Armando Hart: la cultura si promuove, non si dirige

Pedro de la Hoz

Forse l’impresa più tremenda affrontata dal dottor Armando Hart nella sua traiettoria rivoluzionaria è stata la creazione del Ministero di Cultura.

Coraggioso combattente della lotta clandestina, membro della direzione della fondazione del Movimento 26 di luglio, prigioniero del regime tirannico, al trionfo della Rivoluzione ricevette una sfidante responsabilità: divenire il primo ministro d’Educazione della nuova era storica aperta nel paese.

Interprete creativo delle idee di Fidel, Hart svolse un ruolo decisivo nella trasformazione delle caserme in scuole, nelle riforme delle università, nella giusta dignità del ruolo del maestro, ma soprattutto nella strumentazione e lo sviluppo della Campagna di Alfabetizzazione nel 1961.

Dopo la fondazione del Partito Comunista di Cuba ha occupato alte responsabilità, tra le quali quella di segretario dell’organizzazione.

Era stato eletto membro del Burò Politico del primo Comitato Centrale e primo segretario del Partito nella provincia d’Oriente nel primo lustro degli anni ’70.

Fu al termine di questa tappa quando, come parte del processo d’istituzionalizzazione, la direzione del paese gli propose di guidare il Ministero di Cultura.

Non esistevano precedenti, salvo il Consiglio Nazionale di Cultura, che negli ultimi anni aveva avuto un comportamento negativo.

Per fortuna funzionavano entità chiave fondate nei primi anni della Rivoluzione, che marcavano un modello.

Il Ministero di Cultura doveva creare, e nel migliore dei casi restituire, un clima di fiducia tra artisti, scrittori e promotori con un sistema istituzionale radicalmente nuovo.

Nelle mie lunghe conversazioni con Hart, lui mi confessò crudamente che la prima cosa che valeva la pena era chiedersi a cosa serviva un Ministerio di Cultura.

Osservando altre realtà, si rese conto che c’erano paesi dove il ministero era costretto a operare parcelle nell’ambito pubblico, molte volte a svantaggio del settore privato: l’aggressione neoliberale degli anni ‘80 in America Latina e nei Caraibi e la crisi dello stato di benessere in vari paesi europei confermarono la sua percezione.

Ma, analizzando come fece sempre, la gestione degli organismi nell’Unione Sovietica e nel campo socialista europeo, apprezzò come la normatività estetica, lo scoraggiamento nella sperimentazione e i dogmi limitavamo sensibilmente il volo della creazione artistica e letteraria e stimolavano, nonostante tutto, fenomeni indesiderabili ai margini della società.

Prima di prendere qualsiasi decisione, Hart si dedicò ad ascoltare tutti i criteri degli scrittori e degli artisti cubani, degli specialisti e accademici e di Fidel in azione con l’impronta delle riunioni che sboccarono nelle vigenti Parole agli Intellettuali.

Solo in quel modo riuscì a comprendere la complessa natura dei processi, soprattutto quando gli effetti del detto quinquennio grigio pianificavano la vita culturale della nazione.

Nell’esercizio delle sue funzioni, ben 21 anni a capo del Ministero, Hart giunse a una conclusione che varrebbe la pena analizzare alla luce del nostro tempo: la cultura si promuove, non si dirige.

Questo non vuol dire che si deve smettere d’indurre determinati processi, di mettere le risorse necessarie nei programmi fondamentali e fomentare, come lui stesso insisteva, un’economia della cultura; ma definendo la promozione della direzione, chiamò l’attenzione sulla necessità d’allontanare le pratiche interventiste volontarie e al contrario favorire i più alti valori della creazione culturale, fossero quelli dalla tradizione o i nuovi imprescindibili dello sviluppo.

Ossia la sua implicazione nella Biennale de L’Avana e nella Festa del Fuoco.

Nel 1983, Hart tentò di riassumere alcune idee sulla permanente attualizzazione della politica culturale e della relazione tra politica e cultura nel nostro processo rivoluzionario.

Se lasciamo da parte l’aneddotico e il circostanziale, i concetti contenuti nel libro/Cambiare le regole del gioco/, frutto di un’estesa intervista con il giornalista Luis Báez, meritano d’essere rivisti.

A cinque anni dalla morte del dottor Armando Hart, in questo 26 novembre, sono molte le lezioni e le esperienze che dobbiamo approfittare per il perfezionamento del sistema istituzionale della cultura.

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