Venezuela: torna la minaccia dell’embargo

http://misionverdad.com

Dagli USA non solo si prendono decisioni riguardanti la destabilizzazione del paese mediante la violenza politica, ma anche per l’economia ed, in particolare, contro la sua industria più importante: PDVSA.

Dallo scorso anno, alcuni media con sede negli USA stanno annunciando che il governo di Donald Trump intende imporre sanzioni a PDVSA, in modo più aggressivo, con particolare riferimento a non comprare petrolio venezuelano da parte di quel paese.

In realtà, un embargo totale sarebbe uno di quelle bastonate che la Casa Bianca ritiene di poter assestare per influenzare la caduta del Governo bolivariano, poiché gli USA sono uno dei più grandi acquirenti di greggio venezuelano. Questo piano è conosciuto come l’ “opzione nucleare”, forse a causa delle terribili conseguenze immediate che potrebbero derivare da questa misura per l’economia e le finanze del Venezuela, ma soprattutto per la popolazione del paese.

Tuttavia, dato che gli operatori politici USA sanno anche in anticipo quello che potrebbe accadere a livello sociale, dato che il governo di Nicolas Maduro potrebbe capitalizzare a favore della coesione nazionale un fattore di aggressione come lo sarebbe un embargo petrolifero, hanno altri elemnti sul tavolo che intendono utilizzare.

Uno dei siti web che più accompagna il racconto dell’establishment del Partito Democratico a Washington DC, McClatchy, ha informato, il recente 24 agosto, attraverso anonimi funzionari della Casa Bianca che “l’amministrazione (lavora) per sanzioni più chirurgiche che blocchino la vendita di petrolio e di prodotti di trasformazione del petrolio da parte di società USA al Venezuela, ostacolando così l’industria petrolifera senza impattare direttamente sul popolo venezuelano”.

Ciò al fine di “massimizzare la pressione” sul presidente Nicolas Maduro, secondo le parole di un funzionario citato ma non menzionato da parte del media della capitale. Proprio in un momento in cui il governo venezuelano cerca di cambiare la situazione dell’economia locale nell’ambito di una serie di misure che proteggano i salari dei lavoratori e che, allo steso tempo, punta a riorganizzare i fattori (esterni ed interni) che sono alla base dell’instabilità economica.

I dettagli specifici

Secondo l’informe di McClatchy, il governo USA mira a vietare la vendita da parte delle società USA al Venezuela di circa 3,5 milioni di barili di petrolio e di altri prodotti raffinati come la nafta pesante, utilizzata da PDVSA e dai suoi partner in diverse società congiunte nella Fascia Petrolifera dell’Orinoco Hugo Chavez, la più grande regione produttrice di petrolio del paese. La nafta serve a diluire gran parte della produzione di petrolio extra pesante e convertirla in gradi esportabili.

In una nota di Reuters, del luglio 2017, si riferisce che le importazioni venezuelane di nafta pesante USA sono state una media di 33 mila barili al giorno, l’anno scorso, a fronte di 25 mila barili nel 2016.

Dal 2006 si importa dagli USA al Venezuela petrolio leggero, in particolare per processare nella sua raffineria Isola 335 mila barili al giorno a Curacao. Una parte viene miscelata per produrre greggio esportabile. Dopo l’importazione di 30 mila barili al giorno l’anno scorso, gli acquisti sono scesi a 19 mila barili al giorno, nel 2017, a causa di ritardi nei pagamenti, derivanti dal blocco finanziario attraverso un Ordine Esecutivo firmato da Trump, ed il basso rendimento produttivo dell’installazione.

Inoltre, nel 2017 il Venezuela ha dovuto importare combustibile dagli USA per compensare la diminuzione della produzione locale. Ha comprato 48 mila barili al giorno di benzina, distillati e componenti, solo che nei primi quattro mesi del 2017. Nel 2018 i livelli delle importazioni sono diminuiti a causa del rilancio del settore petrolifero.

Danni e rischi

Ciò che ha impedito all’Amministrazione Trump, secondo McClatchy, intraprendere ulteriori azioni contro il paese sono le conseguenze estreme che un embargo potrebbe comportare nella popolazione venezuelana, oltre a mettere a rischio gli affari di imprenditori energetici USA e influenzare il consumatore medio USA, che già di per sé vede come, ogni volta, s’incrementa la benzina.

Ma le pressioni da Miami e di altre regioni di quel paese sotto la lobby interventista alla Casa Bianca in relazione al tema Venezuela hanno fatto riprendere i piani delle sanzioni, che dovrebbero presentare nei prossimi tre mesi, secondo la pubblicazione.

