Intervista a Ramón Labañino Salazar

E. Oijto  http://it.granma.cu

ramonNella prigione, prima di andare a riposare, Ramón Labañino Salazar sta sfogliando l’album delle foto, una finestra da cui poter “evadere” quando vuole incontrarsi con i suoi familiari, anche se esiste un abisso tra Ashland, Kentucky, Stati Uniti e L’Avana, Cuba.

—“Posa l’orologio nella finestrella e mettiti le scarpe da tennis. Vieni con me”, gli sollecita la guardia carceraria.

La cella resta vuota, inghiottendo l’ingiustizia. Con un passo agile, Labañino quasi pesta i talloni dell’agente in uniforme. Prima si fermano al guardaroba; poi vanno in un altro luogo dove gli vengono messe le catene. Le sbarre della prigione si aprono e si chiudono e il loro scricchiolio metallico ricorda al cubano che non sta passeggiando per il Vedado, nella capitale cubana.

—“C’è da portare questa persona verso l’aeroporto più vicino e trasferire i suoi oggetti di proprietà”.

Ramón sente ben chiara la frase e inizia a pensare che forse qualcosa di buono sta per succedere. Ammanettato, sale su una monovolume; quando arriva all’aeroporto sente dire: “Sbrigati, che l’altro sta arrivando”. La destinazione: un ospedale carcerario nella Carolina del Nord.

Le scene si susseguono come in una pellicola in stile hollywoodiano, con la sostanziale differenza che in questo caso si tratta di una storia reale, che vede protagonisti in questa giornata anche Antonio Guerrero e Gerardo Hernández. Nessuno di loro aveva la minima idea delle conversazioni ufficiali, ma segrete avvenute tra funzionari de L’Avana e Washington iniziate nel 2013.

La premonizione di Ramón sta per avverarsi, anche se niente viene detto loro da quelle guardie con facce cerimoniali che li stanno portando da un posto a un altro. Dal suo arrivo in ospedale, Ramón non toglie gli occhi di dosso a Gerardo e ad Antonio; nonostante questo, non arriva un minimo segnale chiarificatore da nessuno dei due. Intorno alle otto della mattina del 16 dicembre, una guardia lo avverte:

—Vai nell’area delle visite.

In maniera frettolosa lo portano nel corridoio; all’improvviso, di fronte a lui, ci sono i suoi fratelli di sventura. Ramón si dimentica il fastidio al ginocchio che lo tormenta da tempo e corre verso di loro. Un abbraccio virile, petto a petto; tre uomini, stesso grande eroismo. Più tardi verranno a conoscenza che alle 8,10 del mattino successivo, potranno nuovamente poggiare i loro piedi sulla calda e venerabile Cuba, la loro Patria…

Per la seconda volta sono tornato nella sede dell’Istituto Cubano di amicizia con i Popoli, nella Calle 17 de L’Avana, antica villa del marchese Avilés, costruita secondo i codici delle BelleArti parigine. Sono tornato nello stesso salone dagli alti specchi, nella stessa poltrona rosso porpora. Di fronte a me ho un altro dei 5 Eroi: Ramón —la prima volta era stato René González—. Al suo fianco, Elizabeth Palmeiro Casado, attenta ad alcune date dimenticate negli oltre 16 anni di incarceramento nelle prigioni degli Stati Uniti subiti da suo marito, che si trasferì nel febbraio del 1993 in Florida come agente della Sicurezza Cubana sotto lo pseudonimo di Orso.

“La mia famiglia non era a conoscenza di niente. Dato che io sono una un economista, dissi loro che ero un funzionario di una supposta marca spagnola che si stata incaricando di portare mercanzie a Cuba per aggirare l’embargo”, segnala Ramón.

– Qual è stato l’itinerario che ha seguito per arrivare negli Statti Uniti?

– Sono passato attraverso vari paesi e, per ultimo, il Messico. Quando misi piede negli USA mi dissi: Ce l’ho fatta. Per noi, entrare in un altro paese è il momento più difficile perche lo dobbiamo fare con una falsa identità. Tutta la preparazione è volta verso questo particolare. Se riusciamo ad entrare, cuol dire che è stato fatto un ottimo lavoro.

– A partire da quel momento, lei diventò il portoricano Luis Medina. Possiamo dire che lei conosceva più San Juan che L’Avana?

– Avevamo gli elementi per rappresentare questo personaggio. Ho viaggiato a Porto Rico; nel mio copione mi ero impresso persino il colore della casa dove vivevo, la scuola dove ho studiato, la fermata dell’autobus di fronte. Queste erano le mie memorie del personaggio Luis Medina.

