Il realismo dell'”impossibile”

La rivoluzione socialista è la condizione, nel nostro continente, per lo sviluppo e la soluzione dei pressanti problemi dei nostri popoli

 

Frank Josué Solar www.granma.cu

Fin dalle lotte per l’indipendenza in America Latina, vari dei suoi protagonisti compresero la necessità dell’unità per affrontare i nemici esterni e salvaguardare la libertà. In diverse punti della geografia sudamericana, venezuelani, nuovogranadini, peruviani, rioplatensi, cileni combatterono, morirono e vinsero insieme e, a Panama, Simón Bolívar, nel 1826, convocò i nascenti Stati ad un’unificazione continentale, poi fallita.

José Martí intese l’emancipazione di Cuba come parte di un progetto più ampio che includeva quella di Portorico e impedire l’estensione degli USA nelle Antille per aiutare a fermare il suo assalto alle repubbliche situate a sud del Rio Grande. Dal 1959, la Rivoluzione cubana vide nell’appoggio alla rivoluzione latinoamericana non solo un dovere etico e un imperativo morale, bensì un’esigenza di sopravvivenza, e basò il suo futuro sull’incoraggiamento di progetti di liberazione e trasformazione nelle sue immediate vicinanze.

La fallacia della possibilità di capitalismi sviluppati e indipendenti in America Latina, capaci di unirsi nonostante le loro rivalità, è stata smantellata da una lunga tradizione di pensiero critico, da Julio Antonio Mella e José Carlos Mariátegui a Che Guevara e Fidel Castro. La debolezza e la tardiva apparizione della borghesia latinoamericana, quando l’imperialismo in piena ascesa si divideva il mondo e si assicurava, nei paesi periferici, le materie prime ei mercati di cui aveva bisogno, condizionarono il suo carattere subordinato ai centri di potere internazionali. Il destino inevitabile del modo di produzione capitalistico nel nostro continente è la sottomissione ed il sottosviluppo.

Ciò che è decisivo per l’unità latinoamericana non è l’esistenza o la solidità di una certa struttura di integrazione, ma la correlazione delle forze delle classi e interessi dominanti nei nostri paesi. Né le rancide oligarchie creole né le borghesie nazionali, legate da mille vincoli di dipendenza all’imperialismo USA, né i tentativi, destinati a fallire, di riformare il capitalismo per dargli un volto più umano e giusto, potranno realizzare l’unità latinoamericana. Perché l’America Latina sia, davvero, una zona di pace e di integrazione, dobbiamo convertirla in una zona di rivoluzioni.

La rivoluzione socialista è la condizione, nel nostro continente, per lo sviluppo e la soluzione dei pressanti problemi dei nostri popoli. Sarà l’unico modo per poterci unire a beneficio delle maggioranze popolari e per realizzare il sogno martiano della seconda e definitiva indipendenza. Nessuna iniziativa che non rompa con il capitalismo potrà realizzarla. Come soleva dire l’Amauta: «I pacati brindisi della diplomazia non uniranno questi popoli. Li uniranno, in futuro, i voti storici delle moltitudini».

Se spinte da pressanti esigenze che mettano a rischio i loro profitti, o da specifiche contraddizioni con l’imperialismo, le borghesie latinoamericane si ponessero d’accordo e raggiungessero un qualche tipo di integrazione, sarebbe sempre a vantaggio dei propri interessi di classe e non dei loro popoli , e in nessun caso significherebbe una rottura decisiva nei rapporti di dipendenza con gli USA.

La nostra intenzione non può essere quella di costruire, su questa sponda dell’Atlantico, qualcosa di simile all’Unione Europea (UE). Questa esperienza unitaria costituisce un valido referente. Da un lato, la UE non è riuscita a risolvere i profondi conflitti di interesse tra i capitalisti dei diversi Stati nazionali e i loro diseguali sviluppi, e dall’altro ha significato il completo dominio delle banche e dei monopoli sulla vita delle persone, oltre al progressivo smantellamento del welfare state e di storiche conquiste sociali. L’Unione Europea è, in realtà, un club capitalista con l’obiettivo di favorire e proteggere i profitti delle grandi corporazioni europee, mediante l’imposizione di tagli e attacchi alle condizioni di vita delle classi lavoratrici. Il suo scopo non è la soddisfazione dei bisogni dei popoli.

