17 dicembre 2014

Cuba ricorda oggi il ritorno, il 17 dicembre 2014, dei cinque combattenti antiterroristi imprigionati ingiustamente nelle carceri degli Stati Uniti, come aveva predetto il leader Fidel Castro quando disse in un discorso memorabile: ¡Volverán!


In una tribuna aperta della Rivoluzione, effettuata il 23 giugno 2001, nel municipio Cotorro, di La Habana, Fidel Castro pronunciò la frase allegorica che si è concretizzata dopo di più di 10 anni di una grande campagna di solidarietà dentro e fuori dell’isola per la causa di I Cinque, come sono conosciuti a livello internazionale.

Fernando e René González, due dei combattenti antiterroristi, sono riusciti a ritornare in Patria rispettivamente in febbraio e marzo del 2014, mentre la liberazione di Gerardo Hernández, Ramón Labañino e Antonio Guerrero è avvenuta il 17 di dicembre di quell’anno grazie un accordo umanitario raggiunto tra i governi degli Stati Uniti e Cuba.

La comunità internazionale è venuta a conoscenza di tale decisione quel giorno dopo l’annuncio simultaneo degli allora presidenti di Cuba, Raúl Castro, e degli Stati Uniti, Barack Obama, in comunicati in cui esponevano anche il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra le due nazioni.

Durante i loro anni di reclusione negli Stati Uniti, condannati ad ingiuste e smisurate pene in giudizi manipolati, i prigionieri politici cubani hanno subito numerose violazioni dei diritti umani.

L’impedimento delle visite delle madri, delle mogli e dei figli; le dure punizioni; e i confinamento solitario in celle di punizione per lunghi periodi di tempo senza avere commesso alcuna mancanza alcuna, non sono riusciti a rompere la sua integrità psichica e fisica.

L’ingiustizia che circondava questo caso ha provocato indignazione e ha anche generato una grande ondata di sostegno internazionale, guidata da una massiccia campagna iniziata a Cuba per chiedere il ritorno dei propri figli.

L’ostinazione del governo statunitense di mantenere in prigione a questi uomini innocenti mentre assassini confessi come Luis Posada Carriles passeggiavano per le strade di quel paese, ha anche dimostrato la doppia morale di Washington riguardo al terrorismo.

Nel 2014 i Cinque hanno ricevuto il Premio Annuale per i diritti umani di Globale Exchange, nella categoria di Premio Selezionato dalla Gente.

Attualmente continuano a lottare per il loro paese, ma questa volta a Cuba, in settori per promuovere lo sviluppo della nazione o in aree necessarie per promuovere la divulgazione della realtà dell’isola di fronte alle forti campagne contro il suo processo rivoluzionario.

Traduzione: mac  www.prensa-latina.cu


René González: “È stato difficile lasciare il paese e passare per traditore”

 

26.02.14 – Ha iniziato la sua missione, che gli fu affidata dal governo cubano, rubando un aereo a Cuba. Fin dall’inizio fu un clandestino e neppure la sua famiglia sapeva che sarebbe volato a Miami per infiltrarsi nelle organizzazioni che cercavano di creare azioni aggressive contro il suo paese. Condannato a 15 anni, attualmente è l’unico dei Cinque che è stato liberato. Qui racconta la sua storia.

L’Avana – Mattina, in una casa de L’Avana, una città inondata da un gran numero di specialisti che partecipano al congresso Università 2014 e dagli editori invitati alla Fiera del Libro. Il tipo,  con una statura da giocatore di basket, che prima dell’intervista sta parlando con uno degli specialisti,  Pablo Gentili, il segretario esecutivo del Consiglio Latinoamericano di Scienze Sociali, appare tranquillo. E’  uno dei cinque cubani che furono processati negli Stati Uniti dopo essersi infiltrati a Miami per cercare informazioni sui gruppi violenti contrari al governo di Fidel Castro. René González è l’unico dei Cinque che attualmente si trovi in libertà. Gli altri continuano ad essere incarcerati(1)

–Mi piacerebbe una definizione dei Cinque Cubani, fatta direttamente da uno di loro.

–Prima di tutto, siamo cubani comuni. Siamo figli di un paese che, come noi, ha avuto molti figli. Siamo cresciuti sotto la minaccia del terrorismo, testimoni di come da fuori si cercava di imporre a Cuba  questa linea con azioni mortali e in maniera particolare da Miami. Abbiamo dovuto assistere a funerali  di compatrioti che sono stati assassinati dalle bande terroristiche che si sono stabilite a  Miami con l’appoggio del governo nordamericano. E, come cubani, ci è stato chiesto di infiltrarci in questi gruppi. Abbiamo detto di sì e l’abbiamo fatto. Come risultato di queste azioni, il governo nordamericano ci ha arrestato nel 1998 e ci ha sottomessi a un processo fraudolento. La natura di questo processo è quella che ha provocato che la nostra storia trascendesse e che già molte persone la conoscano in tutto il mondo. Fino ad oggi io sono l’unico ad essere tornato in libertà e i miei quattro fratelli continuano ad essere detenuti. Beh, direi che siamo semplicemente questo, siamo I Cinque.