Tampa, ubicata nella costa ovest della Florida e il cui nome significa “schegge di fuoco” –a causa dei fulmini che colpiscono l’area in estate- è il luogo dove si stabilisce Ramón, che inizialmente abita in un hotel; però subito dopo inizierà a cercare un luogo più economico.

– Scelsi la parte sud della città, zona di basse risorse. Iniziai a esplorare quartiere per quartiere, fino a che non trovai una casa che aveva un piccolo cartello che affiorava dal terreno che indicava “For Rent” (affittasi). La piccola casa praticamente aveva un garage, trasformato in abitazione. Parlai con la proprietaria, di origine haitiana, molto umile. Mi presentai come uno studente universitario. Per fortuna non mi chiese nessun documento. Mi trasferii nella casa; c’è una foto tra queste dove si vedono la casa e una bicicletta; fu in quella casa che iniziai a fare il lavoro operativo.

– In che maniera ha potuto vivere negli Stati Uniti?

– Distribuendo giornali nelle abitazioni, vendendo scarpe da catalogo. Il lavoro in casa ci permetteva di avere molta autonomia e non richiedeva molti documenti. Nel 1996 mi dettero indicazioni di trasferirmi a Miami; lì ho guidato un piccolo monovolume e distribuivo mercanzie, medicine…in diverse farmacie. Fu il lavoro più stabile che ho avuto negli Stati Uniti.

– Quando avvenne il suo primo incontro con Gerardo, capo della rete, negli Stati Uniti?

– Un chiarimento: in realtà, Gerardo non era il capo della rete intera; lui era il capo di un gruppo e io di un altro. Penso che la Procura, nel desiderio di arrivare d accusare Gerardo, lo mise come capo della rete. Contro Gerardo si scatenò un putiferio fuori dal comune. Volevano cercare un capro espiatorio per la faccenda degli aerei abbattuti (il 24 febbraio del 1996, Cuba abbatté due piccoli aerei del gruppo terrorista Hermanos al Rescate per violazione del suo spazio aereo).

Dopo essermi stabilito a Miami, mi dettero l’indicazione di incontrare Gerardo. Il primo incontro fu molto formale per essere un incontro tra due ufficiali. Ci vedemmo dietro una libreria. Io dovevo arrivare vestito in una certa maniera e lui uguale; Gli dissi una parola d’ordine e lui mi rispose con un’altra. Fu una conversazione breve. Fu solo successivamente che potetti conoscere Gerardo per la persona divertente che è.

– Tra le sue missioni, c’è stata quella di seguire le tracce di un terrorista come Orlando Bosch, uno degli autori intellettuali del crimine delle Barbados*

– E’ difficile stare sulle tracce dei terroristi, è gente che ha commesso dei crimini tremendi contro il tuo popolo. Era dura stare così vicino a Orlando Bosch e pensare a tutto ciò che aveva causato. Una delle missioni era quella di seguirlo quando lui andava a Tampa e soprattutto a Ybor City; La stessa cosa abbiamo fatto con personaggi della Fondazione Nazionale Cubano Americana (FCNA). Il mio lavoro consisteva nel preparare in terreno su questo fronte e cercare di piazzare un nostro agente nel gruppo per ottenere le informazioni sui loro piani per aggredire Cuba. Siamo andati negli Stati Uniti per evitare che piazzassero bombe sulla nostra isola e anche nel loro territorio. Non siamo andati a cercare il segreto della bomba atomica. Cuba ha il diritto di difendersi.

– Quali esempi potrebbe citare sulle azioni terroristiche che ha evitato?

– Il nostro lavoro è composto da molti uomini e donne. Noi cosiddetti “Cinque” rappresentiamo tante persone. Attraverso i compagni che assistevo, abbiamo intercettato la preparazione del lancio di un razzo verso un aereo di Fidel, che avrebbe dovuto attraversare un certo luogo; un altro attentato era stato organizzato con una penna da scrivere imbottita di esplosivo che avrebbe dovuto esplodere vicino al Comandante (Fidel Castro) in un determinato luogo. In un’altra occasione hanno cercato di far passare un esplosivo da un aeroporto cubano all’interno di una bottiglia di shampoo, con l’obiettivo di piazzare delle bombe nelle centrali elettriche di Cuba.

Per noi, la cosa più gratificante è sapere che ciò che abbiamo fatto ha avuto un’utilità finale; è stata evitata una persona ferita, una persona morta, un attacco al nostro Comandante. Questa è la cuspide. Nessuno dei Cinque cercava pubblicità; il nostro successo sarebbe stato continuare nell’anonimato per tutta la vita.

