Morogate: lo scandalo della mafia giudiziario-politica

al servizio dell’estrema destra

Juraima Almeida, CLAEhttp://aurorasito.altervista.org

Uno tsunami politico colpiva il Brasile dopo tre rapporti del portale Intercept che mostravano con forti prove documentali che l’allora giudice Sergio Moro, il procuratore Deltan Dallagnol e altri 13 procuratori dell’operazione “anti-corruzione” Lava Jato, commisero crimini contro l’ordine politico e sociale per rendere possibile l’avvento al potere dell’estrema destra in Brasile.

Brasilia, centro del potere politico, fu scossa dal potere distruttivo dell’informazione pubblicata da The Intercept, divenuta rapidamente virale, colpendo la popolazione ma anche la Corte Suprema di Giustizia, dove il giudice Gilmar Méndes affermò che i fatti incriminati “il funzionario più famoso nel gabinetto sono molto seri”. La filiale brasiliana del portale The Intercept dichiarava di aver ricevuto materiale declassato con intercettazioni che proverebbero il comportamento illegale delle autorità giudiziarie nell’operazione Lava Jato, alibi per il golpe di Michel Temer contro Dilma Rousseff nel 2016, giustificare la reclusione di Luiz Inácio Lula da Silva nel 2018 e creare le condizioni per il trionfo dell’estremista di destra Jair Bolsonaro e la sua nomina a presidente il 1 gennaio 2019. Moro, premiato per i servizi resi alla trama di destra con la carica di ministro della giustizia, sfuggiva dalla stampa e si rifugiava in Amazzonia, e si difese solo accusando il portale di usare metodi “criminali” per ottenere informazioni. Intercept ricorda che Lava Jato non era solo una delle chiavi della demolizione del Partito dei Lavoratori di Lula e Dilma, ma anche l’argomento con cui Bolsonaro fece Moro superministro della giustizia con poteri di sorveglianza e spionaggio senza precedenti nella storia del Brasile, confermando che l’immagine di imparzialità politica che l’ex-giudice si era costruito era pura farsa. Le conversazioni rivelate da The Intercept, portale fondato da Glenn Greenwald, editorialista ed esperto di diritto costituzionale americano, furono tra Moro, che allora era giudice istruttore contro Lula, e il procuratore Deltan Dallagnol, capo della cosiddetta task force del procuratore. I testi si basavano su chat digitali private, registrazioni audio, video, foto e documentazione giudiziaria fornita da ciò che il portale definisce “fonte anonima”.

I rapporti esplodono nel pieno di una profonda crisi politica, economica e sociale. Per anni, vari settori della società denunciarono deviazioni, ostruzioni, abusi ed azioni incostituzionali commesse dalla cosiddetta operazione Lava Jato, che più della lotta alla corruzione aveva l’obiettivo di eliminare dal potere il Partito dei lavoratori di centrosinistra (PT). Uno dei rapporti mostra che i pubblici ministeri parlarono apertamente del loro desiderio d’impedire la vittoria elettorale del PT e attivandosi per raggiungere tale obiettivo, per il quale l’allora giudice Moro collaborò segretamente e in totalmente immorale coi pubblici ministeri per aiutare a radunare le accuse contro l’ex-Presidente Lula da Silva, infine condannato senza prove e rimosso dalla corsa elettorale in cui era il grande favorito, elemento chiave per facilitare la vittoria dell’estremista di destra Jair Bolsonaro. Nei dialoghi è evidente che i pubblici ministeri non erano attori apolitici e non faziosi, ma piuttosto sembravano motivati da convinzioni ideologiche originati dal desiderio che il PT non tornasse al potere dopo il colpo di Stato del 2016. Queste informazioni, già devastanti, sono solo una piccola parte di un faldone di 1700 pagine con rivelazioni inedite che dimostrano come l’elezione dell’estremista di destra Jair Bolsonaro fu possibile solo in tale contesto di deliberata interferenza soggettiva, illegale, del cosiddetto partito del Lava Jato. Ciò che Intercept chiarisce è che i pubblici ministeri di Moro, Dallagnol e Lava Jato strumentalizzarono il discorso anti-corruzione per promuovere una scandalosa cospirazione contro lo Stato di diritto per rovesciare la Presidentessa Dilma Rousseff e, quindi, interrompere il ciclo di governi popolari e progressisti. Alcuni commentatori parlarono dell’ispirazione italiana dell’operazione Lavo Jato, in stile Mani Pulite, ma in realtà pratiche e metodi usati da Moro e Dallagnol nell’articolazione e coordinamento strategico della cospirazione per rovesciare la Presidentessa Dilma Rousseff e nella caccia di Lula, sono più simili a quelli usati da Cosa Nostra, la mafia.