–Come è stato l’inizio della missione da infiltrati? Il governo cubano vi ha chiesto o vi ha imposto di fare gli agenti?

–Me lo hanno chiesto. Questa non è una missione che si possa imporre. E non so cosa si potrebbe offrire in cambio. E’ una missione fatta di puro sacrificio. Quando me lo hanno chiesto, hanno insistito perché io ci  pensassi e mi hanno avvisato che sarebbe stata una missione rischiosa. Non ci pensai su molto e risposi di sì.

–Era  una missione rischiosa o suicida?

–Se tutto fosse andato per il verso giusto, ne sarei uscito illeso. Noi non abbiamo perso la vita, siamo stati incarcerati. Quando io parlo con i giovani di Cuba, glielo dico apertamente: “Questa è una missione alla quale, se non ve la sentite di affrontarne i rischi, non dovete rispondere di sì”. Io non credo che questo significhi un demerito per nessuno. Semplicemente si tratta di un tipo di missione che ha molti rischi e richiede delle caratteristiche che nessuno può immaginarsi nel momento in cui le viene proposta. Li puoi scoprire solo mentre stai agendo.

–Quali sono queste caratteristiche?

–Sono un tipo abbastanza aperto ed è difficile per me fingere, in generale. E non avrei mai pensato di riuscire a farlo, questa è stata la cosa per me più difficile. E lo è stato già a partire da quando ancora ero a Cuba. Io dico che forse è stato ancora più difficile qui che la, perché qui ho dovuto fingere di fronte ai miei fratelli, ai miei compagni, di fronte alla gente che mi apprezzava, che mi stimava. E, improvvisamente, dovetti andarmene, trasformandomi poco a poco in una persona diversa da quello che ero. Magari questo mi ha aiutato, perché un inizia a camminare, però lo fa, inizialmente, con difficoltà, con un po’ di dolore, perché non ti piace defraudare una persona che ti sta a cuore e che si fida di  te. Fu difficile dover lasciare il paese e apparire ai loro occhi come un traditore, come una persona che li  aveva abbandonati. Lo feci come lo avrebbe fatto qualsiasi altra persona, come un qualunque poliziotto che in un qualsiasi paese del mondo deve infiltrarsi nel mezzo di una banda di delinquenti, senza essere un criminale.  Per questo quando ci arrestarono mi sono sentito alleviato dal fatto di poter tornare ad essere me stesso.

–In cosa è consistita la finzione iniziale a  Cuba?

–Da essere un militante, mi sono convertito in una persona che inizia ad essere frustrata, disillusa. Però non ho perduto la stima dei miei compagni. Le persone generalmente sono generose e fanno fatica ad accettare il fatto che tu cambi molto. Questo è un istinto naturale. Considerarono che io continuavo ad essere una brava persona. Nel frattempo rinunziai alla mia carriera. Ero un pilota. Dato che passai a lavorare nel campo degli aerei da diporto, avevo comunque uno spazio per volare.

–La missione comprendeva anche il dover rubare un aereo e dirigersi in Florida?

–Sí. Erano tempi difficili. Nel 1989 e nel 1990, l’economia del paese iniziava a sentire gli effetti del crollo del blocco socialista. Ovviamente ne risentì anche il settore degli aerei da diporto e volare diventò sempre più difficile. Un fine settimana riuscii a lavorare come controllore di volo. Per una delle coincidenze del destino, fu un argentino che mi portò in quel luogo da dove saltavano i paracadutisti. Si chiama Santiago, un nipote del Che che era paracadutista. Beh, quel giorno rimasi solo nella torre. Mi accorsi quando si fermarono i voli, perché il vento non era dei migliori e non accompagnava nel modo giusto l’attività dei salti. Scesi dalla torre, salii sull’aereo e me lo portai via. Avevo ormai raggiunto il punto di non ritorno. Dovevo continuare. Una volta che passi questa linea, devi sperare di avere successo, perché altrimenti, o ti catturano o ti ammazzano. In realtà avevo pensato che in quello stesso fine settimana mi sarei portato via l’aereo la mattina seguente. Però quando loro mi dissero che avrebbero fermato i voli, ho insistito perché facessero rifornimento all’aereo. C’erano 400 litri e non potevano mettercene più.  Feci un calcolo mentale. Dissi a me stesso: “Bene, con questo quantitativo arrivo precisamente nei Cayos della Florida”. Ed effettivamente fu così, ci arrivai preciso, però ci arrivai.

–Quanto  margine le è rimasto, con quei 400 litri?

