L’ultima alba del dittatore Fulgencio Batista

Già con le ore contate, nella debacle del suo regime criminale, Batista rivolse lo sguardo alla tana di Rafael Leónidas Trujillo, suo omologo della Repubblica Dominicana

Juventud Rebelde – Luis Hernández Serrano

Di fronte alla imminente caduta nelle mani dei barbudos comandati da Fidel, esattamente mezzo secolo fa, Fulgencio Batista ed i suoi scagnozzi più vicini fuggirono, allo sbando, come ladri nella notte.

All’improvviso ebbe luogo l’eterno epilogo di tutti i dittatori. L’arrogante satrapo, di gesti teatrali, scappava con la copertura dell’alba, con la fretta di un ladro sorpreso mentre forzava una finestra. E “quello” -disse la stampa di allora- lo chiamavano “L’uomo!”

Si compiva, ancora una volta, la tesi che i tiranni si aiutano a vicenda per sostenersi al potere, e al momento della debacle, dopo un bagno di sangue che durò sette anni, si voltò a guardare la tana del despota Rafael Leonidas Trujillo.

Il dittatore della Repubblica Dominicana doveva salvargli la vita, in tempo, all’amico fedele. I due emulavano per quantità di crimini: uno insanguinava la terra di Máximo Gómez, e l’altro affogava in ombre di dolore e crimini la patria di José Martí.

Come Trujillo e gli altri dittatori, il tiranno Batista giunse a credere che la repubblica fosse una proprietà privata per il suo sfruttamento, quello della sua famiglia e della sua cricca.

Verso là se ne andò all’alba del 1 gennaio 1959, per ruminare -in un silenzio gravido di superbia- il bruciore che gli causava la certezza della sua sconfitta finale.

Nello sbandamento che saturò le prime pagine di tutti i giornali del mondo, si parlò della fuga dello spavaldo simulatore che si vantava di onorevole soldato, senza esserlo; di coraggioso, e mai lo dimostrò; di di”intellettuale” onorato, ed era un ladrone. Simulò esser giusto, puro, laborioso e nobile, ma il nostro popolo mai avrebbe potuto credere a queste falsità.

Una quasi impenetrabile riserva aveva protetto la fuga del sinistro prepotente, che apparentemente rimaneva sereno, impartendo ordini, sbrigando affari governativi e annunciando piani per il futuro.

Qualcuno aveva notato l’invio dei figli di Batista all’estero, lunedì 29 dicembre, accompagnati dall’amministratore della dogana dell’Avana, Manuel Pérez Benitoa.

Non scarseggiavano i sospetti. Da diversi giorni in alcuni circoli ufficiali e diplomatici diffidavano di una brusca svolta nella situazione politica nazionale, anche perché erano a conoscenza della spinta dei guerriglieri della Sierra Maestra che erano già nelle pianure di Las Villas.

Batista -si sapeva- era una bestia in quasi tutto ed inoltre nascondeva ciò che non gli conveniva che conoscesse il popolo. La sua partenza dal Palazzo Presidenziale la fece normalmente, senza passaggi di valigie o bauli, e si sforzò di non lasciarsi sfuggire un solo indizio della fuga programmata.

Tale era il suo modo di coprire quanto previsto che, anche per depistare e pianificare bene il suo misfatto, impartì istruzioni ad alcuni funzionari della presidenza sull’agenda di lavoro in vista di una riunione che avrebbe effettuato giovedì 2 gennaio nello stesso Palazzo.

Già a quel punto, il primo ministro Gonzalo Güell ed il ministro del Lavoro, “Pepe” Suárez Rivas, gestivano, con Trujillo, la migliore sistemazione per l’imminente arrivo dei fuggiaschi.

Naturalmente l’Avana si rese presto conto che stava succedendo qualcosa di strano. Circolava il pettegolezzo che c’erano più di mille morti nei bombardamenti di Santa Clara, che erano “piloti di Trujillo” e che si notava uno strano “via-vai” in Colombia.

Il generale Eulogio Cantillo Porras, che aveva tradito l’accordo siglato con Fidel in Oriente, entrava ed usciva, più volte, da uno degli uffici nella fortezza, mentre fuori, nel poligono e nelle caserme, la inquietudine si propagava nella truppa.