In cima alla cospirazione gerarchica, secondo le prove fornite dal portale, appare sempre l’ex-giudice e oggi ministro Moro, capomafia di uno schema criminale concepito a Washington e sviluppato dall’oligarchia col potere de facto d’imprigionare Lula, impiantare il regime di eccezione e porre alla presidenza la fazione più intrigante dell’estrema destra. Non a caso durante la visita negli Stati Uniti, accompagnando Bolsonaro, Moro visitò CIA e Comando Meridionale. L’allora giudice Moro andò oltre le sue funzioni partecipando alla definizione di strategie legali inscenando la farsa legale per condannare l’ex-Presidente Lula, attaccando il codice penale. Dallagnol ebbe colloqui con altri pubblici ministeri per gonfiare le vergognose accuse montate per denunciare Lula con falsità. Gli archivi mostrano discussioni interne ed atteggiamenti controversi, politicizzati ed illegali. Dallagnol e la sua task force con altri 13 procuratori a Curitiba, dove Moro era giudice, sembravano avere dubbi sulla forza delle prove gestite. Il grosso dubbio era, appunto, se Lula avesse ricevuto in dono un appartamento su spiaggia per favorire la società di costruzioni OAS nei contratti con Petrobrás. L’operazione Lava Jato progettò tutti i passaggi del regime di fatto presieduto da Michel Temer, per garantire lo sviluppo del piano concepito a Washington. La censura di Lula e il sequestro del suo diritto d’opinione, col divieto a un’intervista proposta da Folha de Sao Paulo durante il processo elettorale, fu un momento costitutivo di tale strategia, nella paura che l’intervista potesse catapultare la vittoria elettorale di Fernando Haddad, candidato del PT. Un punto saliente delle fughe di notizie è l’insicurezza di Dallagnol sull’accusa che portò Lula in prigione nell’aprile 2018: “Era insicuro proprio sul punto centrale dell’accusa che sarebbe stata firmata da lui e colleghi: che Lula aveva ha ricevuto in regalo un appartamento nella spiaggia di Guarujá, dopo aver favorito la compagnia OAS nei contratti con Petrobras” (compagnia petrolifera statale), dice il rapporto. Nelle conversazioni non appare alcuna prova concreta fornita da nessuno di essi. Era importante forgiarle perché, diversamente, il caso non poteva essere provato a Curitiba, dove le azioni della compagnia OAS erano già indagate. Ma se la causa fosse arrivata da San Pablo, sarebbe stata fuori dall’orbita di Moro. Ecco perché fu necessario collegare Lula agli scandali OAS e Petrobras. Asimmetricamente, i pubblici ministeri arrivarono a discutere i modi per ridurre l’impatto di un’intervista, autorizzata Ricardo Lewandowski del dalla Corte Suprema, perché quell’intervista poteva “far scegliere (Fernando) Haddad” e “consentire il ritorno del PT” al governo. In parallelo, secondo The Intercept, Dallagnol parlò con un’amica su Telegram identificata come “Carol PGR”. Allarmata dall’intervista e dall’eventuale conferenza stampa di Lula, Carol PGR (dell’ufficio del procuratore generale) inviò diversi messaggi a Dallagnol: “Siamo in un treno senza comando e non so cosa ci aspetta”, “L’unica certezza è che staremo insieme”, “Sono molto preoccupato dal ritorno del PT, ma ho pregato molto Dio per illuminare la nostra popolazione in modo che un miracolo ci salvi”. Il giudice Januário Paludo suggerì un piano: “Aprire la possibilità a tutti di un colloquio nello stesso giorno ridurrebbe le possibilità che sia affrontato”. Un altro pubblico ministero, Athayde Ribeiro Costa, suggerì che la polizia federale agisse per far avere l’intervista dopo le elezioni. L’interpretazione truccata sarebbe stata che il permesso del ministro della Corte Suprema avrebbe adempiuto in quel senso, ma che la Polizia Federale volle posticipare l’intervista. “Pianifichiamo per dopo”, disse. Convinto che i colloqui tra i pubblici ministeri sarebbero rimasti privati per sempre, la procuratrice Laura Tessler dichiarò: “Sembra uno scherzo. L’intervista diventerà una catena. E dopo Mónica Bergamo (giornalista di Folha) altri giornalisti richiederanno la stessa cosa. E qui facciamo i pagliacci”. La difesa di Lula affermò che le conversazioni tra Sergio Moro e i pubblici ministeri dell’operazione Lava jato conferma una trama “con obiettivo prefissato e chiare motivazioni politiche per perseguire, condannare e togliere la libertà dell’ex- presidente”. Chiese anche la piena libertà di Lula, vittima della manipolazione di leggi a fini di persecuzione politica.