–Nessuno (René scoppia in una risata). Il volo durò un’ora e venti. Lo feci  come un professionista, anche se il decollo fu un po’ catastrofico, dato che portai via l’aereo dalla stessa rampa del parcheggio, senza allinearlo alla pista. L’aereo non era pronto per il volo. Dopo averlo fatto decollare, dovetti orientare tutti gli strumenti in due o tre minuti. Ricordo bene quando lasciai l’isola. Il cuore mi si strinse. Guardai dietro di me. Stavo lasciando tutto. Mia moglie, mia figlia… Però il pilota dentro di me s’impose. Mi portò via molto tempo il calcolo della potenza, come fare per andarmene nella maniera più rapida possibile da Cuba, senza consumare troppo combustibile e, successivamente, come ridurre la velocità per risparmiare altro combustibile. Poi dovetti salire e cercare un po’ di visibilità per trovare i Cayos della Florida. E così, alla fine del volo, dover decidere se lanciarmi o meno. Per un momento pensai che avrei dovuto lanciarmi in acqua perché non riuscivo a vedere i cayos.

–Paracadute o ammaraggio?

–Ammarare vicino a qualche barca.

–La sua età in quel momento?

–Avevo 34 anni.

–Ossia, aveva tre anni in meno del Trionfo della Rivoluzione Cubana, il 1° gennaio 1959.

–La mia fu una generazione che assorbì molto dalla rivoluzione. Io sono  nato a Chicago nel 1956. Mio padre entrò a far parte del Movimento 26 Luglio, di  Fidel Castro, a Chicago, quando Fidel era già nella sierra Maestra. Quando avvenne il tentativo d’invasione nella Baia dei Porci, nel 1961, i miei uscirono per le strade di Chicago a protestare e vennero aggrediti. Decisero così che il loro destino era verso Cuba e allora vennero qua con una delle ultime imbarcazioni che in quell’epoca collegavano New York a L’Avana. Io avevo cinque anni e ricordo solo qualcosa. In un’occasione, mia madre andò a fare una pratica per il viaggio verso Cuba e mi lasciò con alcuni amici o con una famiglia. A questa persona venne l’idea di mettermi una parrucca e ricordo mia madre che entrò in casa e si scandalizzò per il fatto che non mi riconosceva. Ricordo il viaggio che facemmo da Chicago fino a New York in automobile, alcuni luoghi dove ci fermammo a mangiare, come dormivamo, io e la mia mamma, nella parte posteriore dell’auto. E ricordo anche il viaggio in nave, qualche immagine dell’imbarcazione, della cucina, della piscina della nave, Guadalupe. A Cuba mio padre fu assunto a lavorare alla costruzione di una fabbrica. A quell’epoca Che Guevara era ministro dell’industria e si stavano costruendo molti conglomerati industriali per unificare le attività che erano sparse per il paese. E allora, il mio vecchio lavorò nella costruzione di una fabbrica di materie plastiche e ricordo di aver visto lì il Che e di avergli, casualmente un giorno, dato la mano. Avevo otto anni quando fu terminata la costruzione della fabbrica e il Che la inaugurò nel dicembre del 1963. Che Guevara era adorato da tutti noi. Quando terminò, passò tra la folla e la gente iniziò a salutarlo e io e mio fratello, che stavamo nella piattaforma opposta, chiedemmo permesso ai più anziani per poter andare a salutare il Che. Scendemmo ed entrammo in mezzo alla folla, arrivando nelle sue vicinanze e iniziammo a dirgli :“Che, Che”. Lui mi passò la mano sulla testa, mi dette la mano. E poi la dette a mio fratello. Questo non me lo sono mai  dimenticato.

–Torniamo al volo verso i cayos e l’obiettivo di atterrare vivo.

Dovevo andare verso Nord, però il vento era forte da sinistra, da nordovest. Sono uscito, ho volato con potenza massima per 5 o 6 muniti in maniera da allontanarmi rapidamente dalle coste di Cuba, molto  vicino all’acqua, a due o tre metri d’altezza e una volta   riuscito ad allontanarmi abbastanza, ho ridotto la potenza alla modalità economica per poter riuscire a volare per più tempo, più lontano. Mi sono mantenuto a questa velocità per un certo tempo, per evitare i radar dell’Isola e evitare l’intercettamento cubano, fino a che ho calcolato che mi sarei dovuto trovare vicino ai Cayos della Florida. Fu a quel punto che decisi di salire di quota, allontanandomi dall’acqua per cercare visibilità. A questo regime viaggiavo a circa 180 km/h. Iniziarono ad accendersi gli indicatori della riserva di combustibile. Questo tipo di aereo ha due serbatoi, uno in ogni ala e ognuno dei serbatoi ha un indicatore, che si attiva quando gli restano 75 galloni. Vidi delle barche. Decisi di sorvolarle. Se dopo l’ultima imbarcazione, contando 5 minuti non avessi visto terra, sarei tornato indietro e mi sarei lanciato a lato dell’ultima barca per farmi recuperare. Sorvolai la prima imbarcazione, la seconda, la terza e  iniziai a contare dissi: “Bene, non ce ne sono altre, cinque minuti e, se non vedo terra, ritorno e mi tiro a lato dell’imbarcazione”. Gli volai sopra  e iniziai a controllare l’orologio. Un minuto, due, tre, quattro, cinque…e vidi terra. Una cosa incredibile. Pensavo di andare alla base di Boca Chica, che è la base navale dei nordamericani nel  Key West. In quel momento mi sentivo come Cristoforo Colombo. Dissi: “Bene, per lo meno se mi lancio da qualche parte sono vicino alla  terra e non sarà difficile arrivare alla terraferma”. Quando iniziò a migliorare la visibilità, ossia ad avvicinarmi alla terra, la prima cosa che mi trovai davanti era la base di  Boca Chica, in pratica tutto riuscì perfettamente. Atterrai. Fu un arrivo abbastanza brusco. Ero molto teso. L’aereo saltò varie volte. Ricordo che quando arrestai l’aereo, rimasi nel mezzo della pista con il motore spento e presi il termos di caffè che portavo con me, lo aprii, mi servii un caffè, me lo bevvi e lanciai il termos dietro di me. Cadde da qualche parte lì dietro. Mi buttai all’indietro e iniziai a rilassarmi, fino a che arrivarono le autorità. C’è chi dice che tutti gli atterraggi dai quali uno possa uscire camminando con le sue gambe sono dei buoni atterraggi.  Bene, allora quello fu il mio caso. Le pratiche furono rapide, perché io ero nato negli Stati Uniti e presentai il mio certificato di nascita. Loro non sapevano in realtà cosa fare con me, perché normalmente l’immigrante lo portano ad un centro di detenzione per l’immigrazione. Però alla fine localizzarono mia nonna, fu realizzata una pratica piuttosto personale, con un signore di origine cubana che viveva lì a Cayo Hueso e fu lui ad accogliermi quella notte, mentre il giorno successivo mia nonna pagò il trasporto e me ne andai a Sarasota con lei.

