar entonces seriamente de avance tecnológico o de acceso equitativo a las comunicaciones ante estas realidades.

La transición energética transcurre también en condiciones de una profunda desigualdad que tiende a perpetuarse. La desproporción en el consumo energético entre los países desarrollados (167,9 gigajulios por persona al año) y en desarrollo (56,2 gigajulios por persona al año) es consecuencia de la brecha económica y social existente y también causa de que esta brecha continúe creciendo.

Una parte sustancial de las enfermedades, más prevalentes en los países en desarrollo, son aquellas que son prevenibles y/o tratables. La Organización Mundial de la Salud declaró en su informe de salud mundial que se estima que 8 millones de personas mueren de manera prematura cada año, a causa de enfermedades y afecciones que pueden curarse. Estas muertes son un tercio de todas las muertes humanas en el mundo anualmente.

Todos o casi todos tratamos de atraer la inversión extranjera directa como componente necesario del desarrollo y del manejo de las economías.

Pero sabemos que lo más frecuente es que no se acompañe de la transferencia de conocimientos y de ayuda para la creación de capacidades. Esa ausencia conduce a que los países en desarrollo se ubiquen en los eslabones más bajos de las cadenas globales de valor y que sus investigaciones en salud, alimentos, medio ambiente y otras resulten muy limitadas o padezcan una devaluación sistemática.

Este fenómeno ocurre junto al drenaje de talentos o lo que comúnmente se denomina “robo de cerebros”; o sea, la práctica de los países más desarrollados de beneficiarse de la preparación y el conocimiento de profesionales que los países en desarrollo forman con mucho esfuerzo, regularmente sin respaldo alguno de las naciones más ricas.

Es ese un drenaje masivo y un aporte financiero notable que hacen los países en desarrollo a los ricos; mucho mayor, por cierto, que la Ayuda Oficial al Desarrollo, sobre la base de un flujo migratorio que es devastador para los países subdesarrollados.

La privatización del conocimiento pone límites a la circulación y recombinación del mismo. Plantea limitaciones al progreso y las soluciones científicas de los problemas. Constituye una barrera significativa para el desarrollo y el papel que en él deben desempeñar la ciencia, la tecnología y la innovación. Agrava las condiciones socioeconómicas de los países en desarrollo.

Baste señalar que en medio de la mayor pandemia que ha conocido la humanidad, solo diez fabricantes concentraron el 70 % de la producción de vacunas contra la COVID-19. La pandemia evidenció con crudo realismo el costo de la exclusión científica y digital, que cobró vidas y amplió las distancias entre el Norte y el Sur.

Como resultado, los países en desarrollo solo llegaron a disponer de 24 dosis de vacunas por cada 100 habitantes, mientras los más ricos disponían de casi 150 dosis por cada 100 personas. Ante el llamado a multiplicar la solidaridad y apartar las desavenencias, el mundo terminó siendo absurdamente más egoísta.

La Organización Mundial de la Salud ha formulado el conocido síndrome del 90/10, según el cual el 90 % de los recursos de la investigación en salud se dedican a las enfermedades que producen el 10 % de la mortalidad y la morbilidad, mientras las que generan el 90 % de estas solo disponen del 10 % de los recursos. Indudablemente a las multinacionales de medicamentos no les interesa que la gente se cure, necesitan que estén enfermos para lograr más ganancias.

Al acudir a los mercados financieros, las naciones del Sur se han enfrentado a tasas de interés hasta ocho veces superiores a las de los países desarrollados. Alrededor de una quinta parte de las economías en desarrollo liquidaron más del 15 % de sus reservas internacionales de divisas para amortiguar la presión sobre las monedas nacionales.

En 2022, 25 naciones en desarrollo tuvieron que dedicar más de una quinta parte de sus ingresos totales al servicio de la deuda externa pública, lo que equivale a una nueva forma de explotación.

