Siria e Venezuela, similitudini che suscitano pericoli e domande

Sergio Rodriguez Gelfenstein, Resumen Latinoamericano

https://aurorasito.wordpress.com

A chiunque sia interessato all’argomento e abbia il tempo di investigarvi, consiglio di leggere i media seri e decenti rimasti dal gennaio 2011, quando iniziò la cosiddetta “primavera araba”.

Per coincidenza, ero in Algeria, invitato dall’Accademia diplomatica del Paese per tenere conferenze sull’America Latina, sperimentando il fenomeno alla sua nascita, soprattutto quando incontrai un deputato colombiano che era ad Algeri e doveva recarsi in Tunisia proprio il 14 gennaio, quando il presidente autoritario del Paese, Abidin Ben Ali si dimise. Consigliammo al parlamentare del Paese confinante d’interrompere il viaggio e tornare a Bogotà prima di rischiare, dopo aver verificato cosa significasse l’inizio delle rivolte.

La verità è che la “primavera araba” coinvolse circa 20 Paesi della regione, attorno ai quali la visione della stampa e dell’opinione pubblica occidentali si costruì basandosi su vicinanza, lealtà e subordinazione dei governi a Stati Uniti ed Europa. Così, mentre in Arabia Saudita, Quwayt, Bahrayn, Emirati Arabi, Qatar e Giordania, tra gli altri, c’erano rivolte per protestare contro le condizioni di vita misere che i governi dovevano risolvere; in Libia, Siria e Algeria ci furono rivoluzioni democratiche contro governi autoritari e repressivi che dovevano essere rovesciati.

Così fecero in Libia, la fine è nota: la scomparsa di uno Stato, oggi “controllato” da tribù e terroristi dalle diverse pellicce che lottano per impossessarsi del petrolio e della più grande riserva idrica del Nord Africa. In Siria non ci riuscirono, bisogna dire che nel primo caso Russia e Cina lasciarono che Stati Uniti e NATO agissero, indipendentemente dal destino di quel popolo e di quel Paese, peccando di ingenuità od omissione. Per quanto riguarda la Siria, l’umanità è grata per non aver permesso alle forze coloniali e imperialiste di agire nello stesso modo.

Ma tornando all’argomento, ricordo che in Siria tutto iniziò con marce pacifiche che chiedevano democrazia che ben presto divennero violente azioni di gruppi radicali, avviando la creazione di un’”opposizione moderata” che non poté resistere alla competizione per la distribuzione delle risorse provenienti dall’occidente e dalle monarchie sunnite, destinandole ad al-Qaida e Stato islamico per occupare territori e scatenare odio e furia contro i principi base di ogni civiltà: cristiana e musulmana. Infine, dopo una breve e accelerata virata, i cortei pacifici dell’opposizione divennero gruppi terroristici che minacciavano la stabilità globale. Tuttavia, gli Stati Uniti raggiunsero l’obiettivo creando taliban ed al-Qaida per espellere l’Unione Sovietica dall’Afghanistan, e lo Stato islamico per destabilizzare il Medio Oriente, occupare la Siria e minacciare d’invasione l’Iran. Le tre organizzazioni “sfuggirono di mano” e oggi sono costretti a una grande propaganda per dimostrare che le combattono, quando è dimostrato che gli USA, in alleanza con Israele e le monarchie sunnite, li armano, supportano, finanziano ed addestrano.

Qualcuno potrebbe pensare che sia una contraddizione infondata, ma le azioni degli Stati Uniti contro il terrorismo non sono decisive, ma solo il minimo necessario per dimostrare una presunta volontà di affrontarlo.

A mostrare una realtà diversa sono i media e gli specialisti nella costruzione di scenari “post-verità”. In ogni caso, lo scopo degli USA nel generare conflitti che ne legittimino la presenza militare e creino le condizioni per l’intervento negli affari interni dei Paesi che disobbediscono al mandato imperiale, è stato ampiamente raggiunto.

Tale riflessione mi sovviene analizzando la situazione in Venezuela, inevitabile dopo aver guardato lo specchio siriano: marce di dimostranti per la democrazia che diventano violente, inizialmente focalizzate ma che si generalizzano, che porteranno inevitabilmente a un conflitto di proporzioni superiori, forse simili a quelle della Siria.