–Senza nessun sospetto da parte loro?

–Mio padre non era una personalità pubblica. Uscii dalla base e nel maggio del 1990 terminai insediandomi a Miami, a casa di una zia nonna. La mia famiglia degli Stati Uniti non era composta da rivoluzionari, però neppure da militanti contro la rivoluzione. Era gente buona, di buoni sentimenti, con una lunga storia di relazioni tra Cuba e Stati Uniti. Gente semplicemente nobile che se n’era andata negli USA intorno agli anni 40. Né anticastristi, né fanatici della politica. La loro preoccupazione è sempre stata a livello familiare, tanto quando arrivai negli Stati Uniti che dopo l’arresto e tutto ciò che è successo. Questo lo apprezzo molto.

–Come avvenne l’avvicinamento ai gruppi anticastristi?

–Ripetevo il credo. Il credo che a cuba le persone si trascinano per le strade, non hanno da mangiare, stanno per morire e muoiono, che la polizia picchia tutti in tutti i quartieri. Quando tu mi hai domandato prima sulle capacità di fingere, io ti ho risposto che era più facile fingere là. Primo, perché non implica una lacerazione dei rapporti personali. Secondo però, perché è curioso il fatto che a loro hai bisogno di dire solo quello che vogliono sentirsi dire: cose cattive di Cuba.

–Però tante persone dicevano queste cose. Cosa c’era in te di speciale rispetto ad altri?

–La maniera in cui sono arrivato. Con un aereo rubato. Per alcuni giorni fui una celebrità del Miami Herald.

–C’era un obiettivo speciale di approssimazione?

–Osservavo le circostanze e andavo avvicina domi ad alcuni gruppi. Iniziai dalla CUPA, la Cuban Pilots Association, che era un gruppo composto principalmente da piloti. Molti di loro erano stati alla Baia dei Porci. Altri erano stati mercenari nel Congo. Ce n’erano alcuni celebri come torturatori nell’America Latina, come Félix Rodríguez “El Gato”, che fu colui che assassinò il Che e che ebbe anche legami con i torturatori della dittatura argentina. Oggi, quest’uomo sfrutta l’ospitalità e la benevolenza del governo che lo preparò come torturatore, il governo degli Stati Uniti. Molti erano stati dal Congo al Nicaragua. Alcuni erano stati ufficiali dell’esercito di Fulgencio Batista. Successivamente mi legai alla HAR, Hermanos al Rescate (Fratelli al Riscatto), più giovani degli altri, anche se creati da veterani come il terrorista Luis Posada Carriles, uno dei più grandi criminali dell’emisfero. Il mio obiettivo era principalmente quello di raccogliere le informazioni e inviarle a cuba. Successivamente, il governo cubano si incaricava di processarle, analizzarle e di fare quello che poteva per smantellare le azioni terroriste dei gruppi contro Cuba.  In questa maniera, ottenni che finissero incarcerati due narcotrafficanti legati a questi gruppi. E anche questo è stato utile allo smantellamento  perché si toglie loro il sostegno economico. Sono stato otto anni tra questi gruppi, dal 1990 fino al 1998, quando fummo arrestati. Uno era il PUND e l’altro era il Comando di liberazione Unito, che aveva al suo interno un altro narcotrafficante che siamo riusciti ad identificare e a neutralizzare. Per finire mi integrai a quello che prese il nome di Gruppo Democrazia, dedito ad organizzare piccole flotte per venire a provocare a Cuba, entrare in acque cubane, creare problemi tra i due governi. E questo fu l’ultimo gruppo nel quale riuscii ad entrare, fino a che non fui arrestato.

