Chi teme l’interscambio culturale Cuba-USA?

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Jorge Angel Hernandez  La Jiribilla 

Un’importante strategia per avanzare nell’obsoleto contenzioso USA – Cuba sta nello sviluppo di un aperto interscambio culturale tra i due paesi. Non è, ovviamente, né la soluzione diplomatica né, meno ancora, la più avanzata nel processo di recupero di una legalità più o meno convenzionale, ma sì è la più legittima e, pertanto, quella che con maggior efficacia potrebbe incidere nell’opinione pubblica statunitense, senza che parti di potere manipolino, a volontà, il ricettore. E, di gran lunga, quella che meglio rivela l’invalidità degli argomenti che si usano, in contrasto con la maggioritaria opinione dei paesi membri dell’ONU, per non eliminare il blocco economico, commerciale e finanziario imposto all’isola Contrariamente a ciò che riproduce la propaganda mediatica globale, la maggior parte della produzione artistica e letteraria che si fa e si promuove a Cuba contiene un profondo status critico verso questioni proprie della società cubana. Successi e limitazioni che si denunciano in ambiti politicizzati hanno il loro posto, da anni, nel lavoro degli artisti cubani. I limiti istituzionali che lo spettro di espressione può aver si trovano, quasi esclusivamente, su questioni che vanno oltre l’artistico o il letterario, la libertà individuale – sessuale, religiosa o di qualsiasi altra indole – e utilizzano l’opera come volgare strumento di propaganda ideologizzata. In particolare, in coloro che concordano con la tendenza politica plattista. Non è un conflitto la cui origine si trovi nella Rivoluzione del 1959, ma prima, ancorché l’  Emendamento Platt fosse firmato nel 1901. Ma è vero che l’istituzione ufficiale del blocco USA contro Cuba, nel 1962, ha segnato una nuova linea nelle sue norme interventisie ed extraterritoriali. Ed è proprio questa linea plattista che più invoca il blocco come legge per reagire contro gli interscambi culturali e la presentazione di cubani, con autonomia di giudizio, in territorio statunitense.

L’aggressiva reazione dei settori più estremisti della lobby cubano-americana contro il cantautore Tony Avila, invitato dal Ristorante Yerba Buena a presentare il  suo concerto “Timbiriche” a Miami, potrebbe essere preso come un ulteriore monotono capitolo della lunga tensione tra le due nazioni. C’è una diretta connessione tra le accuse di repressore che gli hanno rivolto le Dame in Bianco e la comunicazione che, Ileana Ros-Lehtinen, Mario Diaz-Balart e Albio Sires, hanno inviato alla sotto Segretaria di Stato, Roberta Jacobson, chiedendo l’immediata revoca del visto al trovatore. Ossia, le finanziate Dame cubane emettono la protesta che serve si gestori del finanziamento per cercare il pretesto che “legalmente” censuri la prestazioni del cantante.

Perché questo odio censore tenta mobilitare armature legali contro gli interscambi culturali che, benché alcuni tra tensioni, distorsioni ed ostacoli di vario genere si sono andati realizzando con sufficiente fluidità?

Le canzoni di Ávila, come quelle della stragrande maggioranza dei nostri cantautori, contengono critiche alla società cubana di oggi, senza per questo essere censurate. Al contrario: esse diventano successi in quasi tutti i mass media sull’isola. Non sono, tuttavia, uno strumento di legittimazione dell’ingerenza o, addirittura, un appello all’abolizione del sistema delle relazioni sociali. Sono parte del processo rivoluzionario, critica e contraddittoriamente, come si addice all’arte. Qui sta il punto cruciale del caso: il plattismo è disposto ad ammettere solo ciò che che coinvolga il governo e sia disposto a rovesciarlo. E ciò che attiene ai suoi modelli più duramente reazionari. Si noti che le accuse delle Dame potrebbero essere perseguite, per diffamazione, in qualsiasi tribunale in qualsiasi parte del mondo e che, tuttavia, questo non ha limitato, in definitiva, le misure restrittive e la virulenta reazione dei censori d‘ufficio.