Il trambusto degli alti ufficiali si poteva facilmente valutare nella residenza presidenziale della Columbia. Un nutrito gruppo di gerarchi civili si alternava, sospettosamente, con i capi militari. Le frequenti partenze del generale Cantillo e del dittatore suggerivano un perfetto accordo tra entrambi, mentre gli elementi politici, disorientati, cambiavano le impressioni con sussurri.

In quelle singolari vigilie dell’Anno Nuovo si ascoltavano, in modo insistente, i telefoni. La sfiducia e l’allarme invadevano l’animo di molti importanti batistiani, e le macchine correvano veloci verso la principale fortezza militare del paese.

Il dittatore, in uno degli ultimi Consigli dei Ministri, uò la sua falsa bizzarria per nascondere, il più possibile, il terrore che gli ispirava i successi, nei combattimenti, dell’esercito ribelle:

“Signor -cominciò dicendo- so come nessuno la gravità della situazione, quindi non ho bisogno che mi si facciano osservazioni. Voglio che sappiate che compierò i miei doveri, qualunque cosa accada, e spero che voi sappiate fare lo stesso.

Tali stratagemmi fecero dubitare alcuni dei più stretti complici del tiranno. Nelle fonti immediate di Batista, tuttavia, i rapporti erano di un altro tipo. La nomina di José Eleuterio Peraza e di Joaquín Casillas Lumpuy, ed il bombardamento di Santa Clara, si interpretavano come una ferma decisione del tiranno di resistere (!) fino alla fine.

La sua apparente spavalderia ricordava o imitava le ultime decisioni di Adolf Hitler nelle cantine della Cancelleria, sotto le granate dell’Esercito Sovietico.

Il motorizzato spostamento verso Columbia assunse un volume maggiore con la notte, ma il pretesto della festa di fine anno serviva a mascherare il senso di panico regnante.

Molti scagnozzi del dittatore vollero verificare, personalmente, se la nave stava facendo acqua, e accorsero alla residenza presidenziale nella fortezza, con le loro pistole ben visibili, pronti ad imporre il loro passaggio in aereo, con le buone o con le cattive!

Gastón Godoy e Anselmo Alliegro e altri importanti rappresentanti del governo commentarono tra loro che la situazione era diventata “peggiore che mai!”

Il presidente, cercando di far vedere che era un coraggioso, criticò Andrés Rivero Agüero per un comunicato di felicitazione che volle trasmettere al popolo, parlandogli di “pace e concordia” e gli disse: “Lascia stare questo, ragazzo. Penseranno che sei un codardo. Bisogna schiacciare l’insurrezione per dare una lezione. Il governo è ora più forte del primo giorno!”

Nonostante la spavalderia delle relazioni emesse dallo Stato Maggiore Generale Congiunto dell’Esercito, la stragrande maggioranza dei capi militari che, in quei momenti, circondavano il dittatore sapevano bene la situazione reale di Oriente e di Las Villas. Gaston Godoydisse ad Alliegro: “Cantillo mi ha confessato ora che nulla può impedire la caduta di Santa Clara. Sono inorridito, quanto sangue!” Era un’espressione di scrupoli tardivi.

Minuti prima della fuga precipitosa

 

Esattamente alle 12 di notte, il dittatore si diresse verso la sala da pranzo. Brindarono con il morbido tintinnio delle coppe. Teatrale fino all’ultimo minuto, diede per conclusa la cerimonia con il suo solito “Salute, salute!” E subito guardò Cantillo affinché recitasse la parte del copione provato del tradimento e fuga.

-Signor Presidente, i capi e gli ufficiali dell’esercito ritengono che le sue dimissioni contribuiranno a ristabilire la pace di cui il paese ha tanto bisogno.

Coloro che avevano partecipato alla stesura della commedia, rimasero calmi, ma quelli che erano nuovi a tale richiesta, scambiarono sguardi di stupore e ansietà.

Batista interpretò molto cinicamente i suoi panini pre-confezionati in Colombia pochi giorni prima, e all’una del mattino dava istruzioni a Cantillo, con una tazza di caffè con latte caldo nella mano destra. Un assistente gli porse il telefono, ascoltò quello che gli dicevano, impallidì, lo appese con gesto nervoso ed ordinò:

-Andiamo!