–Come reagì e che evoluzione prese la sua famiglia con il tema?

–Io me ne sono andato come disertore. I miei genitori ci rimasero molto male. Non lo potevo dire a nessuno perché, niente, sono cose di lavoro, per definirle in qualche maniera. E’ dura, è una delle cose più dure. Mia figlia aveva sei anni quando io me ne andai da Cuba. All’inizio mia moglie diceva:  “Qui tutto sembra indicare che ha preso un aereo, che è un disertore, quindi devo credere che sia così”. Poi lei mi ha raccontato un po’ la storia, ha iniziato ad attaccare dei capi. Iniziò a insistere fino a che dovettero dirglielo. Però ci volle del tempo.

–Perché secondo voi il processo giuridico fu fraudolento?

–Io domanderei a me stesso: “cosa c’è stato di non fraudolento?” Il sistema legale nordamericano, il sistema federale, è disfunzionale. Non soltanto per noi. Di norma loro applicano un sistema che si appoggia molto nella capacità di fare una negoziazione delle accuse. Quindi, il loro modus operandi è quello che loro ti lanciano addosso un numero di accuse eccessive, supponiamo che una persona abbia trafficato con dieci chilogrammi di cocaina, però uno dei suoi associati abbia trafficato con 30, il sistema accusa la prima persona anche degli altri 30 e dice: “Bene, se sei disposto a cooperare con noi, ti togliamo i 30 dalle accuse, ti lasciamo con i tuoi 10  e ti diamo 5 anni” . Se cooperi, i pubblici ministeri ti utilizzano per mentire e devi fare tutto ciò che loro vogliono perché chiedano al giudice che ti dia cinque anni. E la prima bugia che questa persona deve imparare a dire alla giuria, che io penso sia la bugia di base del sistema, è che i pubblici ministeri gli hanno promesso questo, gli hanno proposto questo, però è il giudice che alla fine decide. Statisticamente il giudice decide sempre quello che i pubblici ministeri vogliono. E con il nostro caso è successo questo. E disgraziatamente è ciò che ha portato il nostro caso fino ad oggi. Perché effettivamente noi abbiamo violato le leggi nordamericane, noi eravamo degli agenti non registrati, il che implica una sentenza di dieci anni come massimo, però allora loro, per far salire la pena, hanno accusato tre dei miei compagni di spionaggio e uno di cospirazione per commettere omicidio in relazione all’abbattimento dei velivoli di Hermanos al Rescate nell’anno 1996. Però noi abbiamo detto: “Andiamo a giudizio perché noi non accetteremo false accuse”. Si è complicato tutto e oggi siamo qui. Io non sono stato accusato di spionaggio perché mi occupavo esclusivamente di gruppi paramilitari. Non ho mai avuto a che fare con informazioni militari. Ci sono stati dei miei compagni che invece sono stati a contatto. Se tu non cerchi informazioni classificate, non sei una spia. Non è un problema di  spiare lo Stato o no.  Molte persone confondono questo. Tu puoi cercare informazioni dello Stato, basta che non siano classificate da quello Stato.  Però tu puoi cercare un’informazione civile riguardo a una corporazione che lo  Stato aveva classificato perché gli conviene mantenerla. Ad esempio un progresso tecnologico X e lo Stato e questa corporazione si mettono d’accordo e la classificano. Per quanto questa informazione sia civile, è classificata, se ha un timbro che dice “segreto”, tu stai commettendo spionaggio nel cercare questa informazione. Loro (i pubblici ministeri) hanno confuso la giuria facendole credere che poiché i miei compagni stavano cercando informazioni di natura militare, avevano commesso o stavano cercando di commettere spionaggio. Però, in realtà, l’informazione che i miei compagni stavano cercando era pubblica, era un’informazione visiva, informazione di giornali.

–Chi fu  il vostro avvocato?

–Lo mise a disposizione la corte. Philip Horowitz. Lo considero un mio amico. Ha fatto un buon lavoro. Quello che succede è che se le istanze che dovrebbero impartire giustizia non sono accettate, non  importa che tu abbia ragione. Io comparo il nostro caso con quello di un corridore dei 400 metri. Arriva primo al traguardo e l’arbitro dice: “No, oggi vince il secondo arrivato perché a me va bene così”. Questo è ciò che hanno fatto i giudici. Qualsiasi arbitro imparziale che abbia osservato il caso, si è reso conto che questa è un ingiustizia e stiamo parlando…

–Anche gli analisti giuridici nordamericani?

–Analisti giuridici nordamericani, associazioni di avvocati degli Stati Uniti. Il comitato delle detenzioni arbitrarie della Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Amnesty International, tutti hanno emesso sentenze nelle quali è indicato che il giudizio è stato ingiusto, che è stato illegale e che non sono stati seguiti gli standard del dovuto processo.

–Quanto ci avete messo voi cinque a smettere di fingere?