– Di sicuro, dovuto al fatto che nessuno era a conoscenza della vera vostra missione e del motivo della costante assenza da casa, la sua famiglia è arrivata a mettere in dubbio le sue attività. Cosa successe quel giorno di fronte alla tomba di sua madre?

– Mia madre morì tre mesi prima che io venissi scoperto, senza sapere la mia vera missione; non le detti il dolore di vedermi in prigione. Anche lei voleva che tornassi: ‘Ramoncito, devi mettere la testa a posto, figlio’. Quel giorno, di fronte alla sua tomba, mio padre mi chiese: ‘Fino a quando durerà questa storia? Hai tre figlie e una moglie…’. Guarda, papà, sarò onesto con te, tutto questo durerà fino a che io non sarò più utile per il mio lavoro, sia perché io muoia o perché mi arrestino.

Il 12 settembre del 1998, Ramón Labañino doveva tornare a fare il suo rituale mattutino: sarebbe sceso dal letto del suo piccolo appartamento situato a Hollywood Beach e dopo avrebbe preso la sua monovolume alla base; lo avrebbe rifornito di olio e benzina, se necessario; avrebbe preso medicine e accessori per battere, semaforo dopo semaforo, la città di Miami e distribuire il suo carico a una interminabile lista di farmacie.

Questa sarebbe stata la routine di quel sabato mattina, che fu interrotta ancor prima di cominciare, intorno alle 5,30. L’agente cubano fece appena a tempo a sentirei colpi contro la porta, che cedette come un limone sotto un colpo d’ascia. Quando tentò una reazione aveva già addosso gli uomini in uniforme; Tentò di lottare contro uno di questi, però gli servì a poco la sua cintura nera di Karate di fronte a untale svantaggio di forze.

—FBI, FBI. Gettati a terra! Gettati a terra!

Fuori,il rumore delle pale di un elicottero stava svegliando i vicini e le luci intermittenti delle auto di pattuglia annunciavano i drammatici episodi che stavano accadendo. Nel Quartier Generale della Federal Bureau of Investigacion (FBI) di Miami, Ramón fu sottomesso a un’intervista di “convincimento” per tradire gli altri cubani; da li fu condotto verso il Centro di Detenzione Federale. Attraverso un percorso simile, passarono altri nove agenti cubani, anche loro furono portati al Centro Federale il 14 settembre. Durante il tragitto, un altro detenuto, venendo a conoscenza che erano cubani, gridò loro: “Resistete, cazzo! Resistete perché Fidel non vi abbandonerà mai!

– Però cinque di loro tradirono la causa cubana. Come venne a sapere della notizia?

– Prima di entrare in Tribunale, ci misero in una specie di cella di attesa. Lì ci rendemmo conto che c’era gente molle. Conversando tra di noi dicemmo che questa sarebbe stata “La storia ci assolverà”** nostra; però già vedevamo uno in un angolo ripiegato su se stesso; un altro non ti guardava in faccia.

Conversai con René —io non lo conoscevo a causa della compartimentazione tra noi agenti— e mi disse: ‘Qui nessuno deve cedere’. Lui parlò con un altro e i resi conto che la risposta dell’altra persona non era così decisa. ‘Sì, però dobbiamo pensare alle nostre famiglie’. Ahhh! La vedo complicata, mi dissi. A posteriori, gli stessi avvocati ci allertarono che all’interno del gruppo c’era chi aveva iniziato a collaborare. L’impatto del tradimento fu tremendo, onestamente.

In quelle circostanze i Cinque sua una frase molto colorita di Simón Bolívar: “A la pi…” (equivalente italiano di un vaffa…), che i lettori non devono prendere adesso come un’irriverenza.

Noi conosciamo la storia di Bolívar; era lo slogan che il condottiero impiegava nelle missioni complesse, all’inizio del combattimento. Quando la cosa divenne difficile, dicemmo: “Aquí, a la pi…” C’è un momento nella vita dove ti tocca prendere una decisione, e se devi morire, non lo puoi evitare.

– Quanti dubbi la assalirono sapendo di dover essere difeso da un avvocato statunitense?

– Il mio primo avvocato, di cui non menzionerò il nome, non mi soddisfece; non mi piacque la maniera in cui mi difese nella presentazione degli argomenti iniziali perché mi potessero fissare una cauzione. Lo vidi un po’ ambiguo. Ebbi una conversazione con lui: con tutto il rispetto, ho bisogno che lei mi dica se è disposto a difendermi con coraggio, perché se non ha coraggio… Ho bisogno di qualcuno che dimostri la verità. Noi vogliamo denunciare dei terroristi, la gente che controlla questa città. L’avvocato, poco a poco, si ritirò dal caso.