Rivero Agüero gli chiese: «Dove?», E Batista gli disse quasi correndo: «Ragazzo, non chiedere, andiamo, uccideranno anche te! Dì a tua moglie di prendere i bambini»; e – -rivolgendosi a sua moglie- disse: “Marta, sveglia la bambina!”

Una carovana di macchine li portò all’aeroporto militare, fortemente scortato da truppe avvertite. Dietro Batista e la sua famiglia salirono sull’aereo i principali sinistri personaggi come Pilar Garcia, il figlio Irenaldo, Carratalá, il clan dei Tabernilla, Pérez Coujil, Orlando Piedra e altri sbirri. La flottiglia era composta da quattro aeroplani in totale. In altri mezzi (yachts, barche, ambasciate) il resto dei corrotti, assassini e torturatori si ponevano in salvo, tra cui Masferrer, Pedraza, Mujal, Guell, Godoy, Laurent, Justo Luis del Pozo, Esteban Ventura Novo e altri.

Il tradimento di Cantillo si era consumato, ma nessuno poteva eludere il trionfo della Rivoluzione. La serena energia di Fidel a Santiago, l’avvertimento che trasmise al paese, l’ audacia marcia delle Colonne di Camilo e del Che dal centro dell’isola, la collaborazione del popolo -soprattutto del proletariato- nello sciopero generale ordinato dal Comandante in capo e la tempestiva azione delle Milizie fecero superare la crisi.

Al sapersi della fuga del tiranno e della sua banda di criminali, il popolo si convertì in un esercito civile nelle strade.

L’ultimo servizio dell’Ambasciata USA all’Avana fu di propiziare il colpo di stato militare del generale Eulogio Cantillo Porras, che consentì la fuga del dittatore e dei suoi complici. Ma le barbe ribelli si diffusero in seno al popolo.

Fuente: Revista Bohemia, 11 de enero 1959. «Revolución, sí; golpe militar, no», Fidel Castro Ruz, en «La Revolución Cubana: 45 grandes momentos», Julio García Luis, Ocean Press, 2006. El golpe de Estado del 10 de marzo de 1952, Mario Mencía; La vida secreta de Meyer Lansky en La Habana, Enrique Cirules, Editorial Ciencias Sociales, 2004; Entrevista con Marilú Uralde Cancio, Instituto de Historia de Cuba.

Batista ed i suoi seguaci

 

Il dittatore Batista fuggì dal paese con oltre 400 milioni di pesos altrui. Dal 1933 al 1944 rubò a man bassa e regalò alla sua prima moglie quattro milioni.

Dal 1944 al 1948, con il sottratto, viaggiò per l’America su un treno di milionari, si stabilì presso l’Hotel Waldorf Astoria, di New York, e fece costruire una residenza nella città USA del sud di Daytona Beach.

Ritornò a Cuba nel 1948, per un posto senatoriale liberal-democratico di Las Villas che gli costò una fortuna, per salire, un’altra volta, al potere e ri arricchirsi.

La sua losca origine

 

Nato a Banes, Oriente, studiò lì la scuola elementare, fu tagliatore e pesatore di canna ed entrò nelle ferrovie. A causa delle sue grandi e segrete ambizioni, accettò tutto ciò che gli avrebbe portato più profitto.

Nel 1921 entrò nell’esercito per avere il tempo di trasferirsi a suo capriccio all’Avana. Studiò stenografia e non perse l’opportunità di aumentare le sue entrate. Aggiustò libri commerciali, amministrò beni, portò frutti da rivendere nei mercati, e quando si vide sergente stenografo dello Stato Maggiore dell’Esercito, iniziò a relazionarsi con gli alti ufficiali, e si addentrò nella complessità del potere militare a Cuba.

Secondo Enrique Cirules nel suo libro su Meyer Lansky, il precedente “fa parte della storia ufficiale che è stata ripetuta per molti anni. Ma c’era un altro lato nascosto, un Batista con un oscuro passato da bordello, in quartieri di cattiva fama, socio di matrone, transfughi, scaldaletti, delinquenti e sfruttatori del tempo.