–Fino a quando non ha avuto inizio il giudizio, tu non puoi tornare ad essere ciò che eri prima. Mantenemmo la discrezione per tutti i due anni di preparazione al giudizio. Lo coordinammo. Prima non potevamo ammettere che eravamo agenti di Cuba. Anche ai nostri avvocati questo è costato lavoro. Come noi non gli dicemmo niente, loro vennero a Cuba. Alla fine il governo cubano ebbe fiducia nella loro professionalità. E costruirono una difesa molto buona. In realtà, nel nostro giudizio i ruoli si invertirono. Gerardo, che è un caricaturista, realizzava delle caricature dei pubblici ministeri e quelle caricature percorrevano tutta la sala passando dalle mani anche di coloro che ci custodivano e terminavano con lo stenografo, perché la gente iniziò a rendersi conto che il processo  era una farsa. Questo  si percepì nell’aula. E il giorno in cui ci dichiararono colpevoli, gli agenti del tribunale scesero dall’alto dell’aula fino al banco degli imputati per chiederci scusa. Una cosa impressionante. Tu ti impressioni quando una persona che si suppone sia il tuo custode carcerario cambia la sua attitudine fino a dire: “Pero e dov’è lo spionaggio? Dov’è l’omicidio?” Iniziarono a guardare le nostre prove, le provocazioni filmate di Hermanos al Rescate, propagandate alla televisione di Miami come se fossero una cosa buffa. E loro stessi ci dicevano: “Però com’è possibile che il governo cubano abbia aspettato tanto per abbattere quegli aerei?” Nonostante questo, a me non mi hanno insegnato a odiare gli Stati Uniti. Io credo che un paese valga  molto di più dei suoi pubblici ministeri, del suo governo e che valga molto di più del pugno di milionari che controllano la vita di questo paese.

–L’avvocato Horowitz, ad esempio, pare aver seguito le regole basate sulla difesa delle garanzie individuali.

–Da quando fu presa la decisione politica di commettere questa vendetta, perché alla fine di questo si tratta, una vendetta contro Cuba racchiusa in cinque uomini, fu preso un sentiero sbagliato e dovettero rimediare ad errori con altri errori. E alla fine terminarono rendendo ridicola la corte, terminarono per essere gli zimbelli di tutto il mondo perché loro stessi lo decisero. Se avessero fatto un lavoro decente, il caso si sarebbe risolto in altra maniera e loro non avrebbero dovuto abbassarsi come fino a quel punto. E nessuno ha seguito davvero il processo. All’inizio lo fece il New York Times, però quando il giudizio iniziò a mostrare la sua reale natura, la ragazza del giornale della Grande Mela scomparve e non la vedemmo mai più. Da quel punto in poi, fu la stampa di Miami a coprire il processo. La maggioranza fu pagata. E fu il giudizio con accuse di spionaggio più lungo della storia nordamericana. Sette mesi di giudizio con testimoni orali e prove.  Testimoniarono tre generali nordamericani a favore della difesa, volontariamente, vennero a difenderci. I pubblici ministeri dovettero portare come testimone un generale, James Clapper, attuale assessore della sicurezza del presidente Obama, ma anche lui non poté dire niente di incriminante per quanto riguarda lo spionaggio. Testimoniò un assessore del presidente nordamericano. Fu trattato il tema del terrorismo. Il governo cubano, per poter presentare il ricorso alla Corte Suprema, contattò il meglio che potesse trovare a Washington, cioè uno specialista in Corte Suprema, che è anche un’analista per la CNN: Tom Goldstein. E quest’ultimo era convinto di riuscire a far conoscere il caso alla stampa. Negli Stati Uniti tutti i giorni si discute di un caso giuridico. Il caso di quello che si è mangiato la moglie, quello che ha ucciso il bambino, il cane che si è mangiato il vicino… Tom Goldstein presentò  un brief (riassunto) solidissimo alla Corte Suprema, fu conseguito un record nella storia nordamericana di  amicus curiae(2), che sono riassunti di amici della corte che contengono delle parti disinteressate, e quello di Tom includeva premi Nobel, parlamentari internazionali, associazioni internazionali di avvocati, associazioni nazionali di avvocati degli Stati Uniti, 12 amicus curiae, questo non si era mai visto nella Corte Suprema. E quando Goldstein chiamò la stampa, non venne nessuno.

–Quali sono le prospettive dei quattro che ancora sono detenuti? Quali sono le soluzioni desiderabili e quelle possibili?

–Dovremmo iniziare dalle sentenze. Uno dei miei quattro compagni che uscirà prossimamente è  Fernando González, che è stato condannato a 17 anni. Seguirà Antonio, fino al 2017. Ramón, fino al 2024 e Gerardo che è condannato a due ergastoli. Questo caso non sarà risolto in ambito legale. L’ambito legale è stata una copertura, che è servita alla decisione politica che è stata presa. Quella di vendicarsi di Cuba con questi cinque uomini. C’è stato un giudizio di tre giudici che ruppe quella decisione politica e che poi fu rovesciato.

–Fu rovesciato da quegli stessi giudici o in un’altra istanza?

