Testimonianza di un ex ministro cileno: il candidato Kast e l’Operazione Condor
Roberto Pizarro www.uypress.net
L’impunità, banalizzata in democrazia, ha delle conseguenze. Tra queste il riciclaggio di coloro che sono stati corresponsabili di crimini e delitti contro l’umanità. L’indulgenza verso coloro che prima hanno stimolato il colpo di Stato, e poi verso i torturatori e gli assassini, è all’origine di una candidatura che mira a rivivere i momenti peggiori della barbara repressione che si è abbattuta sul popolo del Cile.
La proposta del candidato presidenziale dell’estrema destra ricorda la mia esperienza personale con l’Operazione Condor, che ora sta cercando di rieditare. La democrazia, la pace e la nonviolenza che bramiamo noi cileni/a sono minacciate in diversi ambiti dalla proposta di Kast. Ma è particolarmente preoccupante che la sua politica internazionale, invece di affrontare il miglioramento delle relazioni di vicinato, rispondere alle richieste per affrontare il deterioramento degli ecosistemi o favorire la riduzione degli armamenti, si concentri sulla repressione di persone che hanno ideologie diverse da quelle che lui difende.
Leggendo il programma presidenziale di Kast sono ritornati alla mente i dolorosi ricordi personali e familiari che ho vissuto a Buenos Aires, esattamente 46 anni fa. Nella sezione 33 di pagina 27 del programma Kast, sotto il titolo “Coordinamento internazionale Antiradicali di Sinistra”, si legge: “Ci coordineremo con altri governi latinoamericani per identificare, arrestare e perseguire agitatori radicalizzati”. Fu questo coordinamento, degli apparati repressivi dei governi dittatoriali del cono sud, ciò che favorì la mia ingiusta detenzione, tortura e prigionia in Argentina, grazie a quella che fu successivamente conosciuta come Operazione Condor.
Nela mattina del 25 novembre 1975 quattro poliziotti del Coordinamento Federale buttarono giù la porta di casa mia nel quartiere di Caballito. Mia moglie ed io fummo trattati violentemente da questi improvvisi visitatori che ci picchiavano, distruggevano la casa e rubavano soldi e i pochi oggetti di valore che avevamo. Legati, ci portarono negli uffici centrali della Polizia Argentina, dove siamo stati bendati per dieci giorni, a pane e acqua, con percosse, torture e minacce persistenti. All’incertezza di non sapere cosa stava succedendo a mia moglie, si aggiungeva un dolore intenso per la condizione di indifesa in cui erano rimasti i miei figli Rodrigo e Andrés (5 e 7 anni) che, tornati da scuola, si sarebbero ritrovati senza i loro genitori e con una casa semidistrutta.
Osai, quindi, chiedere a uno dei repressori il motivo dell’arresto e il nostro futuro prossimo. Mi rispose che, su richiesta della DINA, era ricercato e che sarei stato immediatamente inviato a Santiago. Quando chiesi, con sorpresa, cosa avesse a che fare la polizia argentina con un professionista cileno che lavorava negli uffici dell’INTAL (organismo internazionale dipendente del BID), mi rispose nel miglior stile porteño (di Buenos Aires): “Sei gil (tonto) o ci fai? Possiamo avere divergenze con lo Stato cileno, ma nessuna nella comprensione e collaborazione per schiacciare terroristi, marxisti, persone di sinistra e coloro che li aiutano”. Mi ricordai, in quel momento, che oltre al mio lavoro professionale, sostenevo un programma del Consiglio Latinoamericano di Scienze Sociali (CLACSO), per trasferire in paesi solidali con l’esilio cileno gli studenti e accademici cileni che si trovavano detenuti nei campi di concentramento o che avevano perso il lavoro in Cile.
Grazie alla solidarietà internazionale, e probabilmente al fatto che due cittadini britannici furono casualmente arrestati nella stessa offensiva repressiva, noi fummo rimandati in territorio cileno. Mia moglie ed io, insieme ai compagni socialisti Juan Bustos, Ernesto Benado, Catalina Palma, Sergio (Cochin) Muñoz e alcuni altri esuli, fummo rinchiusi nel carcere di Villa Devoto “a disposizione del Potere Esecutivo Nazionale”. Ciò significava che, senza processo per alcun crimine, rimanevamo detenuti a discrezione del governo argentino, per essere persone presumibilmente pericolose. Io e mia moglie fummo detenuti per un anno senza poterci vedere e solo occasionalmente avemmo l’opportunità di ricevere la visita dei nostri genitori, che dovettero stabilirsi a Buenos Aires per proteggere i nostri figli, che per varie settimane furono minacciati telefonicamente.