“Il sergente conosciuto in taverne e bordelli del porto come “L’Indio pulito” -aggiunge Cirules- presto si legò ai mafiosi che trafficavano con alcol e rum durante il proibizionismo”.

Quando crollò la tirannia di Machado, Batista (sostenuto dai servizi segreti USA) s’installò come capo colonnello Capo dell’Esercito, occupò una buona posizione nel potere militare, e stabilì subito forti relazioni con personaggi della mafia USA come l’ebreo Meyer Lansky, luogotenente di Lucky Luciano.

I boia

 

Senza i carnefici dei suoi corpi repressivi, Batista non avrebbe potuto mantenersi al potere per sette anni.

Esteban Ventura Novo, ascese su una collina di cadaveri e le sue stelle sgorgarono sangue a fiotti.

Pilar García, con nome da donna e l’anima di assassino, era in pensione, ritornò a disonorare l’uniforme con un sacco di crimini e impiantò il “metodo Garcia”: l’assassinio alle spalle!

Manuel Ugalde Carrillo seminò la morte sulle mura come un buon discepolo di Torquemada, e Batista lo mandò nei luoghi in cui voleva impiantare il terrore.

Sotto il comando di Rafael Salas Cañizares (che il popolo chiamava “Massacro”) i suoi oppositori annegarono nel sangue e furono commessi innumerevoli abusi.

Francisco Tabernilla Dolz colpì e torturò con lo slogan “dar fuoco alla caraffa fino a quando non lascia il fondo”.

Jose Eleuterio Pedraza (un despota che non lasciava per un secondo la sua frusta), uccise ogni rivoluzionario che incontrò lungo la strada.

Joaquín Casillas Lumpuy, tra molti altri felloni, fu l’assassino del dirigente dei lavoratori dello zucchero Jesús Menéndez.

Conrado Carratalá Ugalde (soprannominato “lo strano”, senza alcun rivale in crimini) in una settimana passò da semplice vigilante a Colonnello della Polizia. Compare di Ventura, aveva sete di sangue ed in sessioni di torture e omicidi si sentiva come un pesce nell’acqua.

Julio Laurent, oltre che l’assassino di Jorge Agostini, uccise con predilezione numerosi prigionieri indifesi.

Alejandro García Playón, con il soprannome di “Nito Matasiete”, assassinò molti compatrioti con le sue stesse mani.

Uno dei principali cani da preda di Batista, Leopoldo Pérez Coujil, era appassionato a spaccare teste.

Jacinto Menocal scelse la via del crimine, prima nella SIM e poi a L’Avana e Pinar del Río. Fu una iena! Solo a Los Palacios mieté almeno 108 vite.

José María Salas Cañizares aveva vocazione di assassino e i suoi più grandi crimini li commise a Santiago de Cuba.

Orlando Piedra Negueruela, capo dell’Ufficio investigativo, ordinò di impiccare e massacrare molti giovani.

Tra Carlos Tabernilla Palmero – capo dell’aeronautica e figlio di “Pancho”, il vecchio ruffiano capo dello stato maggiore- ed i suoi fratelli, si divisero l’esercito come se fosse un’eredità familiare. I suoi aerei bombardarono senza pietà i contadini della Sierra Maestra.

Lutgardo Martín Pérez (grande teppista al soldo) iniziò la sua carriera con il criminale Rolando Masferrer. Non comprese altro idioma che quello della tortura contro uomini ammanettati o legati.

Juan Salas Cañizares, a capo dei “persecutori” della Radio-motorizzata, usava il frustino come suo modo preferito di parlare con la cittadinanza.

Alberto Triana Calvet, che era solo sergente, Batista lo fece capo militare di Matanzas. Da lì andò a Camagüey e poi ad Holguín, dove, a suo capriccio, insanguinò la gioventù.

Batista promosse tutti questi personaggi, un campionario paragonabile solo ai nazisti di Adolf Hitler. Fece lo stesso con altri capi delinquenti e senza battaglie. Promosse in totale a sei generali, 17 colonnelli, 16 tenenti colonnelli, 41 comandanti, 77 capitani, tre primi tenenti e due secondi tenenti. Più di 30 di loro commisero omicidi, appropriazione indebita, maltrattamento, coercizione, minaccia, alterazione dell’ordine, falsificazione di documenti ed altri crimini.