–In un’altra istanza dello stesso tribunale. Però tutto è stato una decisione politica e io credo che la soluzione avverrà nella stessa maniera: con una decisione politica. Può arrivare utilizzando la via legale. Nella stessa maniera con cui fu indicata una via ai giudici perché violassero la legge,  possono indicargli oggi un’altra via perché la rispettino. Noi abbiamo sempre detto che l’unica cosa che chiediamo è che siano applicate le leggi nordamericane, che non siano tergiversate, che si guardino ai fatti, che siano applicati alle loro leggi e che le applichino.

–Cosa potrebbe avvenire in termini processuali nel caso degli ergastoli? Un indulto presidenziale?

–Tecnicamente il giudizio è concluso. Però c’è un ricorso che si chiama ricorso straordinario. Il ricorso segue la stessa rotta che segue tutto il caso legale. Si presente di fronte alla giudice. La giudice emette la sentenza e si va alla Corte d’Appello di Atlanta. E poi alla Corte Suprema. Questo ricorso è pendente  e si basa su un errore madornale che commise l’avvocato di Gerardo, per quanto riguarda la strategia di difesa. L’avvocato cercò di difendere bene il suo cliente, però commise un errore perché difese Cuba. E i pubblici ministeri giudicarono Cuba. Il punto forte di questo ricorso è che lo stesso avvocato riconosce il proprio errore. Pensò si trattasse di un tema di uno Stato contro un altro e che lo Stato cubano aveva dei diritti. Però commise un errore: lui pensava che fosse impossibile che una giuria decente non si rendesse conto che Cuba aveva il diritto di difendere la sua sovranità. E a Miami non si può trovare una giuria decente. Adesso, i tempi sono cambiati. Ci sono molti segnali che ormai questa politica contro cuba ha iniziato a stancare, segnali che vengono anche dall’interno degli Stati Uniti. Incluso dai cubani che vivono lì. Pochi giorni fa è stato reso pubblico il risultato di un’inchiesta dove risulta che il 56 per cento dei nordamericani diano d’accordo sul fatto che è l’ora di cambiare la politica statunitense verso Cuba.  Obama ha perso molto tempo trattando di ingraziarsi una destra che non lo ama, né come uomo di colore, né come liberale, né come giovane.

–René, cos’è successo dopo la sentenza?

–Ci sono stati quattro punti cruciali. Riguardo al terzo, io ho scontato la mia condanna il 7 ottobre del 2011. Già da un anno prima, abbiamo chiesto alla giudice che mi lasciasse scontare la libertà vigilata a Cuba, cosa perfettamente possibile. La giudice ha la potestà di modificare la libertà vigilata e permettere che una persona la possa scontare fuori dagli Stati uniti. I pubblici ministeri hanno sempre voluto che anche la libertà vigilata diventasse un castigo per me e per la mia famiglia. Volevano mantenermi separato dalla mia gente per altri tre anni. Inoltre avrei dovuto scontare la libertà vigilata nello stesso distretto nel quale vivono i gruppi terroristi, i criminali che possono contare sulla complicità della FBI, nel governo nordamericano. I pubblici ministeri si opposero alla nostra richiesta. Dissero che era prematuro, che c’era da aspettare che io scontassi una parte della libertà vigilata. Parallelamente i pubblici ministeri mi avevano proposto di rinunciare alla cittadinanza nordamericana, in cambio di lasciarmi venire qui a Cuba. Inizialmente io mi opposi.

–Perché?

–Perché è un diritto di nascita. Uno non deve essere obbligato a cedere i diritti di nascita. Però successivamente ci ripensai e dissi ai miei avvocati che avrei accettato la proposta dei pubblici ministeri. Mi interessava di più stare con mia moglie, con le mie figlie, con i miei genitori, con mio fratello.  I pubblici ministeri fecero finta di essere interessati ad arrivare a un accordo che implicasse la mia cessione di cittadinanza in cambio del mio rimpatrio a Cuba. Alcuni giorni prima che io terminassi di compiere la mia sentenza, chiamarono il mio avvocato e gli dissero che questa possibilità non era sul tavolo delle trattative. Giorni dopo, la giudice derogò la mozione e dovetti iniziare a scontare la libertà vigilata negli Stati Uniti. Lì, grazie a un amico, potetti ottenere una casa in un luogo della florida, il più lontano possibile dal carcere, vivendo in clandestinità, praticamente recluso come in un monastero, senza documenti, senza patente di guida, senza carta di credito.

–Per quanto tempo?

–Fu un anno e mezzo abbastanza difficile. Avevo l’intenzione di rinnovare la mozione, quando fossero passati alcuni mesi perché la giudice mi lasciasse venire a Cuba. Nel febbraio del 2012 stavo lavorando con il mio avvocato al rinnovo della mozione, quando mio fratello si ammalò gravemente. Dovemmo posporre il lavoro e chiedere alla giudice che mi lasciasse venire per quindici giorni a vedere mio fratello. I pubblici ministeri si opposero anche alla mia visita verso un fratello morente. Però la giudice in questo caso mi dette il permesso. Per questo ti ho detto che è stato solo alla terza tappa che sono riuscito a rimettere piede a Cuba. Ritornai a cuba  nell’aprile del 2012.

