Assange, o liquidare il messaggero

Francisco Sierra Caballero www.cubadebate.cu

La libertà di espressione è in pericolo. Nello stato fallito USA, mentre l’amministrazione di Joe Biden gioca alla spirale della dissimulazione sotto forma di vertice della democrazia per la regione si conta, ancora una volta, sul Cavallo di Troia della giustizia britannica e del suo Stato, storicamente allineato agli interessi nordamericani per esemplificare così un “avviso ai naviganti”.

È noto che l’informazione è potere e che la cattura del codice è centrale nel nuovo regime di mediazione sociale, ma solo da quando Wikileaks ha rivelato, con documentazione ufficiale, le forme di funzionamento e controllo della CIA, la maggioranza della popolazione ha iniziato ad essere cosciente dell’era del “Grande Fratello”.

Una delle conclusioni più evidenti degli studi sulle forme di egemonia nella comunicazione mondiale è, proprio, l’imperiosa necessità di un sistema di comando, incaricato di imporre e promuovere la devastante logica del dominio o sicurezza totale, colonizzando così la sfera pubblica ed estendendo la politica dell’informazione delle “belle menzogne” come unico e vero resoconto degli eventi storici.

E questo, persino, a condizione di pianificare e produrre massicciamente programmi di terrore mediatico e militare per coprire gli obiettivi imperiali, annullando ogni lacuna di critica e pluralismo informativo nella comprensione dei problemi fondamentali della nostra società.

In questo contesto va collocata la persecuzione di Julian Assange. Parafrasando Slavoj Žižek, Assange rappresenta una nuova pratica del comunismo che democratizza l’informazione. Il pubblico solo sarà salvato attraverso l’epica lotta di eroi della civilizzazione tecnologica. Assange, Manning, Snowden sono, come afferma Žižek: “…casi esemplari della nuova etica che corrisponde alla nostra era digitale”.

In quanto spia del popolo, l’auto abnegazione di Assange mette in scena l’epica dell’eroe che mina la logica della segretezza per affermare il pubblico per ragioni geopolitiche e di diritti. Parliamo soprattutto del diritto ad avere diritti di fronte al cinico discorso della Casa Bianca che Wikileaks ha svelato decostruendo, punto per punto, documento per documento, la vergogna di un ordine sociale arbitrario.

Chi di noi ha partecipato alla campagna internazionale per la libertà del fondatore di Wikileaks sa, in questo senso, che in questa lotta ci giochiamo il futuro della democrazia e dei diritti umani. Nell’era della videosorveglianza globale, la difesa di Assange è la protezione di tutti contro l’NSA e la classe stabilizzatrice dell’apparato politico del terrore che opera al servizio di Wall Street.

Se è che, secondo Mike Davis, la globalizzazione accelera la dispersione high-tech di grandi istituzioni della società industriale come la banca, dando luogo a processi di disancoraggio ed incertezza, in questa dinamica non è possibile il controllo sociale senza ricorrere al discorso della paura.

La paura è sempre stata un’efficace risorsa di propaganda e oggi torna ad essere la principale funzione di dominio ideologico. Così, ad esempio, come ricorda Eagleton, i soviet ed il nemico rosso sono scomparsi, ma restano i musulmani a simulare questa funzione, con cui l’Occidente evoca le sue contraddizioni nella forma dell'”Atto Patriottico”.

L’acuta percezione dell’insicurezza nel nostro tempo è, in questo senso, la condizione dell’efficacia della politica dell’aporafobia e la principale lezione che dobbiamo assimilare dal caso Assange. Questa logica è tipica di quello che la sociologia, a partire da Stanley Cohen, chiama panico morale, una reazione irrazionale di costruzione e rifiuto di minacce velate o apertamente contrarie alla norma dominante basata, fondamentalmente, sulla capacità di stereotipatia dei media.

L’analisi colturale della Scuola di Annenberg ha da tempo dimostrato come la violenza simbolica sia alimentata dal piccolo schermo in una sorta di revival del dominio originario.