La guerra fu per loro l’esame finale, ma il 1 gennaio 1959 l’Esercito Ribelle e i combattenti della pianura li disapprovarono, cioè, li sconfissero.


La última madrugada del dictador Fulgencio Batista

Ya con las horas contadas, en la debacle de su régimen criminal, Batista volvió la mirada hacia la guarida de Rafael Leónidas Trujillo, su homólogo de República Dominicana

Periódico Juventud Rebelde Luis Hernández Serrano

Ante la inminencia de caer en manos de los barbudos comandados por Fidel, hace medio siglo exacto, Fulgencio Batista y sus más allegados secuaces huyeron en desbandada como ladrones en la noche.

Estrepitosamente tuvo lugar el eterno desenlace de todos los dictadores. El arrogante sátrapa, de gestos teatrales, se escapaba al amparo de la madrugada, con la premura de un ratero sorprendido mientras forzaba una ventana. ¡Y a «eso» —dijo la prensa entonces— le llamaban «¡El Hombre!».

Se cumplía una vez más la tesis de que los tiranos se ayudan mutuamente para sostenerse en el poder, y ya en la hora de la debacle, tras una orgía de sangre que duró siete años, volvió la mirada hacia la guarida del déspota Rafael Leónidas Trujillo.

El dictador de República Dominicana tenía que salvarle la vida a tiempo al fiel amigo. Los dos emulaban en cantidad de crímenes: uno ensangrentaba la tierra de Máximo Gómez, y el otro ahogaba en sombras de dolor y crímenes la patria de José Martí.

Como Trujillo y los demás dictadores, el tirano Batista llegó a creer que la república era una finca privada para su disfrute, el de su familia y el de su camarilla.

Hacia allá partió en la madrugada del 1ro. de enero de 1959, a rumiar —en un silencio preñado de soberbia— el escozor que le provocaba la certidumbre de su derrota final.

En desbandada que saturó las primeras planas de todos los periódicos del mundo, se habló de la fuga del envalentonado simulador que presumía de honorable soldado, sin serlo; de valiente, y no lo demostró nunca; de «intelectual» honrado, y era un ladrón. Simuló ser justo, puro, trabajador y noble, pero nuestro pueblo nunca pudo creerle esas falacias.

Una casi impenetrable reserva había protegido la fuga del siniestro mandón, quien en apariencia permanecía sereno, dando órdenes, despachando los asuntos de Gobierno y anunciando planes de futuro.

Alguien se había percatado del envío de los hijos de Batista para el extranjero, el lunes 29 de diciembre, acompañados por el administrador de la Aduana de La Habana, Manuel Pérez Benitoa.

No escaseaban las sospechas. Desde hacía varios días en determinados círculos oficiales y diplomáticos recelaban de un brusco viraje en la situación política nacional, porque además estaban al tanto del empuje de los guerrilleros de la Sierra Maestra que ya estaban en los llanos de Las Villas.

Batista —se sabía— era una fiera en casi todo y más ocultando lo que no le convenía que trascendiera al pueblo. Su partida del Palacio Presidencial la hizo normalmente, sin trasiegos de maletas ni baúles, y se esmeró en tratar de no dejar escapar ni un solo indicio del despelote planificado.

Tal fue su manera de encubrir lo previsto que incluso, para despistar y planificar bien su fechoría, impartió instrucciones a algunos funcionarios de la presidencia sobre la agenda de trabajo con vistas a una reunión que efectuaría el jueves 2 de enero en el propio Palacio.

Ya a esas alturas, el primer ministro Gonzalo Güell y el titular de Trabajo «Pepe» Suárez Rivas, gestionaban con Trujillo al mejor acomodo para la inminente llegada de los fugitivos.

Claro que La Habana se percató enseguida de que algo raro acontecía. Circulaba la bola de que había más de mil muertos en los bombardeos en Santa Clara, que eran «pilotos de Trujillo» y que se notaba un extraño «corre-corre» en Columbia.

El general Eulogio Cantillo Porras, que había traicionado el acuerdo que selló con Fidel en Oriente, entraba y salía varias veces de una de las oficinas en la fortaleza, mientras afuera, en el polígono y los cuarteles, la inquietud cundía en la tropa.

