Maduro alla Cop27, la voce dei popoli in difesa dell’umanità

Geraldina Colotti

“Cambiare il sistema, per cambiare il clima e cominciare a salvare il pianeta”, ha efficacemente riassunto il comandante Chávez il 16 dicembre del 2009, durante la Conferenza internazionale sul cambio climatico. Nel 1992, Fidel Castro, aveva pronunciato uno storico e profetico discorso, al Vertice della Terra di Rio de Janeiro: “Un’importante specie biologica – aveva detto – corre il rischio di sparire per la rapida e progressiva liquidazione dalle sue condizioni naturali di vita: l’uomo. Ora prendiamo coscienza di questo problema quando è quasi tardi per impedirlo…”.

Il presidente Maduro, che accompagnava il comandante come suo ministro degli Esteri quando questi pronunciò lo storico discorso aprendo la porta del vertice ai movimenti popolari, ha ricordato entrambi discorsi in occasione della Cop 27. La 27ma conferenza delle Nazioni unite sul cambio climatico, in corso in Egitto dal 6 al 18 novembre, si svolge a Sharm El Sheikh. Una sede, si legge sul sito delle Nazioni Unite dedicato all’evento, che non è stata scelta a caso: “circondata da due spettacolari aree protette, Sharm El-Sheikh è un posto che ispirerà i partecipanti a combattere il cambiamento climatico e a proteggere il pianeta”. Tuttavia, ha commentato Maduro, ci sono discorsi che si parlano addosso, pronunciati da quegli stessi responsabili del disastro in corso, e altri, invece, propositivi, che provengono da chi più subisce il danno.

Facendo riferimento agli eventi atmosferici che si succedono in ogni parte del pianeta, con sempre maggior frequenza e drammaticità, come si è visto con la caduta di intense e continue precipitazioni, che hanno di recente colpito la popolazione de las Tejerias, il presidente venezuelano ha rimarcato che già non c’è più tempo. Già il limite è stato oltrepassato. Questo – ha detto nella sua requisitoria contro il modello capitalista – impone all’umanità un cambio di indirizzo sempre più urgente, visto la velocità con cui il modello capitalista sta spingendo il mondo verso la catastrofe.

Lo ha sottolineato con forza anche il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres alla vigilia del vertice. “Ci stiamo avvicinando a un punto di non ritorno – ha detto -, con impatti irreversibili, alcuni dei quali difficili persino da immaginare”. Per questo, ha aggiunto Guterres, i paesi ricchi “devono firmare un patto storico con le economie emergenti”. Diversamente, non si potrà cambiare la situazione. Tantomeno lo si potrà fare a colpi di campagne propagandistiche, atte a presentare come campioni di pacifismo i peggiori guerrafondai, e come paladini dell’ambiente, i principali responsabili dello sfruttamento.

È questa la posizione dei movimenti popolari più conseguenti, che partecipano al vertice con i loro rappresentanti (sui 35.000 delegati presenti), e che danno vita al consueto controvertice. E c’è chi, come l’attivista norvegese Greta Thunberg, che anima le campagne giovanili contro il cambio climatico, ha criticato il vertice e ha deciso di disertarlo, denunciando il greenwashing, visto che a sponsorizzare l’evento e ad allestire gli spazi sono le solite multinazionali messe in causa dagli attivisti per il loro impatto sull’ambiente: in questo caso, la Coca Cola. Con il termine anglosassone greenwashing, parola composta da green, verde, e whitewash, lavare o coprire, si intende infatti quella forma di propaganda volta a vendere una merce tossica spacciandola per salutare: in questo caso, far passare una multinazionale che inquina e sfrutta per una paladina dell’ambiente, contando su sofisticati apparati di propaganda, e potenti uffici legali, che perseguono chiunque tenti di far filtrare informazioni.

Si ricordano alcuni casi eclatanti – imprese petrolifere che distruggono territori con il loro micidiale impatto estrattivo, ma si presentano come “ecologiche” – ma è più difficile individuare la pervasività del fenomeno a livello del consumo locale: giacché le grandi imprese – che investono fiumi di denaro nelle campagne pubblicitarie -, cambiano il nome o l’etichetta del prodotto per assecondare il gusto dei consumatori.

“Non c’è modo di evitare una situazione catastrofica se il mondo sviluppato e quello in via di sviluppo non sono in grado di stabilire un patto storico, perché al livello attuale, saremo condannati”, ha detto Guterres, rilevando come metà dell’umanità si trovi “nella zona di pericolo a causa di inondazioni, siccità, tempeste estreme e incendi”. Nessuna nazione è immune – ha aggiunto -. Eppure continuiamo ad alimentare la nostra dipendenza dai combustibili fossili”.

