Ecuador, il ritorno di Correa

di Sebastiano Coenda www.ilperiodista.it

Rafael Correa si candida alla vicepresidenza per le elezioni di febbraio 2021 con la coalizione UNES. Sull’ex presidente pende però una condanna per corruzione, in attesa del verdetto definitivo. Nel piccolo Paese sudamericano, afflitto dalla pandemia e dall’austerità, si rinnova la sfida tra “revolución ciudadana” e restaurazione neoliberista

In Ecuador, ancora pesantemente afflitto dalla pandemia di Covid-19, continua a crescere il malcontento nei confronti del presidente Lenín Moreno. Ma qualcosa si muove in vista delle elezioni di febbraio 2021: l’ex presidente Rafael Correa ha formalizzato la sua candidatura alla vicepresidenza con la coalizione Unión Nacional por la Esperanza (Unes), guidata dall’economista Andrés Arauz.

Dopo la condanna per corruzione a otto anni di reclusione, inflittagli dal tribunale di secondo grado nell’ambito del caso Sobornos, Correa è in attesa della sentenza definitiva.

Ma sebbene siano in molti a criticare l’operato dell’ex presidente (in carica dal 2007 al 2017), la maggioranza dei cittadini sembra ancora poco propensa ad abbandonare i diritti acquisiti durante gli anni della “revolución ciudadana”.

Ma facciamo un passo indietro.

La crisi degli anni Novanta

Verso la fine degli anni Novanta l’Ecuador ha attraversato una delle peggiori crisi economico-finanziarie della sua storia. A fronte di un’inflazione intorno al 60%, di una massiccia fuga di capitali e di un settore delle esportazioni in ginocchio, il governo della repubblica andina, allora guidato da Jamil Mahuad, scelse di salvare il sistema finanziario garantendo i depositi bancari, tagliando la spesa pubblica e sostituendo la moneta nazionale, il sucre, con il dollaro statunitense.

All’epoca il paradigma economico di riferimento era rappresentato dall’ideologia neoliberista promossa dagli Stati Uniti e dalle istituzioni finanziarie internazionali attraverso il modello del Washington consensus. Ciò si tradusse in un drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato, secondo un modello economico che puntava quasi unicamente su: esportazione di materie prime dallo scarso valore aggiunto, tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, liberalizzazioni e apertura alla speculazione finanziaria internazionale.

Tra le principali conseguenze di queste politiche spicca l’aumento delle disuguaglianze e della povertà. Nel 2007 l’Ecuador era uno dei Paesi più disuguali dell’America Latina, superato solo da Repubblica Dominicana, Brasile e Bolivia. Appena il 2% delle famiglie possedeva il 90% delle grandi aziende, più della metà della popolazione non era in grado di soddisfare i propri bisogni primari e circa il 40% dei cittadini viveva in condizioni di estrema povertà.

Tutto ciò ha generato un’impressionante instabilità politica. Tra il 1996 e il 2006 si sono succeduti ben otto capi di Stato. La corruzione dilagava, la sfiducia dei cittadini nei confronti della politica e del sistema democratico era in crescita e ovunque nel Paese scoppiavano grandi proteste.

Fu in questo contesto che nel 2006 venne eletto Rafael Correa a presidente della Repubblica.

Gli anni di Correa

Dall’elezione di Correa, l’Ecuador ha vissuto un periodo di profonde trasformazioni sociali. La “revolución ciudadana”, il processo di rinnovamento politico e culturale promosso dal leader di Alianza País, ha dato il via a una stagione di grandi progressi nell’integrazione dei settori esclusi dalla società.

Il governo Correa ha massicciamente investito nell’istruzione, permettendo ai ragazzi più poveri di accedere a un’istruzione pubblica, gratuita e di qualità. Allo stesso modo, grandi investimenti sono stati destinati alla creazione di un sistema sanitario pubblico e universale, che per quanto non brilli per qualità delle prestazioni permette comunque di accedere alle cure mediche a quanti prima ne venivano esclusi.