Il primo passo della strategia di controllo dell’opinione riguardo a Cuba, negli USA, consiste nell’ottenere dichiarazioni controrivoluzionarie, adattabili ai modelli che, per anni, sono stati sostenutii: la demonizzazione assoluta di tutto ciò che ha propiziato il socialismo cubano. Per questa campagna di propaganda costante, ci sono solo fallimenti a Cuba. Se questo non funziona, e l’artista, con il suo giudizio e anche con la propria opera, che il pubblico può apprezzare direttamente, contraddice  ciò che gli si cerca di imporre, rischia l’aggressione verbale e, soprattutto, il boicottaggio pubblico ed il linciaggio artistico. E nei casi come quello di  Avila, la repressione attraverso il sotterfugio legale.

Sono quei germi d’intolleranza, solo fanatismo miserabile ed ereditato? Sono inoltre naturali reazioni dell’animale territoriale che vede in pericolo l’invasione del suo spazio?

A questi due punti, presenti in effetti, nelle reazioni deve essere aggiunto il vero pericolo che l’interscambio culturale presenta: il totale discredito del pacchetto di argomenti che ha condizionato gran parte dell’opinione pubblica USA, comprese le comunità di immigrati latini.

Gli interscambi culturali introducono nella sfera pubblica un dialogo che comprende molto più che quello delle istituzioni e pone in discussione i precetti ideologici con cui é stata soggiogata l’opinione pubblica e, soprattutto, che hanno giustificato l’incremento delle voci di bilancio per il progetto d’ingerenza contro Cuba. Questo sembra essere, anche, la ragione per cui Hillary Clinton, come Obama in precedenza nella sua campagna per la presidenza, poteva dichiararsi contro il blocco: le finalità interventiste hanno sicuramente fallito con tali strategie.

Mentre l’incrocio d’informazioni tra le due rive si basava solo intorno alle dichiarazioni pubbliche dei cosiddetti disertori, o fuggiaschi, cioè degli emigranti economici che dovevano considerarsi perseguitati politici per poter aspirare ai privilegi che le leggi del governo USA offrono ai cubani, il controllo dei modelli di opinione di coloro che risiedono negli USA non soffrivano troppo alterazione. La necessità d’impiego e la reintegrazione dell’emigrante facilita lo stato di opinione e lo aggiusta facilmente agli standard di giudizio. Per informazione di base, per il normale recettore del Nord, il regime cubano non permette la benché minima libertà di espressione, e, inoltre, reprime con pugno di ferro qualsiasi dissenso. E qualcosa di molto importante per i loro scopi da Guerra Fredda: si fa credere che la stragrande maggioranza degli artisti e scrittori sono contro il regime e che solo un ferro controllo ottiene contenere la loroo esplosione. La comparsa di esempi contrari, e diversi, fa fallire il disegno e mette in serio pericolo il costante finanziamento che il Dipartimento del Tesoro ha concesso a queste organizzazioni.

Per l’opinione pubblica, in una certa misura si giustifica che l’artista che “fugge” o “scappa” dall’isola – presentata in modo manicheo come una prigione collettiva – cerchi d’esprimersi liberamente, benché sia sotto le strette norme delle produzioni che l’industria culturale può porre a sua disposizione. Dopo tutto, le restrizioni commerciali del capitalismo sono accettate come un meccanismo di convalida per l’industria culturale e, soprattutto, per quella d’intrattenimento. Ma l’afflusso di artisti, scrittori e accademici cubani che non portano i soliti propositi di emigrazione e che, quindi, non sono costretti a modificare le loro dichiarazioni alla strategia della Guerra Fredda, rompe completamente lo schema con cui così facilmente avevano manipolato il consenso del pubblico. Se a questo si aggiunge l’emergere di casi di persone che, di fronte alle vessazioni degli intervistatori, dissentono dai modelli di giudizio che riproducono sia le catene TV come la stampa, la questione supera ciò che il fondamentalismo anti-castrista può tollerare. Se il panorama cambia, la stessa politica USA li potrebbe, a breve termine, porli fuori dalla ripartizione.

Anche se il caso di Tony Avila può sembrare un ulteriore anello di una catena la cui lunghezza ancora non è precisa, le reazioni indicano le chiare strategie del plattismo per boicottare ogni tentativo di creare un clima favorevole nelle sempre tese relazioni tra Cuba e gli USA. Se noi  artisti e scrittori non capiscono il contesto storico del conflitto centenario, insieme al ruolo degli agenti che cercano di controllare i modelli di opinione, saremo a rischio di essere convertiti in palline di badminton nel mezzo del ciclone, e senza che importi a nessuno che cosa pensiamo.