È altrettanto illusorio aspettarsi un atteggiamento disinteressato da parte dell’imperialismo USA, e pretendere che si possa raggiungere l’integrazione economica con gli USA senza condizionamenti, senza pressioni, senza ingerenze, rispetto alle nostre sovranità. Non ci si può aspettare da loro una generosità spontanea. Non per il fatto di desiderare che una tigre smetta di mangiare carne, si convertirà in vegetariana. L’Alleanza per il Progresso, iniziativa lanciata da Kennedy nel 1961 per l’America Latina, non fu un gesto solidario e altruista, preoccupato per la disuguaglianza e gli indici di miseria che affliggevano la nostra regione, bensì una strategia di contenimento diretta contro la Rivoluzione cubana e l’espansione del suo esempio ispiratore per le ribellioni latinoamericane. Il suo principale obiettivo fu la prevenzione di fronte ad un’eventuale minaccia rivoluzionaria, non lo sviluppo economico di quello che considera il suo cortile. Qualsiasi riedizione di un simile piano sarebbe condizionato da analoghe motivazioni e, in ogni caso, servirebbe solo a perpetuare le relazioni di dominazione imperialista.

Si potrebbe obiettare che le rivoluzioni non sono all’ordine del giorno in America Latina, che una tale prospettiva, in questo momento, è totalmente utopica e che dovrebbe essere proposta una politica più realistica e pratica, in accordo con le condizioni attuali. Sebbene non si possa garantire che un trionfo rivoluzionario sia dietro l’angolo nel nostro continente, è anche vero che dall’Alaska alla Terra del Fuoco la stabilità sociale e politica è rara avis. I nostri popoli, con enormi e belle tradizioni di lotta, esigono cambiamenti nelle strade, nelle fabbriche, nelle università, scontrantandosi con gli apparati repressivi. Oggi il continente è un fermento di esplosioni e convulsioni sociali, di cui Cile e Colombia sono solo gli esempi più illustrativi, e che sono l’espressione di un profondo, a lungo accumulato, malcontento.

I segni distintivi del capitalismo latinoamericano, oggi, sono le crisi e le ribellioni popolari. Se sopravvive ancora è, soprattutto, perché non siamo stati capaci di opporgli una strategia efficace per rovesciarlo e trascenderlo. Abbiamo bisogno di articolare le lotte di tutti gli oppressi con una direzione rivoluzionaria che lo identifichi come il nemico principale e comune, e concentri tutte le sue energie contro di esso. Dobbiamo far ritornare di moda la Rivoluzione in questa nostra America, vederla come l’unica alternativa effettiva e praticabile. Non può essere che l’orizzonte delle forze rivoluzionarie sia unicamente arrivare al governo per gestire il capitalismo con una maggiore redistribuzione delle ricchezze.

Le rivoluzioni non sembrano mai possibili finché non accadono. Non sembra mai essere il momento giusto perché si verifichino, ed è sempre a portata di mano un repertorio di argomenti razionali e sensati che scoraggiano il loro tentativo. Ma il veramente utopico sarebbe credere che senza uscire dal quadro del capitalismo i nostri problemi possano essere risolti e ottenere l’unità e la definitiva indipendenza. Il dovere dei rivoluzionari resta quello di fare la rivoluzione, non limitarsi a cosmetici cambi ai regimi di sfruttamento e vassallaggio imperiali. La lotta per le riforme è valida solo come parte ed in funzione di una strategia di avanzamento radicale. Il progressismo che non si propone di trascendere i limiti del capitalismo non otterrà alcun miglioramento sostanziale e duraturo nelle condizioni di vita dei popoli latinoamericani. Tanto meno nel contesto attuale, caratterizzato da una profonda crisi sistemica, che lascia scarsi margini di azione alle politiche di assistenza sociale del riformismo.

D’altra parte, le rivoluzioni non saranno mai pronte dall’oggi al domani. Attraverso il processo molecolare della lotta di classe, i popoli impareranno da sé la necessità dell’organizzazione e di trasformazioni più profonde, di abbattere l’intero anteriore ordine economico, politico e sociale, e si doteranno dei mezzi più efficaci per realizzarlo.

È molto giusto segnalare gli ostacoli che la rivoluzione ha davanti, per affrontarli meglio e superarli, ma non per condannarla, in anticipo, al fallimento. Quando il processo rivoluzionario scoppi, non conoscerà limiti, e tutti gli argini di contenimento eretti dalle classi dominanti per impedirlo saranno irrilevanti. Chi si aspetta una rivoluzione perfetta, impeccabile, pianificata nei minimi dettagli, starà ad aspettare di vederla. Dobbiamo lavorare per essa, con i materiali a portata di mano e con le situazioni che ci si presentano, e contribuire ad accelerare la creazione delle condizioni che la rendano realtà.

Un’ondata rivoluzionaria trionfante in America Latina, che portasse alla formazione di una federazione latinoamericana di repubbliche socialiste, avrebbe effetti positivi di proporzioni incalcolabili sulle classi lavoratrici del resto del mondo. L’idea di utilizzare in modo combinato le risorse e le ricchezze dell’America Latina e del mondo intero, a beneficio di tutti gli esseri umani, è un’aspirazione progressista che consentirebbe uno sviluppo senza precedenti dell’economia, della cultura e della scienza, in una relazione armonica e responsabile con la natura. Questa soluzione, l’unica veramente seria, all’attuale crisi dell’umanità, non avverrà finché imperi un ordine sociale fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Per metterla in pratica, converrà combattere guidati dai consigli dei giovani parigini in quel mitico maggio 1968: “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile”.