Una delle priorità di Correa è stata quella di recuperare indipendenza e sovranità nazionale nei confronti dei mercati finanziari e di Washington. Una delle sue prime iniziative è stata la rinegoziazione dei debiti assunti dalla repubblica andina a partire dagli anni Settanta. Dopo aver esaminato le numerose irregolarità nei processi di concessione dei prestiti (dove sono stati applicati dei tassi d’interesse ingiustificatamente elevati) l’Ecuador è riuscito a ridurre il debito estero di circa un terzo.

La cancellazione del debito ha generato diverse conseguenze. La principale è stata il graduale ritiro della speculazione finanziaria internazionale proveniente dagli Stati Uniti e dall’Europa. Ciò ha provocato il relativo isolamento del Paese e ha accelerato la progressiva integrazione dell’Ecuador nel “mondo multipolare” promosso da leader come Hugo Chávez e Vladimir Putin.

Correa si è dunque da subito trovato costretto a ricercare nuovi alleati, sia all’interno dell’America Latina, stringendo forti legami con alcuni governi a lui ideologicamente vicini (Venezuela e Bolivia in primis) e promuovendo organizzazioni internazionali regionali (Unasur e Alba), che all’estero, cooperando con Paesi come la Cina, divenuta in poco tempo una delle principali fonti di investimenti esteri del Paese.

Un altro punto di scontro con gli interessi della finanza internazionale riguarda lo sfruttamento delle risorse minerarie. Dopo anni di privatizzazioni Correa ha scelto di ripristinare l’iniziativa dello Stato nell’utilizzo di queste risorse, avviando un’importante nazionalizzazione delle industrie estrattive attraverso la quale lo Stato ecuadoriano è riuscito ad aumentare notevolmente le sue entrate.

Anche grazie all’elevato prezzo delle materie prime di quel periodo, nel 2013 l’Ecuador registrava il tasso di disoccupazione più basso dell’America Latina (4,6%) e la povertà risultava fortemente ridotta rispetto a quella rilevata durante le precedenti amministrazioni.

Al di là della politica economica, l’indipendenza nazionale è stata rafforzata anche attraverso atti dal forte valore simbolico, come l’espulsione dell’esercito statunitense dalla base militare di Manta e la creazione del primo programma spaziale realizzato in un Paese latino senza l’aiuto di potenze straniere (Agenzia Spaziale Civile Ecuadoriana).

Ma l’eredità più importante dell’esperienza della “revolución ciudadana” è senza dubbio la Costituzione del 2008. Il documento pone al centro dei suoi obbiettivi la costruzione di «una società rispettosa della natura, delle comunità e delle culture locali, che promuove la pace, la cooperazione internazionale e l’integrazione latinoamericana». Il concetto di sviluppo proposto da questa Costituzione trae ispirazione dalle culture indigene e pone l’accento su una relazione armoniosa tra l’ambiente e le comunità. Oltre a riconoscere i diritti della natura (Pachamama) e delle comunità indigene, la Carta fondamentale afferma con forza l’importanza dei diritti sociali, riconoscendo come inalienabili il diritto all’acqua, al cibo, alla sovranità alimentare, alla salute e alla sicurezza sociale.

L’inversione a U di Moreno

Nonostante le grandi difficoltà che ha attraversato l’Ecuador negli ultimi anni del mandato di Correa, derivanti principalmente dal crollo del prezzo del petrolio, dal grande terremoto del 2016 e dalla crisi in Venezuela, Alianza País è comunque riuscita a vincere anche le elezioni del 2018.

Non potendo correre per un quarto mandato, Correa ha appoggiato con forza la candidatura del suo vice, Lenín Moreno. Quest’ultimo, una volta preso il potere, ha iniziato una campagna diffamatoria nei confronti dell’ex presidente, accusando di corruzione lui e i suoi più stretti collaboratori, e ha dato il via a un netto capovolgimento di politiche, allineandosi di fatto alle posizioni di Washington e del Fondo Monetario Internazionale.

La forte sterzata imposta da Moreno alla politica estera dell’Ecuador risulta del tutto evidente da azioni quali il riconoscimento di Juan Guaidó quale legittimo presidente del Venezuela, la revoca dell’asilo politico a Julian Assange e l’uscita da Unasur e Alba.

Anche nella politica economica Moreno ha imposto un drastico cambio di rotta, ripristinando di fatto il potere della grande finanza internazionale all’interno del Paese.