El ajetreo de altos oficiales se podía apreciar fácilmente en la residencia presidencial de Columbia. Un nutrido grupo de jerarcas civiles alternaban sospechosamente con los jefes militares. Los frecuentes apartes del general Cantillo y el dictador sugerían un perfecto arreglo entre ambos, al tiempo que los elementos políticos, desconcertados, cambiaban impre-siones en susurros.

En aquellas singulares vísperas de Año Nuevo se escuchaban de modo insistente los teléfonos. La desconfianza y la alarma invadían el ánimo de muchos prominentes batistianos, y corrían veloces los automóviles con dirección a la principal fortaleza militar del país.

El dictador, en uno de los últimos Consejos de Ministros, extremó su falsa bizarría para ocultar lo mejor posible el terror que le inspiraban los éxitos combativos del Ejército Rebelde:

—Señores —comenzó diciendo— conozco como nadie la gravedad de la situación, así que no necesito que se me hagan observaciones. Quiero que sepan que cumpliré con mis deberes, pase lo que pase, y espero que ustedes sepan hacer lo mismo.

Tales estratagemas hicieron dudar a algunos de los más cercanos cómplices del tirano. En las fuentes inmediatas de Batista, sin embargo, los informes eran de otra índole. El nombramiento de José Eleuterio Peraza y de Joaquín Casillas Lumpuy, y el bombardeo a Santa Clara, se interpretaban como una firme decisión del tirano de resistir (¡!) hasta el final.

Sus aparentes bravuconerías hacían recordar o remedaban las postreras decisiones de Adolfo Hitler en los sótanos de la Cancillería, bajo las granadas del Ejército soviético.

El motorizado desplazamiento hacia Columbia cobró un mayor volumen con la noche, pero el pretexto de la fiesta de fin de año servía para disimular el sentimiento de pánico reinante.

Muchos secuaces del dictador quisieron comprobar personalmente si el barco estaba haciendo agua, y acudieron a la residencia presidencial en la fortaleza, con sus pistolas bien visibles, prestos a imponer su pasaje en avión, ¡a las buenas o a las malas!

Gastón Godoy, Anselmo Alliegro y otros personeros relevantes del Gobierno, comentaron entre sí que la situación se había puesto «¡más mala que nunca!».

El Presidente, intentando hacer ver que era un valiente, criticó a Andrés Rivero Agüero por un comunicado de felicitación que quiso transmitir al pueblo, hablándole de «paz y concordia» y le dijo: —¡Déjate de eso, chico. Van a pensar que eres un flojo. Hay que aplastar la insurrección para hacer un escarmiento. ¡El Gobierno está ahora más fuerte que el primer día!

A pesar de las guaperías de los partes emitidos por el Estado Mayor General Conjunto del Ejército, la inmensa mayoría de los jefes militares que rodeaban en esos instantes al dictador sabían bien la situación real de Oriente y Las Villas. Gastón Godoy le dijo a Alliegro: «Cantillo me confesó ahora que nada puede evitar la caída de Santa Clara. Estoy horrorizado, ¡cuánta sangre!». Era una expresión de escrúpulos tardíos.

Minutos antes de la estampida

Exactamente a las 12 de la noche, el dictador se encaminó hacia el comedor. Brindaron con el choque suave de las copas. Teatral hasta el último minuto, dio por terminada la ceremonia con su «¡Salud, salud!» habitual. E inmediatamente miró a Cantillo para que recitara la parte del libreto ensayado de la traición y la fuga.

—Señor Presidente, los jefes y oficiales del ejército consideramos que su renuncia contribuirá a restablecer la paz que tanto necesita el país.

Quienes habían participado en la escritura de la obra de teatro, permanecieron tranquilos, pero los que se desayunaban con semejante solicitud, intercambiaron miradas de asombro y zozobra.

Batista interpretó muy cínicamente sus bocadillos prefabricados en Columbia días antes, y a la una de la madrugada daba instrucciones a Cantillo, con una taza de café con leche caliente en la diestra. Un ayudante le alcanzó el teléfono, escuchó lo que le decían, se puso pálido, lo colgó con ademán nervioso, y ordenó:

—¡Vámonos!