Pertanto, questo pacchetto di prossime sanzioni allertate dai media USA deve essere visto come una immediata risposta al piano del Presidente della Repubblica, che ha preso come misura fondamentale il cambio del modello di riferimento per l’economia venezuelana (dal petrodollaro alla criptodivisa Petro).

Tuttavia, già è in corso un quasi embargo, da parte USA, al Venezuela, poiché è diminuita, da settembre 2017, la vendita di petrolio venezuelano a compagnie USA. Secondo il portale Banca e Affari, le esportazioni di petrolio venezuelano verso gli USA, tra gennaio e maggio 2018, hanno visto un calo del 48% (pari a 58,7 milioni di barili), rispetto allo stesso periodo del 2017, in base alle cifre del Dipartimento del Commercio USA.

Secondo la stessa fonte, tra gennaio e maggio gli USA hanno pagato, per la vendita di greggio, 30% in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, per un totale di 3536,4 milioni di $ al Venezuela (a 60,2 $ al barile) mentre nel 2017 il costo medio del barile era di 45,1 $.

Tutto ciò equivale ad una perdita di vendita di crudo venezuelano di 8235,8 milioni di $, il dato più basso degli ultimi nove anni.

Inoltre, come abbiamo già risposto in Misión Verdad, è una menzogna che gli USA non abbiano bisogno di petrolio da altri paesi. Questo è il motivo per cui aziende come ExxonMobil continuano ad espandersi nel mercato globale dell’energia, con il governo ed il Congresso USA come supporto principale per il suo business.

La fabbricazione di una crisi

Attivare un embargo totale contro il Venezuela cerca di far sì che alcuni fattori economici producano un rivolgimento sociale a livello nazionale, ma questo non è il vero motivo per cui l’establishment USA non vuole applicare una misura di quel livello, anche quando il Governo bolivariano abbia come evitare questa proibizione verso altre regioni e attori collegati, come la Cina (il più grande importatore di energia fossile al mondo).

Piuttosto, un embargo evidenzierebbe la cricca che fa pressione per una misura di questo tipo, in particolare nel sud della Florida (dove vive la maggior parte dei venezuelani “in esilio” in quel paese), ed impegna politicamente gli USA davanti all’opinione pubblica nella regione latino-caraibica in relazione al Venezuela.

D’altra parte, oltre ad abbassare il volume di valuta estera per l’importazione di beni di prima necessità in Venezuela (il 90% di valute estere ottenute entrano attraverso le esportazioni di petrolio), l’embargo anche danneggerebbe direttamente l’industria petrolifera venezuelana, poiché un terzo del greggio nazionale viene raffinato in installazioni USA.

Ma ciò preoccuperebbe anche gli impresari raffinatori della costa del Golfo, poiché le loro installazioni sono, per maggior parte, adeguate, tecnologicamente ed industrialmente, a processare petrolio pesante ed extra pesante proprio il tipo di greggio che il Venezuela ha nella Fascia dell’Orinoco.

Così, un embargo di questo tipo avrebbe una doppia ripercussione, immediata ed a medio termine, sia in Venezuela che negli USA: una potenziale, anche se improbabile, “crisi umanitaria” in senso stretto qui, implicherebbe un aumento, per nulla comodo, del combustibile là.

Le alleanze che il governo di Nicolas Maduro rafforza con Cina e Russia potrebbero modificare uno scenario di “crisi umanitaria”, in caso di embargo petrolifero USA, poiché i prodotti raffinati di cui avrebbero bisogno le diverse installazioni PDVSA ed i suoi partner nella Fascia Hugo Chavez possono trovarsi nei mercati corrispondenti agli alleati eurasiatici.

Dobbiamo tener conto che il Venezuela conterebbe su circa 28 miliardi di $ (circa 60 $ al barile) per i 1,3 milioni di barili prodotti al giorno, secondo dati dell’OPEC per il 2017. Di questi, circa un 12 miliardi di $ provengono da aziende USA, che, di solito, pagano in contanti.

Il deficit di tale quantità di denaro sarebbe il finanziamento di una “crisi” a cui il Governo bolivariano sta già cercando di porre rimedio attraverso le note misure di riconversione economica, ma il Pentagono ora si augura che tali conseguenze raggiungono un punto di ebollizione necessario per giustificare tanta coordinazione a livello militare con i suoi partner nella regione attraverso giochi di guerra e l’ultimo giro di James Mattis, Segretario alla Difesa USA.

L’embargo darebbe combustibile, per sovrastimare, ulteriormente, la propaganda umanitaria contro il Venezuela, per proiettare come “urgente” un’intervento di queste caratteristiche.

Ma  l’informe di McClatchy, si conclude che gli ufficiali del Pentagono ed i burocrati dell’establishment fanno anche pressioni affinché componenti militari della Forza Armata Nazionale Bolivariana prendano la decisione di agire contro il proprio governo, a ragione di questa crisi enunciata. Un piano che è fallito ma non smette di essere pericoloso, il cui filo più visibile è stato il fallito attentato contro il Presidente Nicolás Maduro.


