Unirci come i denti, come le mani

E. Galeano http://islamiacu.blogspot.it

galeanoLa nostra regione è il regno del paradosso. Prendiamo come esempio il Brasile: paradossalmente, l’Aleijadinho, il suo uomo più spregevole, creò le più grandi bellezze artistiche dell’epoca coloniale; paradossalmente, Garrincha, rovinato già dalla infanzia dalla miseria e dalla poliomielite, nato nel segno della disgrazia, è stato il giocatore che più allegria ci ha regalato in tutta la storia del calcio; e paradossalmente, ha già compiuto cento anni Oscar Niemeyer, pioniere degli architetti moderni e il più giovane dei brasiliani.


In Bolivia per esempio, nel 1978 cinque donne rovesciarono una dittatura militare. Paradossalmente, la Bolivia intera si burlò di loro quando cominciarono lo sciopero della fame. Paradossalmente, la Bolivia intera digiunò poi con loro fin quando non cadde la dittatura. Io avevo conosciuto, nel paese minerario di Llallagua, Domitila Barrios, una di quelle cinque donne ostinate. Durante un’assemblea di operai minatori, tutti uomini, lei si era alzata in piedi li zittì tutti. «Voglio dirvi solo una cosa. Il nostro peggior nemico non è l’imperialismo, né la borghesia, né la burocrazia. Il nostro peggior nemico è la paura, e la portiamo dentro». Anni dopo, rincontrai Domitila a Stoccolma. L’avevano cacciata dalla Bolivia e lei era partita con i suoi 7 figli. Domitila era molto grata agli svedesi per la loro solidarietà, e ammirava la loro libertà; però li compativa, soli com’erano: bevevano soli, mangiavano soli, parlavano soli. E lei consigliava loro: «Non siate sciocchi. Unitevi. Noi, giù in Bolivia ci uniamo. Fosse anche solo per litigare». E come aveva ragione.
Perché poi, dico io, esistono i denti, se non per stare insieme nella bocca? E perché esistono le dita se non per stare insieme nella mano? Uniamoci: non solo per difendere il prezzo dei nostri prodotti, ma anche e soprattutto, per difendere il valore dei nostri diritti. Stanno lì belli uniti, quei pochi paesi che esercitano l’arroganza su tutti gli altri. La loro ricchezza si nutre di povertà e la loro arroganza si nutre di paura. Proprio da poco, per esempio, l’Europa ha approvato la legge che converte gli immigrati in criminali. Paradosso dei paradossi: l’Europa, che per secoli ha invaso il mondo, sbatte le porte in faccia a coloro che sono stati invasi quando questi gli ricambiano la visita. Questa legge è stata promulgata con una spaventosa impunità che risulterebbe inspiegabile se non fossimo abituati a venire mangiati e a vivere con la paura. Paura di vivere, paura di dire, paura di essere. Questa nostra regione è parte di un’America latina che induce il divorzio delle sue parti, l’odio reciproco e l’ignoranza reciproca. Tuttavia, solo uniti saremo capaci di scoprire ciò che possiamo essere, contro una tradizione che ci ha ammaestrati alla paura, alla rassegnazione, alla solitudine e che ogni giorno ci insegna a disamarci, a sputarci nello specchio, a imitare invece di creare.

*** Durante tutta la prima metà dell’Ottocento, un venezuelano di nome Simón Rodríguez percorreva i sentieri della nostra America in groppa a un mulo, sfidando i nuovi signori del potere: «Voi – gridava don Simón – voi che imitate tanto gli europei, perché non ne imitate la caratteristica più importante, che è l’originalità?». Paradossalmente, nessuno ascoltava quest’uomo che tanto meritava di essere ascoltato e lo chiamavano loco perché aveva il buon senso di credere che dobbiamo pensare con la nostra testa, perché aveva il buon senso di proporre un’educazione per tutti e un’America di tutti, e diceva: «a chi nulla sa, chiunque lo inganna, e a chi nulla ha, chiunque lo compra», e perché aveva il buon senso di avere dubbi sull’indipendenza dei nostri paesi appena nati: «Non siamo padroni di noi stessi, siamo indipendenti, ma non liberi».