Rivero Agüero le preguntó: «¿Hacia dónde?», y Batista le dijo casi corriendo: «¡Chico, no preguntes, vámonos, que te van a matar a ti también! Dile a tu mujer que se lleve a los muchachos»; y —dirigiéndose a su esposa— expresó: «¡Marta, levanta a la niña!».

Una caravana de autos los llevó hacia el aeropuerto militar, fuertemente escoltado por tropas avisadas. Detrás de Batista y sus familiares subieron al avión principal personajes siniestros como Pilar García, su hijo Irenaldo, Carratalá, el clan de los Tabernilla, Pérez Coujil, Orlando Piedra y otros esbirros. La flotilla la integraban cuatro aviones en total. En otros medios (yates, embarcaciones, embajadas) el resto de los corruptos, torturadores y asesinos se ponía a salvo, entre ellos Masferrer, Pedraza, Mujal, Güell, Godoy, Laurent, Justo Luis del Pozo, Esteban Ventura Novo y otros.

La traición de Cantillo se había consumado, pero nadie pudo escamotearle el triunfo a la Revolución. La serena energía de Fidel en Santiago, la alerta que transmitió al país, la audaz marcha de las Columnas de Camilo y el Che desde el centro de la Isla, la colaboración del pueblo —en particular del proletariado— en la huelga general ordenada por el Comandante en Jefe, y la actuación oportuna de las Milicias, superaron la crisis.

Al saberse de la fuga del tirano y su pandilla de criminales, el pueblo se convirtió en un ejército civil en las calles.

El último servicio de la Embajada de los Estados Unidos en La Habana fue propiciar la asonada militar del general Eulogio Cantillo Porras, que permitió la fuga del dictador y sus cómplices. Pero las barbas rebeldes se diseminaron en el seno del pueblo.

Fuente: Revista Bohemia, 11 de enero 1959. «Revolución, sí; golpe militar, no», Fidel Castro Ruz, en «La Revolución Cubana: 45 grandes momentos», Julio García Luis, Ocean Press, 2006. El golpe de Estado del 10 de marzo de 1952, Mario Mencía; La vida secreta de Meyer Lansky en La Habana, Enrique Cirules, Editorial Ciencias Sociales, 2004; Entrevista con Marilú Uralde Cancio, Instituto de Historia de Cuba.

Batista y sus secuaces

El dictador Batista huyó del país con más de 400 millones de pesos ajenos. De 1933 a 1944 robó a manos llenas y regaló a su primera esposa cuatro millones.

De 1944 a 1948, con lo malversado, viajó por América en un tren de millonarios, se instaló en el Hotel Waldorf Astoria, en Nueva York, y mandó a construir una residencia en la sureña ciudad estadounidense de Daytona Beach.

Regresó a Cuba en 1948, por un acta senatorial liberal-demócrata de Las Villas que le costó una fortuna, para subir otra vez al poder y re-enriquecerse.

Su turbio origen

Nacido en Banes, Oriente, estudió la primaria allí, fue cortador y pesador de caña e ingresó en los ferrocarriles. Por sus grandes y secretas ambiciones, aceptó todo lo que le reportara más ganancias.

En 1921 entró al ejército para tener tiempo de moverse a su antojo en La Habana. Estudió taquigrafía y no desaprovechó la ocasión de aumentar sus ingresos. Arregló libros comerciales, administró bienes, trajo frutos para re-vender en los mercados, y cuando se vio de sargento taquígrafo del Estado Mayor del Ejército, comenzó a relacionarse con la alta oficialidad, y se adentró en los vericuetos del poder militar en Cuba.

Según Enrique Cirules en su libro sobre Meyer Lansky, lo anterior «es parte de la historia oficial que se repitió muchos años. Pero existió otra cara oculta, un Batista con oscuro pasado prostibulario, en los barrios de mala fama, socio de matronas, tránsfugas, calientacamas, delincuentes y chulos de la época.

«El sargento conocido en tabernas y burdeles del puerto como “El Indio lindo” —agrega Cirules— se vinculó muy pronto a los mafiosos que traficaron con alcoholes y rones durante la Ley Seca».