Venezuela: vuelve la amenaza del embargo

Desde Estados Unidos no sólo se toman decisiones con respecto a la desestabilización del país por vía de la violencia política, sino también de la economía y, en específico, contra su industria más importante: PDVSA.

Desde el año pasado algunos medios radicados en Estados Unidos han venido anunciando que el gobierno de Donald Trump pretende imponer sanciones a PDVSA de manera más agresiva, refiriéndose específicamente a la no compra del petróleo venezolano por parte de ese país.

De hecho, un embargo total sería uno de esos estacazos que la Casa Blanca cree poder asestar para influenciar la caída del Gobierno Bolivariano, pues Estados Unidos es uno de los mayores compradores de crudo venezolano. A este plan se le conoce como la “opción nuclear”, tal vez debido a las terribles consecuencias inmediatas que podría acarrear esta medida en la economía y las finanzas de Venezuela, pero sobre todo en la población del país.

Sin embargo, en vista de que los operadores políticos estadounidenses también conocen de antemano lo que podría suceder a nivel social, en vista de que el gobierno de Nicolás Maduro podría capitalizar en favor de la cohesión nacional un factor de agresión como lo sería un embargo petrolero, tienen otros ítems en la mesa que piensan utilizar.

Uno de los medios web que más acompaña el relato del establishment del Partido Demócrata en Washington D.C., McClatchy, reseñó el reciente 24 de agosto, a través de funcionarios anónimos de la Casa Blanca, que “la administración (trabaja) con sanciones más quirúrgicas que bloqueen la venta de petróleo y de productos de procesamiento de petróleo por parte de las compañías estadounidenses a Venezuela, para así entorpecer la industria petrolera sin impactar directamente en el pueblo venezolano”.

Esto con el objeto de “maximizar la presión” en el presidente Nicolás Maduro, según las palabras de un funcionario citado mas no referido por parte del medio capitalino. Justo en un momento en el que el gobierno venezolano busca cambiar la situación de la economía local bajo un conjunto de medidas que resguardan el salario de los trabajadores y que, asimismo, apunta a reordenar los factores (externos e internos) que apuntalan la inestabilidad económica.

Los detalles específicos

Según el reporte de McClatchy, el gobierno de los Estados Unidos busca prohibir la venta por parte de las compañías estadounidenses a Venezuela de unos 3.5 millones de barriles de petróleo y otros productos refinados como la nafta pesada, usada por PDVSA y sus socios en varias empresas conjuntas en la Faja Petrolífera del Orinoco Hugo Chávez, la mayor región productora de crudo del país. La nafta sirve para diluir una gran parte de la producción de petróleo extrapesado y convertirla en grados exportables.

En una nota de Reuters de julio 2017, se refiere que las importaciones venezolanas de nafta pesada de Estados Unidos promediaron 33 mil barriles por día el año pasado, frente a los 25 mil barriles de 2016.

Desde 2006 se importa desde Estados Unidos a Venezuela petróleo ligero, específicamente para procesar en su refinería Isla de 335 mil barriles por día en Curazao. Una parte se mezcla para producir crudos exportables. Después de importar 30 mil barriles por día el año pasado, las compras se han reducido a 19 mil barriles por día en 2017 debido a retrasos en los pagos, producto del bloqueo financiero a través de una Orden Ejecutiva firmada por Trump, y el bajo rendimiento productivo de la instalación.

También, en el año 2017 Venezuela tuvo que importar combustible desde Estados Unidos para compensar la disminución de la producción local. Compró 48 mil barriles por día de gasolina, destilados y componentes, nada más en los primeros cuatro meses de 2017. En 2018 los niveles de importación bajaron debido al relanzamiento de la industria petrolera.

Afectaciones y riesgos

Lo que ha impedido a la Administración Trump, según McClatchy, tomar nuevas acciones contra el país son las extremas consecuencias que un embargo podría provocar en la población venezolana, además de poner en riesgo los negocios de empresarios energéticos estadounidenses y afectar al consumidor promedio en los Estados Unidos, que ya de por sí ve cómo se incrementa cada vez la gasolina.

Pero las presiones desde Miami y otras regiones de ese país bajo el lobby intervencionista a la Casa Blanca con relación al tema Venezuela han hecho retomar los planes de sanciones, que presentarían en los próximos tres meses, según la publicación.

Por ello, este paquete de próximas sanciones avisadas por medios estadounidenses debe verse como una respuesta inmediata al plan del Presidente de la República, que tomó como medida fundamental el cambio de patrón de referencia a la economía venezolana (del petrodólar a la criptodivisa Petro).