Un recente rapporto delle Nazioni unite, ha inoltre denunciato che la maggior parte dei paesi non sta mantenendo gli impegni presi per ridurre la produzione di carbonio e le emissioni di gas serra, che aumenteranno di un 10,6% per il 2030 rispetto ai livelli del 2010. Per gli scienziati, le emissioni di gas serra si dovrebbero ridurre del 43% per il 2030 per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius, onde evitare che la situazione vada fuori controllo. “La scienza ci dice che non stiamo andando affatto per la buona strada”, ha commentato il principale negoziatore climatico dell’Egitto, Mohamed Nasr.

La Conferenza delle parti si riferisce ai paesi che, nel 1992, hanno firmato a Rio de Janeiro la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, il primo trattato internazionale che ha messo al centro il riscaldamento globale. Il suo primo capitolo si è svolto a Berlino nel 1995, a cui ne sono seguiti altri 27, uno per ogni anno, fatta eccezione per il 2020, a causa della diffusione globale della pandemia da covid-19.

Il 2015 è stato l’anno in cui si sono stipulati accordi vincolanti fra le parti con la firma dell’Accordo di Parigi, che ha stabilito di limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2ºC e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5ºC. L’Unione europea l’ha ratificato il 5 ottobre 2016 ed è entrato in vigore il 4 novembre 2016. Nel 2015, un rapporto del Fondo Monetario Internazionale calcolava che le sovvenzioni a favore delle fonti fossili erano state superiori alla spesa sanitaria totale di tutti i governi del mondo. In pratica, disse quel rapporto, le compagnie che producevano combustibili fossili, avevano allora percepito aiuti pubblici, diretti e indiretti, pari a 5.300 miliardi di dollari all’anno, ossia il 6,5% del Pil mondiale. Soldi che, secondo l’Fmi, erano stati sottratti agli investimenti per le energie rinnovabili a cui erano destinati 120 miliardi di dollari l’anno.

Secondo l’Fmi, il combustibile che riceveva in quell’anno le maggiori sovvenzioni, in proporzione ai danni ambientali prodotti e per il fatto che nessun paese applicava accise significative sul suo consumo, era il carbone, con poco più della metà del totale, a seguire il petrolio che, dato il grande uso che se ne faceva e se ne continua a fare per i trasporti, si mangiava un terzo dei sussidi, e il resto se lo prendeva il gas. Secondo quel rapporto, ipotizzare una riforma di quei finanziamenti avrebbe potuto avere un impatto enorme in termini fiscali, ambientali e sul welfare, e avrebbe risparmiato 1,6 milioni di vite ogni anno, costituite dalle morti premature legate all’inquinamento dell’aria.

Non essendo l’Fmi un’associazione a carattere benefico, quel rapporto mirava a orientare la cosiddetta “transizione verde”, uno dei principali temi oggetto dei gruppi di lavoro della Cop21, che poi sarà al centro della proposta globale di Biden come grande operazione di resettaggio del capitalismo mondiale per il post-pandemia. Una proposta che, nel contesto egemonico inteso dal “multilateralismo” bellico dei democratici Usa, elude le responsabilità del principale inquinatore del pianeta e il disequilibrio che provoca il modello capitalista nelle relazioni tra nord e sud. Le “riforme” imposte dall’Fmi si basano, infatti, su prestiti da erogare in cambio di cambiamenti strutturali nelle politiche dei governi, e i costi della “transizione verde” pesano sulle classi popolari dei paesi del sud “Se il clima fosse una banca, lo avrebbero già salvato”, disse con ragione Chavez.

Alla Cop27, che torna in Africa dopo sei anni, i paesi del sud mettono in causa nuovamente la natura e la proporzione degli “aiuti”, denunciano ritardi e inadempienze nei finanziamenti per la transizione energetica, mostrano i costi dell’adattamento ai cambiamenti climatici già provocati, e chiedono la compensazione dei danni subiti, sia in termini di costi umani che economici.

Secondo l’ultimo rapporto Onu sull’ambiente, ai paesi del sud servirebbero per questo circa 340 miliardi di dollari entro il 2030, mentre attualmente ne ricevono dieci volte meno. L’anno scorso, i paesi capitalistici avanzati hanno promesso di arrivare fino a 40 miliardi entro il 2025, ma hanno respinto la proposta di “loss & damage” (perdita e danno) presentata dai paesi del sud. Nicolas Maduro ha ricordato che ad essere colpiti in modo sproporzionato dagli effetti del cambiamento climatico sono prima di tutto le popolazioni vulnerabili che hanno meno risorse, e che hanno contribuito meno all’aumento del riscaldamento globale.