Cuando se derrumbó la tiranía de Machado, Batista (apoyado por los servicios secretos norteamericanos) se instaló como coronel Jefe del Ejército, ocupó una buena posición en el poder militar, y estableció enseguida fuertes relaciones con personajes de la mafia norteamericanan como el judío Meyer Lansky, lugarteniente de Lucky Luciano.

Los verdugos

Sin los verdugos de sus cuerpos represivos, Batista no hubiera podido mantenerse siete años.

Esteban Ventura Novo, ascendió trepando por una loma de cadáveres, y sus estrellas chorrearon sangre a borbotones.

Pilar García, con nombre de mujer y alma de asesino, estuvo retirado, volvió a deshonrar el uniforme con un montón de crímenes, e implantó el «método García»: ¡el asesinato por la espalda!

Manuel Ugalde Carrillo sembró la muerte en las paredes como buen discípulo de Torquemada, y Batista lo envió a los lugares donde quiso implantar el terror.

Bajo el mando de Rafael Salas Cañizares (a quien el pueblo llamó «Masacre») se ahogaron en sangre sus opositores y se cometieron abusos incontables.

Francisco Tabernilla Dolz golpeó y torturó con el lema de «darle candela al jarro hasta que suelte el fondo».

José Eleuterio Pedraza (un déspota que no soltaba un segundo su fusta), mató a cuanto revolucionario que se encontró en el camino.

Joaquín Casillas Lumpuy, entre muchas otras felonías, fue el asesino del líder azucarero Jesús Menéndez.

Conrado Carratalá Ugalde (apodado «El extraño», sin rival alguno en crímenes) en una semana pasó de simple vigilante a coronel de la Policía. Compadre de Ventura, tenía sed de sangre y en sesiones de torturas y asesinatos se sentía como pez en el agua.

Julio Laurent, además de asesino de Jorge Agostini, mató con predilección a numerosos prisioneros indefensos.

Alejandro García Playón, con el apodo de «Nito Matasiete», asesinó con sus propias manos a muchos compatriotas.

Uno de los principales perros de presa de Batista, Leopoldo Pérez Coujil, era aficionado a desbaratar cabezas.

Jacinto Menocal escogió el sendero del crimen, primero en el SIM y luego en La Habana y Pinar del Río. ¡Fue una hiena! Solo en Los Palacios segó por lo menos 108 vidas.

José María Salas Cañizares tenía vocación de asesino y sus mayores crímenes los cometió en Santiago de Cuba.

Orlando Piedra Negueruela, jefe del Buró de Investigaciones, mandó a ahorcar y a masacrar a muchos jóvenes.

Entre Carlos Tabernilla Palmero —jefe de la Fuerza Aérea e hijo de «Pancho», el viejo rufián jefe del Estado Mayor— y sus hermanos, se repartieron el ejército como si fuera una herencia de familia. Sus aviones bombardearon sin piedad a los campesinos de la Sierra Maestra.

Lutgardo Martín Pérez (matón mayor a sueldo) inició su carrera al lado del criminal Rolando Masferrer. No entendió nunca más idioma que el de la tortura contra hombres esposados o amarrados.

Juan Salas Cañizares, al frente de las «perseguidoras» de la Radiomotorizada, empleó el vergajo como su forma preferida de hablar con la ciudadanía.

A Alberto Triana Calvet, que era solo sargento, Batista lo hizo jefe militar de Matanzas. De ahí pasó a Camagüey y después a Holguín, lugares donde a su antojo ensangrentó a la juventud.

Batista ascendió a todos estos personajes, muestrario solo comparable con los nazis de Adolfo Hitler. Hizo lo mismo con otros jefes delincuentes y sin batallas. Ascendió en total a seis generales, 17 coroneles, 16 tenientes coroneles, 41 comandan-tes, 77 capitanes, tres primeros tenientes y a dos segundos tenientes. Más de 30 de ellos cometieron homicidios, malversación, maltrato, coacción, amenaza, alteración del orden, falsificación de documentos y otros delitos.

La guerra fue para ellos su examen final, pero el 1ro. de enero de 1959 el Ejército Rebelde y los combatientes del llano los desaprobaron, es decir, los vencieron.

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