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Intervista a Geraldina Colotti, autrice de “Talpe a Caracas”, con all’interno un’inchiesta sulle carceri in Venezuela. “Chi fa il paragone con Videla dice un’assurdità. Si usano dati e statistiche provenienti da una fonte unica e parzialissima, redatte da persone e ong che li confezionano in base a indicazioni politiche precise”
Nella campagna mediatica contro il Venezuela delle ultime settimane, molto trendy negli ambienti abituati a creare il terreno adatto per i “golpe bianchi” sembra essere il tema delle carceri. In un surreale articolo di Repubblica – Il Venezuela come l’Argentina di Videla, torture e violenze nelle carceri segrete – si arriva addirittura a un paragone con il sanguinario dittatore argentino di fine anni ’70. L’operazione è chiara: si cerca una destituzione violenta del governo di Caracas, sul modello di quello che è già avvenuto in tanti altri paesi recentemente. Non c’è nulla di nuovo e non vale la pena spendere ulteriori parole come AntiDiplomatico.
Sulla situazione delle carceri in Venezuela e sul ruolo dei media abbiamo sentito al telefono Geraldina Colotti, scrittrice e giornalista de il Manifesto che ha visitato varie volte le prigioni venezuelane (l’ultima meno di un anno fa), e che ne ha dato conto anche in un capitolo del suo libro “Talpe a Caracas”, edito da Jaca Book.
Le carceri venezuelane sono come quelle di Videla?
E’ un’assurdità. Si usano dati e statistiche provenienti da una fonte unica e parzialissima, redatte da persone e ong che li confezionano in base a indicazioni politiche precise per suonare una sola campana. Si tratta di vecchie campane stonate che parlano, scrivono e spesso non girano per le carceri, non perché venga loro impedito, ma perché il loro presunto interesse “umanitario” persegue fini politici. Come nel caso dell’Osservatorio siriano a Londra, si accreditano come unica fonte millantando un’oggettività che non hanno, ma che viene ripresa e amplificata anche da molte ong. La costituzione bolivariana è una delle più garantiste al mondo. Molti di quelle che l’hanno redatta hanno subito il carcere e le torture durante gli anni delle “democrazie di Punto Fijo” della IV Repubblica, durante i quali si buttavano gli oppositori dagli aerei ben prima che lo facesse Videla. Allora sì che si torturava nella “tumba”, che ora non esiste più. Il Venezuela, proprio su carceri e diritti umani ha recentemente passato l’”esame” annuale dell’Onu. Come si spiega? Perché quelle fonti non vengono citate? Evidentemente, il gioco è viziato all’origine.
In che senso?
Nel senso che i dati, le cifre, i problemi vanno analizzati nel contesto e in prospettiva storica. Non si è in buona fede nelle analisi se non si mette a confronto, per quel che riguarda il Venezuela, la totale assenza di democraticità e di istituzionalità che c’era nelle carceri prima dell’arrivo di Chavez rispetto ad oggi. I dati ci sono, gli studi anche, basta confrontare le fonti. Per esempio, una delle prigioni storiche, La Planta, che si trovava nella capitale, che si portava appresso la perversa eredità di abbandono della IV Repubblica e che descrivo nel libro Talpe a Caracas, oggi non esiste più. Al suo posto c’è un parco dove giocano i bambini, i detenuti sono stati trasferiti nei penitenziari dove la vita è regolata dallo studio, dalle attività culturali e anche dal lavoro. Uno dei programmi di reinserimento più seguiti si chiama il Plan Cayapa. I detenuti e le detenute in misure alternative fanno anche parte dell’orchestra venezuelana. Una situazione idilliaca? Tutt’altro, ma sono stati fatti grandi passi avanti in un’ottica di recupero e non di repressione. Bisogna tener conto che la popolazione carceraria venezuelana è rimasta nel totale abbandono per tanti anni. Come in altri paesi dell’America latina ha così preso forma uno Stato nello Stato in cui le mafie, i traffici e le prevaricazioni hanno effettivamente preso il sopravvento. Sussistono ancora “zone franche” in cui i detenuti sono armati. Non è facile “risolvere” il problema se non si vuole usare il pugno di ferro e fare una strage. Prima dell’arrivo di Chavez la situazione era simile a quella che permane in gran parte dell’America Latina e che viene fuori solo molto raramente, quando i media danno conto en passant di cuori strappati, teste mozzate come in Brasile o Messico. In Colombia, per fare un altro esempio, non si dice mai quanto sia drammatica la situazione dei diritti umani, con prigionieri politici non curati o prigionieri sociali lasciati nel più completo abbandono. Ma senza andare troppo lontano, noi viviamo in un paese che con il 41 bis ha legalizzato la tortura bianca, che ha torturato i prigionieri politici della lotta armata, e che nega i diritti umani, come quello di ricevere libri, a quelli che ancora rimangono in carcere.