L’Arabia Saudita, che con la Colombia recitano il ruolo di supporto alle basi militari statunitensi nelle rispettive regioni (mentre le organizzazioni internazionali “voltano le spalle” alle loro gravi violazioni dei diritti umani), hanno incubato eserciti terroristici per attaccare un altro Paese. Le organizzazioni regionali (Lega araba e Consiglio di cooperazione del Golfo) da un lato e OSA dall’altro, hanno fornito le basi diplomatiche per legalizzare tali azioni. I governi reazionari feudali (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Quwayt e Turchia) sostengono la ribellione in Medio Oriente e le amministrazioni neoliberali dell’America Latina (Messico, Colombia, Cile, Perù, Argentina, Panama e Brasile) fanno lo stesso contro il Venezuela. Cos’hanno in comune? La vergognosa subordinazione agli Stati Uniti, che allo stesso tempo gli permette ogni oltraggio contro i popoli: violazione delle costituzioni e della democrazia che essi stessi hanno inventato, dei diritti umani alleandosi col narcotraffico, applicazione a tutti i costi dei modelli neoliberali, repressione dei popoli; tutto ciò non è noto perché, ancora una volta, i media hanno il compito di nasconderlo.

Se seguiamo lo sviluppo delle azioni in Siria e proviamo a proiettarle in Venezuela, dovremmo dire che sembra che la violenza sia stata instillata come pratica politica che, come mostra il dramma siriano, si sa quando inizia, ma non quando finisce. In tale scenario, i primi cento morti sono noti per nome, quando si arriva al migliaio, o se ne contano a decine, raggiungendo diecimila, centomila o più, a nessuno importa delle cifre esatte, solo il numero degli zeri interessa l’informazione che non interessa più a nessuno. In Siria, secondo i media, sarebbero 350-400mila morti. Con tale logica, i primi “esiliati” che arrivano vengono ricevuti come eroi nei Paesi limitrofi che sostengono le violenze, ma poi, quando una marea incontrollabile minaccia anche di danneggiare la sicurezza nazionale e l’integrità di ogni Paese, la questione diventa più complessa.

Nel nostro ambiente, mi chiedo cosa succederebbe se i 6 milioni di colombiani che vivono in Venezuela tornassero nel proprio Paese o se Cile, Panama, Argentina e Perù, nominandone alcuni, affrontassero forti mutazioni d’identità da parte di alcune decine di migliaia di venezuelani che arrivano nelle loro città, o ne ricevessero centinaia di migliaia generando influenze di ogni tipo nelle proprie società e mercati.

E cosa succederebbe se in Venezuela ci fosse un cambio di governo violento, che senza esitazione iniziasse a sviluppare misure neoliberali, che indubbiamente sarebbero contrastate dal popolo o dalla gran parte che ha visto la propria vita cambiata negli ultimi anni; ci chiediamo, quel governo avrà la forza di ordinare la repressione? Durerà più di un anno come Temer, che barcolla solo dodici mesi dopo aver illegalmente preso il potere? E tutto questo nel Paese che ha le maggiori riserve di petrolio al mondo? Cosa accadrebbe al mercato dell’energia?

Qualcuno si chiese se le forze armate venezuelane, in questo scenario, di nuovo reprimerebbero il popolo come in passato e come recentemente è successo in Brasile.

Oppure prendiamo lo scenario siriano e lo passiamo qui: gli Stati Uniti, col sostegno dell’estrema destra, sono riusciti a creare un esercito paramilitare in Colombia, che proverà a prendere parte del territorio del Venezuela per creare uno Stato paramilitare che, naturalmente, “sfuggirà di mano agli Stati Uniti”. Anche se con questo la potenza nordamericano avrà raggiunto lo stesso obiettivo del Medio Oriente, generando instabilità per legittimare gli interventi, in questo caso dovrà valutare che, nonostante l’annuncio della lotta al terrorismo, tali azioni minaccerebbero la stabilità politica e sociale di Colombia ed America Latina, tornando a un passato che si credeva sepolto per sempre.

Cosa farebbero FARC ed ELN in queste condizioni? Cosa farebbe la sinistra latino-americana di fronte tale situazione quando gli avranno consegnato su un piatto d’argento lo strumento dell’unità e della lotta continentale? Mi chiedo se non vedremo, nel migliore dei casi, lo slogan che mobilitò milioni di persone nel secolo scorso nei Paesi della regione, dal Rio Grande alla Patagonia: “Yanquis, a casa!” e sarà bello bruciare di nuovo le bandiere statunitensi. Il peggio, non voglio neanche immaginarlo, ritorneremmo a cinquanta anni fa e dovremo ricominciare da capo, ma la pazienza dei popoli è infinita, non so per il capitale che vedrebbe diminuire i profitti.

E tutto questo, perché gli Stati Uniti non vogliono o non possono indurre l’opposizione venezuelana ad accettare regole democratiche, attendere le elezioni del 2018 e lasciare che il popolo decida il proprio futuro. C’è poco da dire, molte vite potrebbero essere salvate e ci sarebbe molto da guadagnare.

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