L’India, per esempio, che dipende dal carbone per il 70% della generazione elettrica, e che è uno dei paesi più esposti agli effetti catastrofici del cambiamento climatico, avrebbe bisogno di oltre 220 miliardi di dollari all’anno in investimenti per riconvertire la propria economia. I paesi africani ricevono solo il 3% dei fondi sul clima, e perdono ogni anno 7-15 miliardi di dollari, benché contribuiscano solo al 4% delle emissioni globali.

Maduro ha denunciato come, a seguito della crisi energetica, i paesi del Nord (orientati in precedenza a cessare i finanziamenti allo sfruttamento di combustibili fossili in Africa), siano ritornati sui loro passi. Una delle rivendicazioni portate al vertice, è dunque quella che i paesi africani possano sfruttare le proprie risorse per lo sviluppo nazionale, a fronte di una crisi energetica che pesa soprattutto su di loro.

Il cambiamento climatico, con il suo corredo di alluvioni e desertificazioni, incide anche sulla produzione alimentare e sull’accesso al cibo da parte delle popolazioni vulnerabili. Centrale è stato, quindi, il tavolo dedicato al nesso dei cambiamenti climatici con la crisi alimentare, a cui ha partecipato il Venezuela, che persegue l’obiettivo della sovranità alimentare, a dispetto delle misure coercitive unilaterali imposte dall’imperialismo.

Risultati emersi anche nell’incontro fra Maduro e il suo omologo francese Manuel Macron nell’ambito del vertice. Maduro ha nuovamente teso la mano a uno dei principali sostenitori del fantomatico “governo parallelo” dell’autoproclamato Juan Guaidó, e ha invitato Macron in Venezuela: per constatare i risultati della resistenza eroica del popolo bolivariano e del suo governo, che è riuscito a spezzare l’assedio e vanta la crescita economica più alta della regione. Macron, che in un’Europa che corre verso la recessione e che paga così la sua subalternità agli Usa, non può certo dire altrettanto, ha detto che chiamerà Maduro quanto prima per stabilire un’agenda bilaterale.

Un incontro – ha detto il vicepresidente del Psuv, Diosdado Cabello, nella conferenza stampa settimanale del partito – che ristabilisce la verità dei fatti in uno scenario internazionale: “la verità del Venezuela”, e del suo presidente legittimo, che ha portato al vertice “la voce dei popoli in difesa dell’umanità”. La crisi energetica,  evidenziatasi a seguito dell’atteggiamento miope dell’Unione europea contro la Russia – ha aggiunto Cabello -, mostra quanto fossero ipocriti i proclami in difesa dell’ambiente pronunciati dai paesi capitalisti, pronti oggi a tornare al carbone. Al contrario -ha ricordato -, il Venezuela bolivariano, in base al quinto punto del Plan de la Patria, che stabilisce la difesa dell’ambiente e della Madre terra, indica con coerenza un cammino alternativo al capitalismo.

 Alla Cop27, Maduro ha proposto un vertice dei paesi sudamericani per salvare l’Amazzonia: per stroncare “tutti i processi di distruzione del polmone del mondo”. Una proposta discussa con il nuovo presidente del Brasile Lula da Silva e con quello della Colombia, Gustavo Petro, che l’ha illustrata al vertice. Per l’occasione, Petro ha anche denunciato la ferocia delle misure coercitive unilaterali imposte dall’imperialismo. “È l’ora dell’umanità e non quella dei mercati”, ha detto rifiutando di comparire nella foto ufficiale con gli altri capi di stato, e chiedendo la messa in campo di un piano globale per la fuoriuscita dagli idrocarburi.

La critica al modello capitalista, se si limita alla sfera “morale”, e non ne investe le cause strutturali, può grattare, infatti, al massimo un po’ di crosta. E allora, conviene volgere lo sguardo a un altro grande incontro internazionale, che si è concluso domenica 6 a Buenos Aires, in Argentina. Parliamo della Runasur, la Unasur dei Popoli, diretta da Evo Morales, che l’ha ideata nel 2019.

L’ex presidente boliviano spiegò che il proposito era quello di “sanare un debito storico che i popoli devono scontare in un contesto di crisi economica, sociale, culturale e, soprattutto, di vita”. Nello specifico, si trattava di “dare continuità alle linee proposte a suo tempo dalla Unasur, ma senza essere sottoposti ai cambi di indirizzo dei governi di turno”.

Così, dopo due anni di incontri in diverse città del Latinoamerica, ha avuto luogo l’Assemblea Plurinazionale, costitutiva della Runasur, alla quale hanno partecipato centinaia di rappresentanti di movimenti sociali, sindacali, afrodiscendenti e dei popoli originari di 14 paesi: in difesa della vita, dell’identità culturale, della sovranità, dell’anticolonialismo e dell’antimperialismo.

(Articolo scritto per Cuatro F)

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