Successivamente arrivò l’avvocato William Norris e dal primo momento in cui lo vidi —questo successe durante i 17 mesi passati nel ‘buco’—, mi fece una buona impressione e gli manifestai: sono contento che le capisca il nostro lavoro segreto. Le prometto che le dirò tutto ciò che davvero posso dire; non le mentirò mai. Gli chiesi che non prestasse caso alla stampa. Te lo immagini che 5 uomini squattrinati che possano distruggere la democrazia e la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, come sarebbero presentati dalla stampa? In tutta sincerità, gli avvocati combatterono come belve per noi.

Il 6 dicembre del 2000 ebbe inizio la fase orale del giudizio con la presentazione delle argomentazioni dell’Accusa e delle Difesa, dove furono rivelati i veri nomi di Manuel Viramontes (Gerardo Hernández), Rubén Campa (Fernando González) e di Luis Medina (Ramón Labañino). Neppure la FBI era riuscita a scoprirli.

Alcuni minuti prima della presentazione dell’allegato dell’avvocato Norris, Ramón fece una dichiarazione: “Sì, sono un agente straniero non registrato, è vero che ho dei documenti falsi; però non sono una spia. Non sono venuto qui per cercare segreti militari.

Con un ergastolo e altri 18 anni di detenzione, fu affondata la sua itinerante vita da colpevole, che lo portò nelle carceri di Beaumont, Texas, e a McCreary, Kentucky. La sentenza fu poi rivista in 30 anni nel 2009, lo trasferirono a Jesup, Georgia e poi ad Ashland, Kentucky.

– Quante volte in carcere si sentì in dovere di dire a un altro carcerato: non oltrepassare questa linea?

– Noi eravamo rispettati nelle carceri, però è vero che ci sono stati momenti dove hanno cercato di mancarci di rispetto. Eravamo a stretto contatto con dei criminali e se non eri all’altezza degli avvenimenti potevi diventare un loro sottomesso. Io avvertivo la gente: (noi cubani) siamo persone cordiali, però non venite in cerca di guai perché immediatamente prendiamo il “machete di Maceo” e glielo spiegavamo coreograficamente. A uno lo affrontai in cella: non so perché mi manchi di rispetto, se io ti tratto più che bene. ‘No, perché io sono carcerato da tanti anni’. Non mi interessa sapere da quanti anni sei carcerato. Mi devi rispettare. Non attraversare la linea con me e se la oltrepassi, io ti aspetto.

Molti dei problemi nella prigione nascono perché la gente non sa parlare, da cose minime. Per esempio, per vedere la televisione devi segnare il pavimento dove va la tua sedia; se la sposti un po’ a lato, può essere persino causa di una pugnalata. Mi volevano sempre come leader dei cubani detenuti, non solo perché sono grande e forte, ma anche per la dorma di parlare, per la forma di comportarmi con gli altri. Loro si rendevano conto se tu eri una persona decente, retta; però di quelle che potevano dire a chiunque: “Sei uno svergognato”.

Sto scrivendo un diario sulle quotidianità della prigione. Non vorrei che lo leggessero mia moglie e le mie figlie; descrive scene di omicidi, droga, prostituzione, di tutto quello che ho visto nelle carceri degli Stati Uniti.

– Nonostante questo, lei ha assicurato di aver lasciato in carcere un’altra famiglia.

– Nella prigione uno conosce anche persone umane, che commettono errori. Noi non lo avremmo fatto perché siamo incapaci di rubare. La vita negli Stati Uniti è molto difficile; se non hai denaro, muori di fame. C’era uno che rubava nelle banche… Ci sono persone che hanno a cuore Cuba e che sono capaci di difendere la Rivoluzione. Uno convive con loro e fa amicizia. Per questo, ancora oggi, queste persone mi chiamano, mi scrivono delle lettere . Ho cercato di vedere i loro familiari e in questa maniera compiere quanto promesso ai miei fratelli della prigione.

– Perché è ricorso alla poesia?

– La poesia ha costituito per me una forma di combattere contro la solitudine, ci ha aiutato a sopravvivere. La scrivo dall’anima, come i poemi che ho dedicato a mia madre Avevo delle pendenze verso di lei che non sono riuscito a rimettere a posto e ho cercato di farlo attraverso i versi. In “Carta a una madre ausente” (Lettera a una madre assente) e in “Deuda” (Debito) le ho espresso quelle cose che non ho potuto dirle di persona.

– Un altro poeta, Silvio Rodríguez, ci ha fatto pervenire “Il dolce abisso”, una canzone che simboleggia la storia d’amore dei Cinque. Amata, (…) io parto, tu avrai cura dell’orto (la famiglia), scrisse. Come è stato “l’orto” di Ramón? Con quale aggettivo eroico qualificherebbe sua moglie?