E adesso?

Diversi analisti sottolineano che, data la serietà delle prove presentate, Moro, Dallagnol e gli altri pubblici ministeri vanno dimessi e arrestati, per impedirgli di distruggere le prove essenziali dell’indagine sul complotto, e i loro computer, portatili, cellulari e tutti i dispositivi andavano immediatamente sequestrati. Gli imputati non smentivano i fatti, confermando che non sono autorità pubbliche, ma mafiosi che usano le prerogative pubbliche per perpetrare crimini contro la democrazia e lo Stato di diritto, affermava Jeferson Miola. L’unico modo accettabile per ripristinare la democrazia e avviare la ricostruzione economica e sociale del Brasile è con Moro e Dallagnol in carcere, Lula libero e nuove elezioni presidenziali, aggiungeva. “I processi giudiziari viziati dalla frode di Lava Jato dovrebbero implicare l’immediata libertà di Lula”, scriveva Dilma Rousseff. Paulo Pimenta, presidente del PT, affermava che “l’obiettivo era cambiare i governi popolari in America Latina con regimi di destra come Bolsonaro in Brasile e Macri in Argentina” e le notizie pubblicate ora, aggiungeva, dimostrano “la politica degli Stati Uniti. contro i governi popolari dell’America Latina. “C’è una forte presenza di interessi statunitensi in tale indagine”, ma “non potremmo immaginare il grado di promiscuità nei rapporti tra giudice, pubblici ministeri e media mainstream”. “Ciò che è chiaro è che che Moro aveva obiettivi politici ed elettorali, attraverso procedure illegali”, che “causavano un vero terremoto nel Paese, data la gravità delle informazioni. Queste rivelazioni sono illuminanti. Mostrano un rapporto totalmente illegale tra Moro e i procuratori del caso Lava Jato insieme ai media egemoni”, affermava Pimenta. Intercept chiariva che non includeva nella divulgazione questioni sulle vite private dei protagonisti ma solo informazioni che avevano relazione coll’interesse pubblico. Ed anche spiegava che “non abbiamo bisogno dei commenti delle alte autorità menzionate prima della pubblicazione perché non volevamo avvertirle sul nostro compito e perché i documenti parlano da soli”. I segni della trama erano appena emersi, ma già causavano uno tsunami politico.

La credibilità delle denunce

Il rapporto, firmato da Greenwald e Victor Pougy, diventava una bomba col momento politico che vive il Brasile. Un presidente che fece campagna ellttorale col carcere di Lula e che oggi premiava il suo carceriere con un ministero, è in rapido declino. E, mentre il governo s’indebolisce, come il suo ministro insigne e la sua immagine da crociato contro la corruzione, la debolezza delle prove evidenziate dal pubblico ministero contro Lula diventa più evidente e quindi più costosa, politicamente parlando. Il caso faceva già rumore e perciò ad aprile la Corte Suprema Federale ridusse la condanna e poi la Viceprocuratrice Generale della Repubblica, Aurea Nogueira, chiese che Lula completasse la pena in regime di libertà vigilata. In un universo di false notizie e documenti inventati, la reputazione con firma e sigillo che renda un documento originale e basilare come una registrazione, una chat o un’e-mail, credibile, può essere visto da milioni di persone . Greenwald, a Rio de Janeiro, è lo stesso che pubblicò sul quotidiano The Guardian le rivelazioni di Edward Snowden sul massiccio spionaggio degli Stati Uniti verso i loro i cittadini ed alleati coll’intercettazione di telefonate e traffico Internet. Il sito è finanziato dal magnate Pierre Omydyar, fondatore di eBay, interessato a un sito di megafiltrazione in modo che Pentagono e agenzie di spionaggio non l’infastidiscano, nel momento in cui Julian Assange, Snowden e altri a denunciavano come le agenzie di intelligence pubbliche e private si erano infiltrate nell’industria dell’alta tecnologia per dare il via alle loro reti di spionaggio massiccio ed indiscriminato. Oggi, un media dal nuovo modo di racconto (attraverso le fugge) dava la notizia, come a suo momento fecero Snowden, Chelsea Manning, WikiLeaks quando Assange pubblicò i Cablegate o il consorzio ICIJ i Panama Papers. Snowden, Manning e Assange sono prigionieri: Washington non perdona.

*Ricercatore brasiliano, analista associato del Centro latinoamericano per l’analisi strategica (CLAE).

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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