La visita dei familiari nel carcere di Villa Devoto prevedeva una visita anale e vaginale per i parenti dei detenuti, con cui si pretendeva evitare il probabile ingresso in carcere di qualsiasi lettura, che era severamente vietata. Ricordo oggi, con lo stesso dolore di 46 anni fa, il pianto incontenibile di mio figlio Andrés, che in due occasioni non ha potuto vedere sua madre per il capriccioso impedimento dei gendarmi.
Il 24 marzo 1976, in Argentina, ebbe luogo il golpe di Videla. Nei giorni precedenti ci visitavano alcuni individui in borghese e ad ogni piano di Villa Devoto ci obbligavano a identificarci, ci spogliavano e ci puntavano i mitra. Le chiusure abituali di 23 ore nelle celle si convertirono in permanenti per le due settimane precedenti il golpe. La prigione, che era stata difficile fino a prima del golpe di Videla, si convertì in un inferno dopo il 24 marzo. La relativa certezza che per la nostra condizione di cileni avremmo raggiunto la libertà, si è trasformata in paura e insicurezza quando diversi compagni argentini furono prelevati dalle loro celle e assassinati alle spalle nei pressi dell’aeroporto di Ezeiza o addirittura vicino a Villa Devoto. Ancora oggi non posso dimenticare Gonzalo Carranza, giovane argentino di 27 anni che conobbi in una cella di punizione dove per 15 giorni ci picchiarono e lanciarono acqua fredda ogni notte. Gonzalo si era scontrato più volte con la polizia e, secondo quanto mi disse, giurata. Qualche tempo dopo scoprii che lo avevano tolto dal carcere e il suo corpo era apparso mitragliato.
In quel periodo in cui la morte ci circondava, si parlava apertamente del coordinamento militare repressivo tra la DINA e l’esercito argentino. In tali condizioni, i nostri avvocati (minacciati quotidianamente dai “servizi di sicurezza”) accelerarono le procedure e si appellarono a tutti i tipi di organismi internazionali per ottenere la nostra scarcerazione. Una mattina di settembre del 1976, pochi giorni prima dell’assassinio di Letelier a Washington, la Polizia Federale mi condusse ammanettato all’aeroporto di Ezeiza per essere espulso in Gran Bretagna. Dopo due settimane incontrai mia moglie che, poco prima della partenza, dovette soffrire, durante una notte da incubo, molestie sessuali di ogni genere da parte di funzionari della stessa Polizia Federale. Alcuni giorni dopo sarebbero arrivati i nostri figli, con i quali ci saremmo incontrati dopo una dolorosa separazione.
Io e la mia famiglia abbiamo sperimentato sulla propria carne l’Operazione Condor, ovvero il coordinamento poliziesco e l’azione extraterritoriale dei funzionari della DINA in Argentina. Come è noto, la mia esperienza non è stata unica. In quegli anni migliaia di cileni sperimentarono arresti, torture, sparizioni e morte nei territori cileni e argentini.
La proposta del candidato presidenziale dell’estrema destra ricorda la mia esperienza personale con l’Operazione Condor, che ora cerca rieditare. La democrazia, la pace e la nonviolenza che bramiamo noi cileni/e è minacciato in diversi ambiti dalla proposta di Kast. Ma è particolarmente preoccupante che la sua politica internazionale, invece di affrontare il miglioramento delle relazioni di vicinato, risponda a richieste per far fronte al deterioramento degli ecosistemi o favorire la riduzione degli armamenti, si concentri sulla repressione di persone che hanno ideologie diverse da quelle che lui difende.
Roberto Pizarro Hofer è un economista, con studi post-laurea presso l’Università del Sussex (Regno Unito). Ricercatore del Gruppo Nuova Economia. È stato preside della Facoltà di Economia dell’Università del Cile, ministro della Pianificazione durante il governo di Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994-2000), ambasciatore in Ecuador e rettore dell’Università Academia de Humanismo Cristiano.