Sin embargo, ya se encuentra en proceso un cuasi embargo por parte de Estados Unidos a Venezuela, puesto que ha disminuido, desde septiembre de 2017, la venta de petróleo venezolano a compañías estadounidenses. Según el portal Banca y Negocios, las exportaciones de petróleo venezolano hacia Estados Unidos entre enero y mayo de 2018 registraron una caída de 48% (equivalente a 58,7 millones de barriles), si se comparan con el mismo período de 2017, según las cifras del Departamento de Comercio de Estados Unidos.

Acorde a esa misma fuente, entre enero y mayo Estados Unidos pagó por la venta de crudo 30% menos que en el mismo periodo del año anterior, para un total de 3 mil 536.4 millones de dólares a Venezuela (a 60.2 dólares el barril), mientras que en 2017 el costo promedio del barril estaba en 45.1 dólares.

Todo ello equivale a una pérdida por concepto de venta de crudo venezolano de 8 mil 235.8 millones dólares, la cifra más baja en los últimos nueve años.

Además, como ya respondimos en Misión Verdad, es una falacia que Estados Unidos no necesite el petróleo de otros países. Por ello empresas como ExxonMobil siguen expandiéndose en el mercado global energético, con el gobierno y el Congreso de los Estados Unidos como principal apoyo de su negocio.

La fabricación de una crisis

Activar un embargo total contra Venezuela busca que algunos factores económicos produzcan una conmoción social a nivel nacional, pero este no es el verdadero motivo por el que el establishment estadounidense no desea aplicar una medida de ese nivel, aun cuando el Gobierno Bolivariano tenga cómo sortear esa prohibición hacia otras regiones y actores relacionados, como China (el mayor importador de energía fósil en el mundo).

Más bien, un embargo pondría en evidencia a la camarilla que presiona por una medida de este tipo, sobre todo en el sur de Florida (donde vive la mayor cantidad de venezolanos “en el exilio” en ese país), y compromete políticamente a Estados Unidos ante la opinión pública en la región latinocaribeña con relación a Venezuela.

Por otro lado, más allá de que bajaría el volumen de divisas para la importación de bienes básicos en Venezuela (un 90% de las divisas extranjeras habidas entran por medio de la exportación petrolera), el embargo también afectaría directamente a la industria petrolera venezolana, pues un tercio del crudo nacional se refina en instalaciones estadounidenses.

Pero ello preocuparía también a los empresarios refinadores en la costa del golfo, pues sus instalaciones están, en su mayoría, adecuadas tecnológica e industrialmente para procesar petróleo pesado y extrapesado, justamente los tipos de crudo con que Venezuela cuenta en la Faja del Orinoco.

Así, un embargo de este tipo tendría una doble repercusión inmediata y a mediano plazo, tanto en Venezuela como en Estados Unidos: en una potencial aunque improbable “crisis humanitaria” en estricto sentido aquí, implicaría un alza nada cómoda en los combustibles, allá.

Las alianzas que el gobierno de Nicolás Maduro fortalece con China y Rusia podrían enmendar un escenario de “crisis humanitaria” en caso de embargo petrolero estadounidense, pues los productos refinados que necesitarían las distintas instalaciones de PDVSA y sus socios en la Faja Hugo Chávez pueden encontrarse en los mercados correspondientes a los aliados euroasiáticos.

Hay que tomar en cuenta que Venezuela contaría con unos 28 mil millones de dólares (a unos 60 dólares por barril), para los 1.3 millones de barriles producidos al día, según datos de la OPEP para 2017. De ellos, casi unos 12 mil millones de dólares provienen de firmas estadounidenses, que usualmente pagan en efectivo.

El déficit de tal cantidad de dinero sería el financiamiento de una “crisis” que el Gobierno Bolivariano ya está intentado paliar a través de las conocidas medidas de reconversión económica, pero el Pentágono ya espera que tales consecuencias lleguen a un punto de ebullición necesario para justificar tanta coordinación a nivel militar con sus socios en la región, a través de juegos de guerra y la última gira de James Mattis, secretario de Defensa estadounidense.

El embargo daría combustible para sobredimensionar, aún más, la propaganda humanitaria contra Venezuela, a los fines de proyectar como “urgente” una intervención de estas características.

Pero, finaliza el reporte de McClatchy, los oficiales del Pentágono y burócratas del establishment también presionan por que componentes militares de la Fuerza Armada Nacional Bolivariana tomen acciones contra su propio gobierno, a raíz de esta enunciada crisis. Un plan que ha fracasado pero que no deja de ser peligroso, cuyo hilo más visible fue el atentado frustrado contra el presidente Nicolás Maduro.

Share Button

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.