Perché certi “sinceri democratici” chiedono la forca nel proprio paese e s’interessano di quel che accade a Caracas e non in Colombia o in Messico? Mi sembra un umanitarismo un po’ peloso. La condizione delle carceri rispecchia quella della società: le privatizzazioni dei servizi, la scure sui diritti pesa molto di più su chi è costretto in cella. I tagli all’assistenza sanitaria, in carcere, il sovraffollamento, favoriscono il ritorno di malattie dimenticate. Lo stesso avviene in Colombia, in Messico. E in Guatemala, dove i pochi soldi stanziati per i minori a rischio in una casa-rifugio diventata un lager servivano per finanziare loschi traffici, sono morte bruciate 41 bambine. Un femminicidio di Stato. In un sistema che tutela i privilegi e calpesta i diritti degli ultimi, questi sono i risultati.
E in Venezuela? Lei è stata nelle carceri venezuelane in tante occasioni. Qual è la situazione?
In Venezuela si è fatto un grande sforzo per portare le istituzioni nelle carceri. Questo, naturalmente, ha i suoi lati positivi, ma anche i suoi costi. Mettere regole ha dei costi, anche per una società che persegue l’ideale del “socialismo umanista” come fa il Venezuela. Lo dico anche dal punto di vista di chi ha soggiornato a lungo nelle carceri speciali come prigioniera politica. Inoltre, se non si vuole usare il metodo repressivo per la soluzione dei problemi, gli effetti si possono avere solo nel medio-lungo periodo. Intanto, le bande armate esistono. Intanto, il paramilitarismo esiste, dentro e fuori le carceri e viene usato a fini politici. L’insicurezza colpisce prima di tutto le zone popolari e questo le forze conservatrici che se ne alimentano, lo sanno. Sono stata diverse volte nelle carceri venezuelane. La prima nel 2010 e l’ultima meno di un anno fa, quasi sempre in maniera non ufficiale, ma ho potuto verificare che non ci sono intoppi per chiunque voglia verificare di persona la situazione. Ho visto detenuti di opposizione che secondo quei dati venivano torturati e isolati gestire… una pizzeria all’interno del carcere. I miglioramenti sono visibili da un anno all’altro, chiunque può verificarlo, confrontando testimonianze a dati di quel che c’era prima. D’altro canto, basterebbe fare qualche osservazione elementare. Come fa Leopoldo Lopez, il leader di estrema destra detenuto nel carcere militare di Ramo Verde a mandare in internet video e proclami mentre ci viene raccontato che si troverebbe in isolamento e sottoposto ad arbitrii? Andate a chiedere a una detenuta politica italiana se può avere un cellulare o mandare proclami incendiari all’esterno… Molto del lavoro progressista svolto nelle carceri venezuelane si deve all”impegno della ministra Iris Varela (nella foto, ndr), un’abolizionista per utilizzare un termine che in Europa comprendiamo. Lei è andata da sola nelle carceri dove non c’era nessun tipo d’istituzione e ha scelto di cambiare le cose all’interno senza utilizzare la forza. Qui si parla molto di mediazioni con i capi banda. Ma l’opposto della repressione è proprio la mediazione, è proprio mettere al centro il dialogo e non le pallottole. Una campagna come quella che è stata fatta da Chavez e da Maduro – ti offro una chitarra tu mi dai la pistola – è un altro modo di andare nei quartieri difficili e provare a dare soluzioni.
E quindi in ultima analisi come rispondere a chi paragona il Venezuela di Maduro all’Argentina del dittatore Videla?
Sta scomparendo il confine tra informazione e propaganda di guerra. Si assume il racconto di una sola parte – quella delle grandi imprese mediatiche che rappresentano i potentati finanziari ed economici – e si fa campagna. La cosa davvero triste è che sia scomparso del tutto e ormai in modo inequivocabile il tanto celebrato pluralismo dell’informazione. Lo abbiamo visto in tanti conflitti recenti del passato, ma nel caso del Venezuela ha raggiunto livelli impressionanti. Non ci sono più le fonti. La parte maggioritaria viene resa invisibile. Non siamo alla critica, siamo alla propaganda di guerra per abbattere un’idea, un governo, un progetto che prova a indicare un’altra strada: sgradita e contraria agli interessi di quelle 60 famiglie che governano il mondo.
Alessandro Bianchi
* Su gentile concessione dell’Autrice pubblichiamo il capitolo di “Talpe a Caracas”, Jaca Books, dedicato alle carceri venezuelane.