Ne abbiamo già dato un resoconto più che dettagliato nel libro “La Guerra dell’Informazione” (CIESPAL, Quito 2017). E ne abbiamo parlato con Assange al Congresso Internazionale dei Movimenti Sociali e delle Tecnologie dell’Informazione tenutosi a Siviglia.

La conferenza di apertura dell’incontro è stata indubbiamente rivelatrice. E lo confermiamo con la pericolosa risoluzione della giustizia britannica, che convalida il principio di superiorità informativa e l’usanza, comune dagli anni Novanta, di eliminare il messaggero. Il solo contrasto tra il caso Pinochet e la sentenza a favore dell’estradizione negli USA rivela la logica del dominio che impera con il lawfare.

La domanda è cosa dicono i media che hanno pubblicato i cablogrammi di Wikileaks, come si posizionano Reporters Sans Frontières, la SIP e altre organizzazioni corporative di fronte a tali attacchi, abituati a denunciare i problemi della libertà di espressione in Venezuela mentre mutano la loro posizione in Colombia. Denunceranno le azioni della CIA e del Pentagono nei loro sforzi per eliminare Assange? Sosterranno la posizione della Federazione Internazionale dei Giornalisti o dell’ULEPICC? Temiamo di no.

Alcuni anni fa, il CIESPAL ha condotto la campagna internazionale in difesa della libertà di Assange; abbiamo creato la cattedra Julian Assange di Tecnopolitica e Cibercultura; contribuiamo in Nostra America a pensare alla sfida della mediazione sociale a partire dai valori democratici; e non ci fermiamo, nei media pubblici e privati, di difendere i diritti comuni alla comunicazione.

Oggi il governo di estrema destra dell’Ecuador tace, e ha già concesso al suo predecessore la dovuta resa e omaggio a Washington, violando i diritti costituzionali del dirigente di Wikileaks.

Tuttavia i popoli hanno memoria, la volontà comune prevarrà contro i nemici della libertà, della democrazia e dei Diritti Umani. È questione di tempo, ma Julian Assange non ne dispone più. È ora di schierare un assedio contro il Pentagono e la Casa Bianca. Senza dubbio, è la grande battaglia del 2022!

(Tratto da Revista Tlatelolco)


Assange, o liquidar al mensajero

Por: Francisco Sierra Caballero

La libertad de expresión está en peligro. En el Estado fallido estadounidense, mientras la administración de Joe Biden juega a la espiral del disimulo en forma de cumbre de la democracia para la región, se cuenta una vez más con el Caballo de Troya de la justicia británica y de su Estado, históricamente alineado hacia los intereses norteamericanos para ejemplificar así un “aviso a navegantes”.

Bien es sabido que la información es poder y que la captura del código es central en el nuevo régimen de mediación social, pero sólo desde que Wikileaks reveló con documentación oficial las formas de operación y control de la CIA, la mayoría de la población ha empezado a ser consciente de la era del “Gran Hermano”.

Una de las conclusiones más evidentes de los estudios sobre las formas de hegemonía en la comunicación mundial es, precisamente, la imperiosa necesidad de un sistema de comando, encargado de imponer y propiciar la devastadora lógica de dominio o seguridad total, colonizando así la esfera pública y extendiendo la política de información de las “bellas mentiras” como relato único y verdadero de los acontecimientos históricos.

Y ello, incluso, a condición de planificar y producir masivamente programas de terror mediático y militar para cubrir los objetivos imperiales, anulando todo resquicio de crítica y pluralismo informativo en la comprensión de los problemas fundamentales de nuestra sociedad.

En este contexto hay que situar la persecución de Julian Assange. Parafraseando a Slavoj Žižek, Assange representa una nueva práctica de comunismo que democratiza la información. Lo público sólo se salvará mediante la épica lucha de héroes de la civilización tecnológica. Assange, Manning, Snowden son, como sentencia Žižek: “…casos ejemplares de la nueva ética que corresponde a nuestra época digital”.