La impunidad, banalizada en democracia
Testimonio de un ex ministro chileno: El candidato Kast y la Operación Cóndor
Por Roberto Pizarro
La impunidad, banalizada en democracia, tiene consecuencias. Entre ellas el reciclado de quienes fueron corresponsables de crímenes y delitos contra la humanidad. La indulgencia para con quienes estimularon el golpe de Estado primero, y para con torturadores y asesinos luego, está en el origen de una candidatura que se propone revivir los peores momentos de la bárbara represión que se abatió sobre el pueblo de Chile.
La propuesta del candidato presidencial de la extrema derecha recuerda mi experiencia personal con la Operación Cóndor, la que ahora intenta reeditar. La democracia, la paz y no violencia que anhelamos chilenas y chilenos se encuentra amenazada en varios ámbitos con la propuesta de Kast. Pero resulta particularmente preocupante que su política internacional, en vez de atender el mejoramiento de las relaciones vecinales, responder a las demandas por enfrentar el deterioro de los ecosistemas o favorecer la reducción del armamentismo, se concentre en la represión de personas que tienen ideologías distintas a las que el defiende.
Al leer el programa presidencial de Kast retornaron los dolorosos recuerdos personales y familiares que viví en Buenos Aires, hace precisamente 46 años atrás. En el apartado 33 de la página 27 del programa de Kast, bajo el título “Coordinación Internacional Anti-Radicales de Izquierda”, se lee: “Nos coordinaremos con otros gobiernos latinoamericanos para identificar, detener y juzgar agitadores radicalizados”. Fue esa coordinación, de los aparatos represivos de los gobiernos dictatoriales del cono sur, la que favoreció mi injusta detención, tortura y encarcelamiento en Argentina, gracias a lo que posteriormente se conoció como la Operación Cóndor.
En la mañana del 25 de noviembre de 1975, cuatro policías de Coordinación Federal derribaron a patadas la puerta de mi casa, en el barrio de Caballito. Mi esposa y yo fuimos tratados violentamente por estos repentinos visitantes que nos golpeaban, destruían la casa y se robaban el dinero y las escasas cosas de valor que teníamos. Amarrados, nos llevaron a las oficinas centrales de la Policía Argentina, donde estuvimos vendados durante diez días, a pan y agua, con golpes, torturas y amenazas persistente. A la incertidumbre por no saber qué sucedía con mi esposa, se agregaba un dolor intenso por la condición de desamparo en que habían quedado mis hijos Rodrigo y Andrés (de 5 y 7 años), quienes de vuelta de la escuela se encontrarían sin sus padres y con una casa semidestruida.
Me atreví, entonces, a preguntar a uno de los represores el motivo de la detención y nuestro futuro próximo. Me respondió que, a petición de la DINA, era buscado y que sería enviado inmediatamente a Santiago. Cuando pregunté, con sorpresa, qué tenía que ver la policía argentina con un profesional chileno que trabajaba en las oficinas del INTAL (organismo internacional dependiente del BID), se me respondió al mejor estilo porteño: “¿Sos gil o te hacés? Podemos tener diferencias con el Estado chileno, pero ninguna en el entendimiento y colaboración para aplastar a terroristas, marxistas, izquierdistas y quienes los ayudan”. Recordé, en ese momento, que aparte de mi trabajo profesional, apoyaba un programa del Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales (CLACSO), para reubicar en países solidarios con el exilio chileno a estudiantes y académicos que se encontraban detenidos en campos de concentración o que habían quedado sin trabajo en Chile.
Gracias a la solidaridad internacional, y probablemente debido al hecho que dos ciudadanos británicos fueron casualmente detenidos en la misma ofensiva represiva, no fuimos devueltos a territorio chileno. Mi esposa y yo, junto con los compañeros socialistas Juan Bustos, Ernesto Benado, Catalina Palma, Sergio (Cochin) Muñoz y algunos otros exiliados fuimos encerrados en la cárcel de Villa Devoto “a disposición del Poder Ejecutivo Nacional”. Esto significaba que, sin juicio por delito alguno, quedábamos detenidos bajo la voluntad discrecional del Gobierno argentino, por ser personas supuestamente peligrosas. Mi esposa y yo estuvimos detenidos durante un año sin poder vernos y sólo ocasionalmente tuvimos la oportunidad de recibir la visita de nuestros padres, que debieron instalarse en Buenos Aires para proteger a nuestros hijos que durante varias semanas fueron amenazados telefónicamente.