El gasto mundial en investigación y desarrollo entre 2014 y 2018 aumentó un 19,2 %, superando el ritmo de crecimiento de la economía mundial del 14,6 %. Sin embargo, continúa altamente concentrado, pues el 93 % lo aportan los países integrantes del G20.

Los recursos necesarios para una solución de fondo a estos problemas existen. Solo en 2022, el gasto militar mundial alcanzó la cifra récord de 2,24 billones, o sea, millones de millones de dólares. ¿Cuánto pudiera hacerse con esos recursos en beneficio del Sur?

Lograr la participación universal inclusiva en la economía digital requerirá invertir en nuestros países, como mínimo, 428 000 millones de dólares para 2030, demanda que puede cubrirse con apenas el 19 % del gasto militar global.

Sin embargo, el Sur pareciera destinado a vivir de las migajas que el actual sistema tiene reservadas para él. El apoyo financiero del Fondo Monetario Internacional a los países menos adelantados y otros de renta baja, desde 2020 hasta finales de noviembre de 2022, no sobrepasa el equivalente a lo que ha gastado la empresa Coca Cola solo en la publicidad de su marca en los últimos ocho años.

Mientras tanto, apenas menos del 2 % de la ya deficiente Ayuda Oficial al Desarrollo se ha dedicado a capacidades de ciencia, tecnología e innovación.

Estimaciones realizadas indican que el 9 % del gasto militar mundial podría financiar en diez años la adaptación al cambio climático, y el 7 % sería suficiente para cubrir el gasto de vacunación universal contra la pandemia.

Una arquitectura financiera internacional que perpetúa semejantes disparidades y obliga a los países en desarrollo a inmovilizar recursos financieros y endeudarse para protegerse de la inestabilidad que el propio sistema genera, que ensancha los bolsillos de los ricos a expensas de las reservas del 80 % más pobre es, sin duda, una arquitectura hostil al progreso de las naciones. Debe demolerse si realmente se aspira a labrar el desarrollo de la gran masa de naciones en desarrollo.

La pandemia de la COVID-19, de la que aún no se libera totalmente el planeta, nos ha dejado lecciones muy duras. Aun cuando se manifestaron valores y virtudes que enaltecen y hubo notables ejemplos de espíritu solidario, lamentablemente, se reveló la naturaleza profundamente inhumana del actual sistema internacional. Predominó la insensibilidad y el egoísmo ante el sufrimiento humano y se impuso el afán de lucro en torno a las vacunas y equipos médicos imprescindibles.

Es esencial encarar una profunda reforma de las instituciones financieras internacionales, tanto en cuestiones de gestión y representación como de acceso a financiación, que tenga debidamente en cuenta los legítimos intereses de los países en desarrollo y amplíe su capacidad de decisión en las instituciones financieras globales.

Es imprescindible exigir el cese de las medidas coercitivas unilaterales y los bloqueos ilegales, como el que se ejerce contra Cuba, recrudecido aún más con la fraudulenta inclusión de nuestro país en la arbitraria y unilateral lista de países que supuestamente patrocinan el terrorismo.

Hasta aquí fragmentos de la exposición que hicimos en nombre de las mayorías, excluídas de los beneficios de la globalización y el desarrollo.

Durante estos días me he preguntado en silencio, escuchando atentamente cada intervención, si existe hoy en el mundo una economía en desarrollo que se haya librado de las consecuencias del desorden global y le esté ofreciendo prosperidad a su pueblo. No oí citar ningún ejemplo.

Tendremos que concluir que la tiranía del mercado al servicio de las economías más poderosas del planeta no solo no ha resuelto ninguno de nuestros problemas, sino que nos ha llevado a caer en lo que mi querido amigo Frei Betto llama la globocolonización.

Queridas amigas y amigos:

¡Gracias por la oportunidad de escucharlos y de escucharme!

Queda mucho por decir y proponer. Por eso los esperamos en La Habana en 2025.

Muchas gracias.

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