 ¿Quién teme al intercambio cultural Cuba-EE.UU.?   J

Jorge Ángel Hernández – La Jiribilla

Una estrategia importante para avanzar en el obsoleto diferendo EE.UU.- Cuba está en el desarrollo de un abierto intercambio cultural entre ambos países. No es, por supuesto, ni la solución diplomática ni, tampoco, la que más adelanta en el proceso de recuperación de una legalidad más o menos convencional, pero sí es la más legítima y, por tanto, la que con mayor efectividad pudiera incidir en la opinión pública estadounidense, sin que las partes de poder manipulen a voluntad al receptor masivo. Y, con mucho, la que mejor revela la improcedencia de los argumentos que se usan, en contra de la mayoritaria opinión de los países miembros de la ONU, para no levantar el bloqueo económico, comercial y financiero impuesto a la Isla. Contrariamente a lo que reproduce la propaganda mediática global, la mayor parte de la producción artística y literaria que se hace y se promueve en Cuba contiene un profundo estatus crítico hacia cuestiones propias de la sociedad cubana. Sucesos y limitaciones que se denuncian en ámbitos politizados, tienen su espacio desde años en el trabajo de los creadores cubanos. Los límites institucionales que el espectro de expresión puede tener se ubican, casi absolutamente, en cuestiones que rebasan lo artístico, o lo literario, la libertad individual —sexual, religiosa o de cualquier otra índole—, y usan la obra como un vulgar instrumento de propaganda ideologizada. Concretamente, en aquellos que pactan con la tendencia política plattista. No es un conflicto cuyo origen se ubique en la Revolución de 1959, sino antes, incluso, de que la Enmienda Platt fuese firmada, en 1901. Pero es cierto que el establecimiento oficial del bloqueo estadounidense contra Cuba, en 1962, marcó una nueva línea en sus pautas injerencistas y extraterritoriales. Y es justo esa línea plattista la que más invoca el bloqueo como ley para reaccionar contra los intercambios culturales y la presentación de cubanos con independencia de criterio en territorio norteamericano. La agresiva reacción de los sectores más extremistas del lobby cubanoamericano contra el trovador Tony Ávila, invitado por el Restaurante Yerba Buena a presentar su Concierto “Timbiriche” en Miami, pudiera tomarse como un monótono capítulo más de las ya largas tensiones entre las dos naciones. Hay una conexión directa entre la acusación de represor que le hicieran las Damas de blanco y la comunicación que Ileana Ros-Lehtinen, Mario Díaz-Balart y Albio Sires dirigieron a la subsecretaria de Estado, Roberta Jacobson, exigiendo la revocación inmediata de la visa al trovador. O sea, las financiadas damas cubanas emiten la protesta que va a servir a los gestores del financiamiento para buscar el pretexto que, “legalmente”, censure su actuación. ¿Por qué ese odio censor intenta movilizar entramados legales contra los intercambios culturales que, aunque algunos en medio de tensiones, tergiversaciones y obstrucciones de diversa índole, se han ido realizando con bastante fluidez? Las canciones de Ávila, como las de la inmensa mayoría de nuestros trovadores, contienen críticas a la sociedad cubana de hoy, sin que por ello sean censuradas. Por el contrario: se convierten en éxitos en casi todos los medios de difusión masiva de la Isla. No son, sin embargo, un instrumento legitimador de la injerencia ni, siquiera, un llamado a la abolición del sistema de relaciones sociales. Son parte del proceso revolucionario, crítica y contradictoriamente, como corresponde al arte. Ahí radica el quid del caso: el plattismo está dispuesto a admitir solo lo que intervenga en el gobierno y lo derroque. Y lo que acate sus patrones más duramente reaccionarios. Téngase en cuenta que la acusación de las Damas puede ser procesada por difamación en cualquier tribunal de cualquier lugar del mundo y que, sin embargo, esto no ha limitado, a la postre, las medidas restrictivas y la virulenta reacción de los censores de oficio. El primer paso de la estrategia del control de opinión respecto a Cuba en EE.UU. consiste en conseguir declaraciones contrarrevolucionarias, adaptables a los patrones que durante años se han estado sosteniendo: la demonización absoluta de todo lo que ha propiciado el socialismo cubano. Para tal propaganda de campaña constante, solo hay fracasos en Cuba. Si esto no