El realismo de lo «imposible»

La revolución socialista es la condición en nuestro continente para el desarrollo y la solución a los problemas acuciantes de nuestros pueblos

Autor: Frank Josué Solar Cabrales

Desde las luchas por la independencia en América Latina varios de sus protagonistas comprendieron la necesidad de la unidad para enfrentar enemigos externos y salvaguardar la libertad. En distintos puntos de la geografía sudamericana combatieron, murieron y vencieron juntos venezolanos, neogranadinos, peruanos, rioplatenses, chilenos, y en Panamá convocó Simón Bolívar en 1826 a los nacientes Estados a una unificación continental, frustrada entonces. José Martí entendió la emancipación de Cuba como parte de un proyecto más amplio que incluía la de Puerto Rico e impedir la extensión de Estados Unidos por las Antillas para contribuir a frenar su arremetida sobre las repúblicas situadas al sur del Río Bravo. Desde 1959 la Revolución Cubana vio en el apoyo a la revolución latinoamericana no solo un deber ético y un imperativo moral, sino una necesidad de sobrevivencia, y cifró su futuro en el aliento a proyectos de liberación y transformación en su entorno más inmediato.

La falacia de la posibilidad de capitalismos desarrollados e independientes en América Latina, capaces de unirse a pesar de sus rivalidades, ha sido desmontada por una larga tradición de pensamiento crítico, desde Julio Antonio Mella y José Carlos Mariátegui hasta el Che Guevara y Fidel Castro. La debilidad y la aparición tardía de la burguesía latinoamericana, cuando el imperialismo en pleno ascenso se repartía el mundo y se aseguraba en los países periféricos las materias primas y los mercados que necesitaba, condicionaron su carácter subordinado a los centros de poder internacionales. El sino inevitable del modo de producción capitalista en nuestro continente es la sumisión y el subdesarrollo.

Lo decisivo para la unidad latinoamericana no es la existencia o la solidez de determinada estructura de integración, sino la correlación de fuerzas de las clases e intereses dominantes en nuestros países. Ni las rancias oligarquías criollas ni las burguesías nacionales, atadas por miles de lazos de dependencia al imperialismo estadounidense, ni los intentos, destinados al fracaso, de reformar al capitalismo para darle un rostro más humano y justo, podrán conseguir la unidad latinoamericana. Para que América Latina sea, de verdad, una zona de paz e integración debemos convertirla en una zona de revoluciones.

La revolución socialista es la condición en nuestro continente para el desarrollo y la solución a los problemas acuciantes de nuestros pueblos. Ella será la única manera de poder unirnos en beneficio de las mayorías populares y de cumplir el sueño martiano de la segunda y definitiva independencia. Ninguna iniciativa que no rompa con el capitalismo podrá lograrlo. Como decía el Amauta: «Los brindis pacatos de la diplomacia no unirán a estos pueblos. Los unirán en el porvenir, los votos históricos de las muchedumbres».

Si impelidas por necesidades apremiantes que pongan en riesgo sus ganancias, o por contradicciones puntuales con el imperialismo, las burguesías latinoamericanas se pusieran de acuerdo y llegaran a algún tipo de integración, siempre sería en beneficio de  intereses clasistas propios y no de sus pueblos, y en ningún caso significaría una ruptura decisiva de las relaciones de dependencia con Estados Unidos.

Nuestra intención no puede ser construir en este lado del Atlántico algo similar a la Unión Europea (ue). Esa experiencia unitaria constituye un referente válido. Por un lado, la ue no ha logrado resolver los profundos conflictos de intereses entre los capitalistas de los diferentes Estados nacionales y sus desarrollos desiguales, y por el otro, ha significado la dominación completa de los bancos y los monopolios sobre las vidas de las personas, además del desmantelamiento progresivo del Estado de bienestar y de conquistas sociales históricas. La Unión Europea es, en realidad, un club capitalista con el objetivo de favorecer y proteger las ganancias de las grandes corporaciones europeas, mediante la imposición de recortes y ataques a las condiciones de vida de las clases trabajadoras. Su propósito no es la satisfacción de las necesidades de los pueblos.