*** Quindici anni dopo la morte del matto Rodríguez, il Paraguay fu sterminato. L’unico paese latino -americano davvero libero fu paradossalmente assassinato in nome della libertà. Il Paraguay non era intrappolato nella morsa del debito estero perché non doveva un centesimo a nessuno, e non praticava la menzogna del libero commercio che imponeva e impone un’economia d’importazione e una cultura dell’imposizione. Paradossalmente, al termine di 5 anni di guerra feroce, dopo tanta morte, le origini perdurano. Secondo la nostra tradizione i paraguaiani sarebbero nati dalla lingua che dà loro il nome; e tra le rovine fumanti, quella lingua sacra sopravvisse.
E in guaraní ancora parlano i paraguaiani nel momento della verità, che è il momento dell’amore e dell’umore. In guaraní, ñe’è significa parola ma anche anima. Chi non è di parola, tradisce l’anima. Se ti do la mia parola, mi do.

*** Un secolo dopo la guerra del Paraguay, un presidente del Cile diede la sua parola, e si diede. Gli aerei sputavano bombe sul palazzo del governo, mitragliato intanto anche dalle truppe di terra. Lui aveva detto: «Io da qui non esco vivo». È una frase frequente nella storia latino-americana. È stata pronunciata da molti presidenti che poi ne sono usciti vivi, e hanno continuato a pronunciarla. Quel proiettile, però, non mentì. Il proiettile di Salvador Allende non mentì. Paradossalmente, una delle strade principali di Santiago del Cile ancora si chiama 11 Settembre, ma non si chiama così per le vittime delle Torri Gemelle di New York. No. Si chiama così in omaggio ai boia della democrazia del Cile. Con tutto il rispetto per quel paese che amo, mi azzardo a fare una domanda, per puro buon senso: Non sarebbe il caso di cambiarle nome? Non sarebbe ora di chiamarla via Salvador Allende, in omaggio alla dignità della democrazia e alla dignità della parola?
E superando la cordillera, mi chiedo: perché mai il Che Guevara, l’argentino più famoso di tutti i tempi, il più universale dei latino-americani ha l’abitudine di continuare a nascere? Paradossalmente, più lo manipolano, più lo tradiscono, più lui continua a nascere. È il più nascituro di tutti gli uomini. E mi chiedo: non sarà forse perché diceva quello che pensava e faceva quello che diceva? Non sarà per questo che è tuttora così straordinario, in questo mondo dove le parole e i fatti si incontrano molto di rado, e quando si incontrano non si salutano perché non si riconoscono?

*** (…) Voglio terminare questo viaggio per le terre della regione ricordando un uomo che come me è nato in questi luoghi. Paradossalmente lui, morto ormai un secolo e mezzo fa, è ancora il mio compatriota più pericoloso. Così pericoloso che la dittatura militare dell’Uruguay – non avendo trovato una sua sola frase non sovversiva – dovette decorare con date e nomi di battaglia il mausoleo eretto per in offesa alla sua memoria. A lui che non volle accettare che la nostra patria cadesse a pezzi; a lui che non volle accettare, che l’indipendenza dell’America fosse un’imboscata tesa ai suoi figli più poveri, a lui che fu il vero primo cittadino onorario della regione, dedico questo riconoscimento che ricevo in suo onore.
E concludo con le parole che gli scrissi qualche tempo fa: 1820, Paso del Boquerón. Senza nemmeno voltarsi indietro, lei sprofonda nell’esilio. Lo vedo, l’ho davanti agli occhi: il Paraná scorre pigro come un lucertolone e laggiù il suo fiammante poncio cencioso si allontana al trotto, perdendosi tra le fronde. Lei non si è congedato dalla sua terra. La terra non lo crederebbe. Forse, lei, don José, nemmeno sa che sta partendo per sempre. Il paesaggio si ingrigisce. Lei parte, vinto, e la sua terra rimane senza fiato. Le restituiranno il respiro i figli che le nasceranno, gli amanti che le toccheranno? Coloro che sorgeranno da questa terra, coloro che vi entreranno, saranno degni di una così profonda tristezza? La sua terra. Nostra terra del sud. Questa terra avrà molto bisogno di lei, don José. Quando gli avidi la disprezzeranno e la umilieranno, quando gli stolti la renderanno muta o sterile, lei le sarà utile. Perché lei, don José Artigas, generale dei semplici, è la migliore parola che la nostra terra ha pronunciato.

(*) Discorso di ringraziamento al titolo di Primo Cittadino Illustre del Mercosur. 3 luglio 2008 Montevideo.

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