funciona, y el artista, con su propio criterio, y hasta con su propia obra, que el público puede apreciar directamente, contradice a aquel que intenta imponérsele, se arriesga a la agresión verbal y, sobre todo, al boicot público y al linchamiento artístico. Y en casos como el de Ávila, a la represión a través del subterfugio legal. ¿Son esos gérmenes de intolerancia solo fanatismo arrastrado y heredado? ¿Son además natural reacción del animal territorial que ve en peligro la invasión de su espacio? A estos dos puntos, presentes, en efecto, en las reacciones, debe sumarse el verdadero peligro que el intercambio cultural presenta: la desacreditación total del paquete de argumentos que ha condicionado buena parte de la opinión pública estadounidense, incluidas las comunidades latinas de emigrantes. Los intercambios culturales introducen en la esfera pública un diálogo que abarca mucho más que el de las instituciones y ponen en tela de juicio los preceptos ideológicos con los que han estado sojuzgando a la opinión pública y, más que todo, justificando el incremento de las partidas presupuestarias para los proyectos injerencistas contra Cuba. Ese parece ser, incluso, el motivo por el que Hillary Clinton, como antes Obama en su campaña por la presidencia, pudiera declararse en contra del bloqueo: los propósitos injerencistas han fracasado definitivamente con tales estrategias. Mientras el cruce de información entre una y otra orilla se basaba solo en las declaraciones públicas alrededor de los llamados desertores, o fugados, es decir, de los emigrantes económicos que debían considerarse perseguidos políticos para poder aspirar a los privilegios que las leyes del gobierno estadounidense ofrecen a los cubanos, el control de los patrones de opinión de quienes residen en los EE.UU. no sufría demasiada alteración. La necesidad de empleo y reinserción del emigrante facilita el estado de opinión y lo ajusta fácilmente a sus estándares de juicio. Por base informativa, para el habitual receptor del Norte, el régimen cubano no permite ni la más mínima libertad de expresión, y, por demás, reprime con mano dura cualquier disidencia. Y algo muy importante para sus propósitos de Guerra Fría: se hace creer que la inmensa mayoría de los artistas y escritores están en contra del régimen, y que solo un férreo control consigue contener su explosión. La aparición de ejemplos contrarios, y diversos, quiebra el diseño de opinión y pone en serio peligro el constante financiamiento que el Departamento del tesoro ha concedido a esas organizaciones. Para la opinión pública, en cierta medida se justifica que el artista que “huye”, o “escapa” de la Isla —maniqueamente presentada como una prisión colectiva—, busque expresarse libremente, aunque sea bajo las bien estrictas normas de las productoras que la industria cultural puede poner a su disposición. A fin de cuentas, las restricciones empresariales del capitalismo son aceptadas como un mecanismo de validación para la industria cultural y, sobre todo, para la del entretenimiento. Pero la afluencia de artistas, escritores y académicos cubanos que no llevan los habituales propósitos de emigración, y que, por ello, no se ven forzados a ajustar sus declaraciones a la estrategia de Guerra Fría, rompe por completo el esquema con el que tan fácilmente habían manipulado el consenso público. Si a esto se suma la aparición de casos de personas que, ante el acoso de los entrevistadores, disienten de los patrones de juicio que reproducen tanto las cadenas de televisión como la prensa, el asunto pasa de lo que el fundamentalismo anticastrista puede tolerar. Si el panorama cambia, la propia política estadounidense los pondría a corto plazo fuera del reparto. Si bien el caso de Tony Ávila puede parecer un eslabón más de una cadena cuya longitud aún no se precisa, las reacciones indican las claras estrategias del plattismo para boicotear cualquier intento de crear un clima favorable en las siempre tensas relaciones entre Cuba y los EE.UU. Si los artistas y escritores no entendemos los trasfondos históricos del centenario conflicto, de conjunto con el papel de los agentes que intentan controlar los patrones de opinión, estaremos a riesgo de ser convertidos en cestillas de bádminton en medio del ciclón, y sin que importe para nada qué pensamos.

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