Igual de iluso resulta esperar una actitud desinteresada por parte del imperialismo estadounidense, y pretender que se puede alcanzar una integración económica con Estados Unidos sin condicionamientos, sin presiones, sin injerencias, con respeto a nuestras soberanías. No cabe esperar de ellos generosidad espontánea. No por mucho desear que un tigre deje de alimentarse con carne, se convertirá en vegetariano. La Alianza para el Progreso, iniciativa lanzada por Kennedy en 1961 para América Latina, no fue un gesto solidario y altruista, preocupado por la desigualdad y los índices de miseria que asolaban nuestra región, sino una estrategia de contención dirigida contra la Revolución Cubana y la expansión de su ejemplo inspirador para las rebeldías latinoamericanas. Su principal objetivo fue la prevención frente a una eventual amenaza revolucionaria, no el desarrollo económico del que considera su patio trasero. Cualquier reedición de un plan similar estaría condicionado por motivaciones análogas y, en todo caso, solo serviría para perpetuar las relaciones de dominación imperialista.

Se pudiera objetar que las revoluciones no están a la orden del día en América Latina, que una perspectiva de ese tipo ahora mismo es totalmente utópica, y que debe proponerse una política más realista y práctica, de acuerdo con las condiciones actuales. Si bien no se puede asegurar que un triunfo revolucionario esté a la vuelta de la esquina en nuestro continente, también es cierto que desde Alaska hasta la Tierra del Fuego la estabilidad social y política es rara avis. Nuestros pueblos, con enormes y hermosas tradiciones de lucha, exigen cambios en las calles, en las fábricas, en las universidades, enfrentándose a los aparatos represivos. Hoy el continente es un hervidero de explosiones y de convulsiones sociales, de las cuales Chile y Colombia son solo los ejemplos más ilustrativos, y que resultan expresión de un descontento profundo, largamente acumulado.

Los signos distintivos del capitalismo latinoamericano en la actualidad son las crisis y las rebeliones populares. Si todavía sobrevive es, sobre todo, porque no hemos sido capaces de oponerle una estrategia eficaz para derrocarlo y trascenderlo. Necesitamos articular las luchas de todos los oprimidos con una dirección revolucionaria que lo identifique como el enemigo principal y común, y concentre contra él todas sus energías. Debemos poner de moda otra vez la Revolución en esta América nuestra, verla como la única alternativa efectiva y viable. No puede ser que el horizonte de las fuerzas revolucionarias sea únicamente llegar al gobierno para gestionar el capitalismo con una mayor redistribución de las riquezas.

Las revoluciones nunca parecen posibles hasta que suceden. Nunca parece ser el momento adecuado para que ellas ocurran y siempre está a la mano un repertorio de argumentos racionales y sensatos que desaconsejan intentarlas. Pero lo verdaderamente utópico sería creer que sin salir del marco del capitalismo se pueden resolver nuestros problemas y lograr la unidad y la definitiva independencia. El deber de los revolucionarios sigue siendo hacer la revolución, no limitarse a cambios cosméticos a los regímenes de explotación y vasallaje imperial. La lucha por reformas solo es válida como parte y en función de una estrategia de avance radical. El progresismo que no se proponga trascender los límites del capitalismo no conseguirá ninguna mejora sustantiva y duradera en las condiciones de vida de los pueblos latinoamericanos. Mucho menos en el contexto actual, caracterizado por una honda crisis sistémica, que deja escaso margen de acción a las políticas de asistencia social del reformismo.

Por otro lado, las revoluciones nunca estarán listas de un día para otro. A través del proceso molecular de la lucha de clases, los pueblos irán aprendiendo por sí mismos la necesidad de la organización y de transformaciones más profundas, de derribar todo el orden económico, político y social anterior, y se dotarán de los medios más eficaces para lograrlo.

Está muy bien señalar los obstáculos que tiene por delante la revolución, para enfrentarnos mejor a ellos y superarlos, pero no para condenarla de antemano al fracaso. Cuando el proceso revolucionario estalle no conocerá de límites, y todos los diques de contención levantados por las clases dominantes para evitarlo serán irrelevantes. Quien espere una revolución perfecta, impoluta, planificada hasta el último detalle, quedará esperando para verla. Tenemos que trabajar por ella, con los materiales a mano y con las coyunturas que se nos presenten, y ayudar a acelerar la creación de condiciones que la hagan realidad.

Una oleada revolucionaria triunfante en América Latina, resultante en la conformación de una federación latinoamericana de repúblicas socialistas tendría efectos positivos de incalculables proporciones en las clases trabajadoras del resto del mundo. La idea de utilizar de modo combinado los recursos y las riquezas de América Latina y del mundo entero, en provecho de todos los seres humanos, es una aspiración progresista que permitiría un desarrollo sin precedentes de la economía, la cultura y la ciencia, en una relación armónica y responsable con la naturaleza. Esta salida, la única realmente seria, a la actual crisis de la humanidad, no sucederá mientras impere un orden social basado en la propiedad privada sobre los medios de producción. Para llevarla a la práctica será conveniente luchar guiados por el consejo de los jóvenes parisinos en aquel mítico mayo de 1968: «Seamos realistas, pidamos lo imposible»

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