– Il mio orto? Bellissimo. Ho trovato una famiglia amorosa. Non mi stanco di dire che Eli è un eroina. Immaginatela sola, con due bambine nel mezzo del Periodo Speciale a Cuba, quando non c’erano né alimenti, né medicine. Laurita è all’ultimo anno di Relazioni Internazionali e Lisbeth ha iniziato Psicologia. Ailí (figlia del primo matrimonio) è un altro esempio. Migliori figlie non potrei avere. Eli ha saputo far capire loro che io non le avevo abbandonate.

Oltre a questo, la campagna internazionale. Come il resto delle spose, non solo lei è stata fedele come Penelope. Loro non si sono messe ad aspettare, sono state le prime a percorrere Cuba; poi si sono riunite con i presidenti dei vari paesi, con i parlamentari. Io leggevo le notizie. Questa è mia moglie! Guarda, come è cresciuta. Questo sentimento spirituale, umano, lo hanno solo le eroine come lei. Gli eroi non siamo noi, sono loro.

– Lei si definisce come il più ottimista tra i Cinque.

– Sono ottimista per natura; l’ottimismo aiuta a vivere e a vincere e ha a che vedere con la ricchezza interiore di una persona, con i ricordi. Ad esempio, io facevo sempre dei bei sogni. Da carcerato sognavo di essere libero, lo sognavo nitidamente e quando mi svegliavo mi dicevo: non può essere che io sia in carcere, se già io ero a cuba. Quando sei ottimista, dici: oggi non sono libero, però lo sarò domani. Quando arriva domani, hai già passato un altro giorno.

Se ti metti nella negatività della prigione, ti distruggi; lì sei circondato da crimini, da vicino… L’ottimismo sembra un anacronismo in quelle circostanze. Se ti scoraggi… Ho visto persone depresse che si sono impiccate. Ho conosciuto un uomo che ha ucciso 12 membri della sua famiglia. ‘Io sono un mostro; so che morirò in questo letto’, mi disse una volta. Quando uno sente parlare così una persona in prigione… Per questo mi sono creato un concetto: sopravvivo nella prigione, però vivo fuori di qui. Vivevo la quotidianità della mia famiglia. Il 90 per cento della mia mente era dedicata a questo; il 10 per cento per le problematiche interne della prigione, che cercavo di non farmi entrare nel sangue, anche se per sopravvivere a volte ti devi calare nella vita carceraria.

Per sopravvivere, mi sono rifugiato molto anche nello sport, facevo esercizi, pesi; giocavo a scacchi, a pallamano, ed è stato qui che mi sono ferito al ginocchio; ho avuto un trauma all’articolazione, si è infiammata. Andai dal medico, però le cure in prigione erano terribili. Mi dissero: ‘Prenditi due aspirine. Metti i piedi in alto, metti il ghiaccio sopra e domani starai bene’. In carcere ti curano quando stai per morire.

– Ti è diminuito il dolore?

– Non ho più dolori. Mi sento molto meglio. Dopo essere salito sulla cima del monte Turquino, mi sento più agile. Il medico mi ha dato la regola: se mi duole estremamente, dovrò operarmi. Stando molto in piedi, mi stanco perché lavoro molto con la parte muscolare. A parte questo, sto bene.

– Quando rammentiamo le colombe bianche, cosa le ricorda?

– in autunno, la prigione di Beaumont, Texas, si riempiva di colombe bianche, un qualcosa di poetico. Immaginati una carcere violenta, dove tutto ciò che vedi è filo spinato, muri altissimi, gente che si odia una con l’altra, uccidendosi là dentro, e che tu veda quell’immagine. E’ una tremenda immagine simbolica. E’ allora che pensi che, nonostante tutte le ingiustizie, che esista la pace, l’amore. Per me le colombe bianche hanno significato la speranza.

* il 6 ottobre del 1976, il volo 455 della Cubana de Aviación, partito dalle Barbardos e che doveva fare tappa in Giamaica, per poi arrivare a L’Avana, esplose in volo a causa di un attentato terroristico e morirono le 76 persone a bordo.https://es.wikipedia.org/wiki/Vuelo_455_de_Cubana

** “La storia mi assolverà” è il testo di autodifesa pronunciato da Fidel Castro il 16 ottobre 1953, durante il processo celebrato a Santiago di Cuba contro gli accusati per l’assalto alla Caserma Moncada di Santiago di Cuba.

(Traduzione di Stefano Guastella per Quintavenida.it)

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