Dal 2017 ad oggi sono stati sottoscritti diversi accordi con il Fmi. Di conseguenza sono state applicate tutte quelle riforme promosse da questa organizzazione: riduzione della spesa pubblica, flessibilizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni e liberalizzazioni.

Tutto ciò ha causato una forte ondata di proteste nell’intero Paese. Lo scorso ottobre, in seguito alla rimozione dei sussidi pubblici sul carburante, le strade di Quito sono state scosse per molti giorni da una grande rivolta dei ceti medio-bassi e degli indigeni. In un primo momento Moreno ha cercato di reprimere le proteste con la forza. Ma una volta fallito il suo tentativo si è dovuto piegare al volere dei manifestanti, revocando il provvedimento che aveva scatenato l’insurrezione.

Anche la gestione dell’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha sollevato molte perplessità. L’Ecuador è uno dei Paesi dell’America Latina più colpiti dalla pandemia ed è quello dove la mortalità del virus fa registrare i valori più elevati. A inizio aprile hanno fatto il giro del mondo le drammatiche immagini che giungevano da Guayaquil: corpi dei morti gettati sui marciapiedi, nei contenitori dell’immondizia, avvolti in rudimentali sacchi di plastica o chiusi in casse di cartone.

Per fronteggiare la drammatica crisi innescata dalla pandemia, il governo Moreno ha deciso di introdurre delle misure d’austerità ancora più stringenti, di cui gran parte sono racchiuse in quella che ironicamente è stata chiamata Ley de Apoyo Humanitario. Tra i provvedimenti adottati rientrano ulteriori tagli alla spesa pubblica, la riduzione dell’orario di lavoro e del relativo stipendio e il taglio ai salari dei dipendenti pubblici. Oltre a contratti di lavoro più flessibili, dismissione di alcune imprese statali e liberalizzazione del prezzo dei carburanti.

Anche in questo caso le proteste non si sono fatte attendere. Almeno una dozzina di istanze di incostituzionalità sono state presentate alla Corte costituzionale contro la Ley de Apoyo Humanitario da parte di istituzioni nazionali, sindacati dei lavoratori, politici e perfino da organizzazioni imprenditoriali. E nonostante la pandemia e le restrizioni alla libera circolazione, in più occasioni lavoratori, studenti e indigeni si sono riversati in strada per esprimere il proprio dissenso.

Tra revolución ciudadana e restaurazione neoliberista: cosa riserva il futuro?

Dopo un decennio di successi dei partiti progressisti, nell’America Latina di oggi a prevalere è la restaurazione neoliberista, spesso promossa da un’estrema destra classista e razzista. Negli altri Paesi le vecchie oligarchie sono tornate al potere attraverso le elezioni oppure tramite veri e propri colpi di stato, come nel caso della Bolivia. In Ecuador invece il vecchio sistema è stato ripristinato attraverso un tradimento avvenuto all’interno dello stesso partito che dieci anni prima aveva avviato la stagione della “revolución ciudadana”.

Nonostante le tante critiche all’operato di Correa, accusato di eccessivo accentramento di potere, personalismo, autoritarismo e corruzione, i numerosi successi che fecero a suo tempo parlare di “milagro ecuatoriano” sono innegabili. E come hanno dimostrato le elezioni del 2018 la maggioranza degli ecuadoriani continua a difendere la “revolución ciudadana”.

Oggi, però, il futuro dell’Ecuador appare più nebuloso che mai. L’ex presidente gode ancora di un buon grado di sostegno popolare, ma su di lui grava un’ambigua condanna di corruzione che, se confermata, gli costerebbe otto anni di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici per 25 anni. La popolarità di Moreno è in caduta libera e l’intero Paese è attraversato da proteste per ora tenute sotto controllo anche grazie alla diffusione del coronavirus, che non permette grandi assembramenti di persone.

Una volta terminata l’emergenza sanitaria, ci si chiede cosa potrà succedere in questo piccolo Paese con un’economia in caduta libera, l’austerità che colpirà soprattutto le fasce più fragili della popolazione, le proteste che potranno nuovamente riprendere e le elezioni alle porte.

In Ecuador, quindi, lo scontro tra correisti e anticorreisti è più acceso che mai. Un po’ come quello tra socialismo e neoliberalismo nell’intera America Latina.

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