–La tua famiglia era già stata negli stati Uniti?

–Le mie figlie, che potevano, c’erano state, mia moglie no. Lei la deportarono e non la lasciarono tornare mai più a vedermi. Io tornai negli Stati Uniti per completare la mia libertà vigilata. Tornai a lavorare con i miei avvocati alla mozione. La presentammo a giugno, perché la giudice mi permettesse di rinunciare alla cittadinanza.

–Di chi fu la decisione di continuare e terminare il processo giuridico?

–Per noi è stata molto importante la parola in tutto questo caso. Durante tutto il processo il nostro vantaggio è stato quello morale e non siamo andati a regalare a loro questo vantaggio morale. Loro decisero di abbassarsi e noi invece decidemmo di elevarci.

–Mai un dubbio?

–No, io non ho mai dubitato, ero pronto a scontare la pena. Non avrei certo regalato adesso alla giudice un argomento morale per il quale potesse cantare vittoria dopo 15 anni di carcere. Se lo doveva guadagnare prima, però non adesso. Né lei, ne i pubblici ministeri. E adesso sto ridendo perché quando stavamo discutendo di questo con un mio avvocato e con i funzionari delle Bahamas, io dicevo al mio avvocato: “Meglio che mi lascino entrare (negli USA) perché io prendo una barchetta da Cuba e me ne vado là e poi mi pianto di fronte alla giudice nella corte e le dico ‘Adesso arrestami”, perché io non avrei mancato la parola che avevo dato. E fu così che ritornai negli Stati Uniti, mio fratello morì, riproponemmo la mozione, i pubblici ministeri si opposero e iniziò uno scambio di atti tra la pubblica accusa e la giudice, fino a che mio padre morì nell’aprile del 2013.  Fu allora che riproponemmo ancora una sollecitudine per venire a Cuba in vacanza per poter stare con la mia famiglia dopo la morte di mio padre. E la rinuncia alla cittadinanza nordamericana, con la quale cadeva anche il resto della condanna. Rinunciai così alla cittadinanza, la giudice ricevette i documenti e quindi ammise: “Ok, va bene, la libertà vigilata la puoi terminare a Cuba”, mi disse.

–E la famiglia, René?

–Abbiamo affrontato la cosa nella maniera migliore che potevamo. Alla fine, anche se è  passato tanto tempo, per me il nuovo incontro con la mia famiglia è avvenuto come se non fosse passato il tempo. E’ stato tutto molto bello. Stiamo insieme, siamo felici, adesso abbiamo anche un nipote che è arrivato a rallegrare di più la vita di Olguita e la mia.

–In quale ufficio pensa di lavorare uno che ha vissuto questa esperienza?

–Come pilota mi piacerebbe volare, però riconosco che è molto difficile entrare nell’aviazione come professionista. Credo che adesso ci sia un campo nell’economia che si sta aprendo, si stanno aprendo molti esperimenti, dobbiamo imparare molte cose, e mi piacerebbe lavorare  nell’economia in qualcosa, in un progetto di sviluppo locale, però l’idea che ho è la seguente, mi piacerebbe partecipare al processo di cambio che si sta producendo a Cuba: esperienze nuove di autogestione, esperienze di relazioni più dirette tra le imprese, tra imprese e governi locali.

–E il passato può permettere di adattarsi alla vita quotidiana odierna?

–Tutte le esperienze ti fanno crescere. Quello che non ti uccide t’ingrassa. E, ovviamente, io ho letto molto nel carcere. Storia, attualità, Cuba…  Mi sono imposto un regime di esercizio forte durante la  mattina e lettura e studio durante la sera. Ho iniziato a studiare economia anche nel carcere. ‘Università de L’Avana mi assegnava i professori. Mi inviavano i materiali e ho studiato economia. Mi sono proposto di uscire dal carcere meglio di come sono entrato. Mi sono detto: “Bene, se io esco migliore di come sono entrato, questo sarà il mio modo di vincere” e così è stato.  Io credo che il regime di vita che mi sono assegnato nel carcere mi abbia aiutato molto. Io credo di aver tirato fuori il meglio che potevo ottenere.

–Adesso, a 57 anni, dopo questa storia, immaginiamo un ritorno ai 34  e alla richiesta di una missione negli Stati Uniti. La risposta sarebbe la stessa?

–Sí.

Martín Granovsky -Página 12, Argentina/ CUBADEBATE.CU

Traduzione in Italiano di Stefano Guastella per QuintAvenida.it


Liberato Fernando González

 

28.02.14 – Com’era già noto al popolo di Cuba, il combattente antiterrorista  cubano, Fernando González Llort, è stato liberato oggi 27 febbraio, al termine della sua lunga e ingiusta condanna.

L’Eroe della Repubblica di Cuba è stato trasferito dal centro correzionale di Safford, in Arizona e posto a disposizione dei servizi di migrazione, per iniziare il processo di deportazione verso l’Isola.

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