Como espía del pueblo, la autonegación de Assange escenifica la épica del héroe que socava la lógica del secreto para afirmar lo público por razones geopolíticas y de derechos. Sobre todo, hablamos del derecho a tener derechos frente al discurso cínico de la Casa Blanca que Wikileaks reveló deconstruyendo, punto a punto, documento a documento, la vergüenza de un orden social arbitrario.

Quienes hemos participado en la campaña internacional por la libertad del fundador de Wikileaks sabemos, en este sentido, que en esta lucha nos jugamos el futuro de la democracia y de los derechos humanos. En la era de la videovigilancia global, la defensa de Assange es la protección de todos contra la NSA y la clase estabilizadora del aparato político de terror que trabaja al servicio del Wall Street.

Si es que, de acuerdo con Mike Davis, la globalización acelera la dispersión high-tech de grandes instituciones de la sociedad industrial como la banca, dando lugar a procesos de desanclaje e incertidumbre, en esta dinámica, no es posible el control social sin recurrir al discurso del miedo.

El temor siempre ha sido un eficaz recurso de propaganda y hoy de nuevo la principal función de dominación ideológica. Así, por ejemplo, como recuerda Eagleton, los soviets y el enemigo rojo han desaparecido, pero quedan para simular esta función los musulmanes, con los que Occidente conjura sus contradicciones en forma de “Acta Patriótica”.

La percepción aguda de inseguridad en nuestro tiempo es, en este sentido, la condición de la eficacia de la política de aporafobia y la principal lección que hemos de asimilar del caso Assange. Esta lógica es propia de lo que la sociología, desde Stanley Cohen, denomina pánico moral, una reacción irracional de construcción y rechazo de amenazas veladas o abiertamente contrarias a la norma dominante a partir, fundamentalmente, de la capacidad de estereotipia de los medios.

El análisis de cultivo de la Escuela de Annenberg hace tiempo que ha demostrado cómo la violencia simbólica es alimentada por la pequeña pantalla en una suerte de revival de la dominación original.

De ello ya hemos dado cuenta más que detalladamente en el libro “La Guerra de la Información” (CIESPAL, Quito 2017). Y de ello hablamos con Assange en el Congreso Internacional de Movimientos Sociales y Tecnologías de la Información celebrado en Sevilla.

La conferencia de apertura del encuentro fue sin duda reveladora. Y la constatamos con la peligrosa resolución de la justicia británica, que valida el principio de superioridad informativa y la costumbre, habitual desde los años noventa, de eliminar al mensajero. Sólo poner en contraste el caso Pinochet y el fallo en favor de la extradición a Estados Unidos da cuenta de la lógica de dominio que impera con el lawfare.

La cuestión es qué dicen los medios que publicaron los cables de Wikileaks, cómo se posicionan Reporteros sin Fronteras, la SIP y otras organizaciones gremiales ante tales ataques, acostumbrados a denunciar problemas de libertad de expresión en Venezuela al tiempo que mutan su posición en Colombia. ¿Van a denunciar l as actuaciones de la CIA y el Pentágono en su empeño por eliminar a Assange?, ¿Respaldarán la posición de la Federación Internacional de Periodistas o ULEPICC? Nos tememos que no.

Hace pocos años, el CIESPAL lideró la campaña internacional en defensa de la libertad de Assange; creamos la cátedra Julian Assange de Tecnopolítica y Cibercultura; contribuimos en Nuestramérica a pensar el reto de la mediación social desde valores democráticos; y no cesamos en medios públicos y privados de defender los derechos comunes a la comunicación.

Hoy el gobierno ultraderechista de Ecuador calla, y ya otorgó a su antecesor la debida rendición y pleitesía a Washington, vulnerando los derechos constitucionales del líder de Wikileaks.

Sin embargo, los pueblos tienen memoria, lo común se impondrá contra los enemigos de la libertad, la democracia y los Derechos Humanos. Es cuestión de tiempo, pero Julian Assange no dispone más. Toca desplegar un cerco contra el Pentágono y la Casa Blanca. Sin duda, ¡es la gran batalla de 2022!

(Tomado de Revista Tlatelolco)

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