Venezuela, attacco alle caserme

di Geraldina Colotti

“Attenzione popolo del Venezuela: all’alba di oggi, un gruppo di terroristi armati ha preso d’assalto un’unità militare di frontiera nel sud della Repubblica”… Cominciava così, ieri, il primo dei tre twitter emesso dal governo bolivariano per voce del ministro della Comunicazione, Jorge Rodriguez. “Con dolore dobbiamo informare che nell’attacco i terroristi hanno assassinato un giovane effettivo del nostro esercito bolivariano”, continuava il ministro, promettendo di “cercare gli omicidi in fuga fin sotto le pietre affinché paghino per un crimine così vigliacco”.

L’attacco – precisava il comunicato – era stato portato da un ufficiale disertore con la complicità di alcuni indigeni pemones riservisti, alla frontiera con il Brasile. Obiettivo dell’assalto, quello di sottrarre armi all’esercito bolivariano da impiegare per nuovi tentativi di colpo di stato, confidando in qualche ribellione interna alla Forza Armata Nazionale bolivariana.

Un tentativo finora andato a vuoto, che ha mostrato la solidità dell’unione civico-militare, pur nella difficile situazione che pesa sul paese a causa delle sanzioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, e della sfibrante guerra economico-finanziaria scatenata da anni dalle oligarchie dirette dall’esterno. Anche questa volta – ha detto poi il governo – tutti gli attaccanti tranne uno sono stati arrestati e tutte le armi recuperate.

I falchi del Pentagono vogliono forzare i tempi e la mano anche a quanti, all’interno dell’amministrazione USA e dell’Unione Europea, riconoscono il fallimento della linea golpista e spingono per la trattativa. Il 5 gennaio scade infatti il periodo previsto dalla destra per cambiare di turno alla presidenza del Parlamento, che – per rotazione – finora è toccata alla parte più estremista, quella di Voluntad Popular, il partito di Juan Guaidó.

Un bel problema per la banda di Guanito Alimaña, soprannome tratto da un noto ladro, attribuito dal chavismo al deputato autoproclamatosi “presidente incaricato” a gennaio, per ricordarne la caratteristica principale: l’intenzione di saccheggiare il paese con ogni mezzo. E infatti non si contano gli scandali per corruzione che vedono coinvolto Guaidó e la sua banda, denunciati dagli stessi deputati dalla destra che si sono sentiti esclusi dalla festa.

Il Parlamento si trova in una situazione di illegalità, sancita dal Tribunal Supremo de Justicia dopo l’avvenuta incorporazione fraudolenta di tre deputati indigeni che non meritavano l’elezione. Un limbo fuori controllo che, a conti fatti, ha favorito la sfrenata corsa al bottino – le immense risorse del Venezuela – portata avanti da Guanito Alimaña fin dall’inizio. Una cuccagna che, ora, né la destra fascista, né i padrini occidentali intendono lasciarsi scappare.

Per questo, in vista delle parlamentari previste a gennaio e a fronte degli accordi di mediazione conclusi tra il governo bolivariano e quella parte di opposizione moderata che non vuole perdere il proprio stipendio e intende quindi ripresentarsi alle elezioni, Guaidó cerca da un lato di cambiare le regole del gioco in Parlamento, e dall’altro di giocarsi il tutto per tutto.

Già nell’ultimo tentativo destabilizzante, come sempre proveniente dalla Colombia, sventato dall’intelligence bolivariana e illustrato in televisione da Jorge Rodriguez, le intercettazioni mostravano la strategia considerata prioritaria dai golpisti: sottrarre armi all’esercito, per rifornire i paramilitari e per seminare la sfiducia nella FANB.

Questa volta – ha fatto sapere il governo – l’assalto è stato organizzato sia in Colombia che in Perù, e con il beneplacito del Brasile di Bolsonaro che preme per avere un buon alleato alla frontiera. Partono prevalentemente dal Brasile, infatti, i trafficanti di oro, che in questi anni hanno imperversato in Venezuela anche nelle zone sotto controllo ambientale, le zone recondite della Gran Savana, grazie all’amministrazione locale gestita dalla destra, e a cui il governo bolivariano sta mettendo ora i bastoni fra le ruote.

I nuovi progetti decisi dal governo Maduro per ridurre l’impatto ambientale prevedono la preservazione dei territori dove vivono da sempre gli indigeni pemones. Per questo, a seguito di una lunga inchiesta che ha coinvolto le popolazioni, sono state create piccole cooperative che hanno coinvolto i minatori in una gestione meno devastante delle risorse e nella custodia dei parchi naturali.

Una politica che ha pestato i calli anche a quella parte degli indigeni pemones che si presta a essere massa di manovra della destra venezuelana, e che si è fatta arruolare negli attacchi volenti organizzati da Guaidó nel corso di questo anno. Una realtà completamente capovolta dalla propaganda occidentale, che accusa il governo bolivariano di voler procedere all’estrattivismo selvaggio nei territori “incontaminati”.

Così ha descritto invece la situazione la ministra venezuelana dei popoli indigeni, Aloha Nuñez, in una nostra recente intervista: “Il 23 febbraio, Emilio Gonzalez, sindaco della Gran Sabana, ha comprato delle casse di viveri e ha diffuso le foto di indigeni che li trasportavano in barca, facendo credere che si trattasse degli “aiuti umanitari” inviati dagli USA per Guaidó. Altri mercenari hanno sequestrato un camion e vi hanno apposto la scritta “aiuti umanitari”. Lo hanno denunciato gli stessi leader delle comunità indigene. Il sindaco si è poi inventato una inesistente repressione per lasciare l’incarico e fuggire in Brasile, e così il governo regionale ha dovuto assumere la responsabilità di tutto il municipio”.

E mentre i fascisti venezuelani cercano di rovinare il Natale ai loro concittadini, quelli della Bolivia – diretti dall’autoproclamata locale, Janine Añez, – procedono a spron battuto verso il “consenso di Washington”, aderendo al Gruppo di Lima: per “risolvere la crisi del Venezuela”, ha detto l’autoproclamata.

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