La visita familiar en la cárcel de Villa Devoto contemplaba una revisión anal y vaginal para los familiares de los presos, con lo que se pretendía evitar el probable ingreso al penal de alguna lectura, lo que se encontraba terminantemente prohibido. Recuerdo hoy día, con el mismo dolor de hace 46 años, el llanto incontenible de mi hijo Andrés que en dos ocasiones no pudo ver a su madre por impedimento caprichoso de los gendarmes.
El 24 de marzo de 1976 se produjo el golpe de Videla en Argentina. En días previos nos visitaban unos individuos vestidos de civil y en cada piso de Villa Devoto nos obligaban a identificarnos, nos desnudaban y nos apuntaban con subametralladoras. Los encierros habituales de 23 horas en las celdas se convirtieron en permanentes durante las dos semanas previas al golpe. La cárcel, que había sido difícil hasta antes del golpe de Videla, se convirtió en un infierno después del 24 de marzo. La relativa certidumbre de que por nuestra condición de chilenos alcanzaríamos la libertad, se transformó en miedo e inseguridad cuando varios compañeros argentinos fueron sacados de sus celdas y asesinados por la espalda en los alrededores del aeropuerto de Ezeiza o incluso cerca de Villa Devoto. Hasta el día de hoy no me puedo olvidar de Gonzalo Carranza, joven argentino de 27 años a quien conocí en una celda de castigo donde por 15 días nos golpearon y tiraron agua fría durante todas las noches. Gonzalo se había enfrentado varias veces a la policía y, según me lo dijo, se la tenían jurada. Tiempo después me enteré que lo habían sacado de la cárcel y su cuerpo había aparecido ametrallado.
En ese periodo en que la muerte nos rodeaba se hablaba abiertamente de la coordinación militar represiva entre la DINA y los militares argentinos. En tales condiciones, nuestros abogados (amenazados a diario por los “servicios de seguridad”) aceleraron trámites y apelaron a todo tipo de instancias internacionales para obtener nuestra salida de la cárcel. Una mañana de septiembre de 1976, pocos días antes del asesinato de Letelier en Washington, la Policía Federal me condujo esposado hasta el aeropuerto de Ezeiza para ser expulsado a Gran Bretaña. Al cabo de dos semanas me reencontré con mi esposa, la que poco antes de la partida debió sufrir, durante una noche de pesadilla, todo tipo de acosos sexuales de parte de funcionarios de la misma Policía Federal. Algunos días después llegarían nuestros hijos, con quienes nos reuniríamos luego de una dolorosa separación.
Mi familia y yo experimentamos en carne propia la Operación Cóndor, vale decir la coordinación policial y la actuación extraterritorial de funcionarios de la DINA en Argentina. Como se sabe, mi experiencia no fue única. En aquellos años miles de chilenos vivieron la detención, la tortura, la desaparición y la muerte en territorios chileno y argentino.
La propuesta del candidato presidencial de la extrema derecha recuerda mi experiencia personal con la Operación Cóndor, la que ahora intenta reeditar. La democracia, la paz y no violencia que anhelamos chilenas y chilenos se encuentra amenazada en varios ámbitos con la propuesta de Kast. Pero resulta particularmente preocupante que su política internacional, en vez de atender el mejoramiento de las relaciones vecinales, responder a las demandas por enfrentar el deterioro de los ecosistemas o favorecer la reducción del armamentismo, se concentre en la represión de personas que tienen ideologías distintas a las que el defiende.
Roberto Pizarro Hofer es economista, con estudios de posgrado en la Universidad de Sussex (Reino Unido). Investigador Grupo Nueva Economía. Fue decano de la Facultad de Economía de la Universidad de Chile, ministro de Planificación durante el gobierno de Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994-2000), embajador en Ecuador y rector de la Universidad Academia de Humanismo Cristiano.