Ignacio Ramonet: intervista

Bolsonaro e Trump hanno dimostrato che oggi le piazze possono essere di destra

Natalia Aruguete, Barbara Schijman

Pagina 12 Tratto da Cubadebate

Nel suo recente libro ‘La era del conspiracionismo’ (Siglo XXI), Ignacio Ramonet si propone comprendere, in particolare, l’immaginario degli assalitori del Campidoglio, il 6 gennaio 2021, e, più strutturalmente, le ragioni che hanno portato i settori declassati – le classi medie impoverite che hanno perso una serie di diritti che avevano sino  a pochi decenni fa – a cadere in una sfiducia sistemica, in teorie cospirative e in una cultura della menzogna.

In questa intervista a Página/12, il giornalista spagnolo e direttore di Le Monde Diplomatique en Español paragona l’attacco al Campidoglio all’assalto alla Plaza de los Tres Poderes, avvenuto l’8 gennaio scorso. Bolsonaro, come Trump, avverte Ramonet, hanno dimostrato che “le masse e le piazze sono loro”.

Il libro evidenzia che gran parte degli elettori repubblicani continua a credere che ci sia stata frode nelle elezioni. Lì, un quarto della popolazione sarebbe disposta a rinunciare alla democrazia se avesse una dirigenza con la quale si sentisse identificato. Cosa prevede per le prossime elezioni negli USA?

– Abbiamo visto l’importante influenza di Trump nelle recenti elezioni di medio termine negli USA; in particolare, dei candidati/e che in lui si identificano. Molti analisti notano la piccola vittoria – o la non schiacciante vittoria – dei repubblicani e sottolineano che molti dei candidati/e che hanno prevalso per questo midterm sono stati imposti da Trump. In altre parole, il radicalismo di quei candidati/e repubblicani trumpisti ha impedito una vittoria che avrebbe potuto essere migliore. Se i Democratici sono riusciti a mantenere la vittoria al Senato, è stato in parte a causa di questa vittoria incompleta dei Repubblicani. L’influenza di Trump rimane importante, benché costi al Partito Repubblicano.

Quali costi pagherebbe il Partito Repubblicano?

-Quest’ultimo lo abbiamo visto con l’elezione del presidente della Camera dei Rappresentanti, che non è stato eletto al primo turno, come non accadeva praticamente da un secolo. I Trumpisti continuano ad essere importanti all’interno del Partito Repubblicano, lo abbiamo visto nelle elezioni di midterm, nelle elezioni per il presidente della Camera dei Rappresentanti e lo vedremo nel prossimo biennio nelle candidature alle primarie nel Partito Repubblicano. Trump ha già praticamente annunciato che si sarebbe candidato per le elezioni del 2025.

Questa maggior polarizzazione che i trumpisti incoraggiano all’interno del Partito Repubblicano allarga o no la base elettorale? La radicalizzazione è in definitiva vantaggiosa per una potenziale vittoria dei repubblicani in un’elezione presidenziale o è più un impedimento?

–Questo è il dibattito che il Partito Repubblicano ha ora al suo interno. Il fatto che si parli di un candidato alternativo a Trump, come è il caso del governatore della Florida, Ron DeSantis, è una delle prime deduzioni fatte da quanto accaduto nelle elezioni di midterm. In altre parole, questo radicalismo è lo zoccolo duro dei repubblicani, benché sia anche la loro generale debolezza elettorale. Non solo: alcuni delle misure repubblicane più radicali varate dalla Corte Suprema, dominata dai giudici nominati da Trump – in particolare, la decisione di impedire l’aborto – hanno portato molte donne storicamente repubblicane a discostarsi, perché di fatto quella misura non entra nella vita quotidiana di molta gente. Quel dibattito che solleva la domanda è un po’ la contraddizione in cui si trova oggi il Partito Repubblicano. Il complottismo è l’asse portante del nucleo più forte e dinamico con cui il Partito Repubblicano deve fare i conti in prospettiva elettorale.

Quali somiglianze trova tra l’attacco al Campidoglio e l’assalto alla Piazza dei Tre Poteri a Brasilia? Questi attacchi servono o possono essere un boomerang per la dirigenza dell’opposizione?

– La prima deduzione che possiamo fare di quanto accaduto l’8 gennaio a Brasilia è che è stata volontaria e una copia dell’assalto al Campidoglio, incluso la scelta della data: 6 gennaio a Washington, Campidoglio; 8 gennaio a Brasilia,i Tre Poteri. Non c’è dubbio che l’analisi fatta dai bolsonaristi è che l’assalto al Campidoglio sia stato positivo per Trump. L’opinione pubblica USA lo ha condannato, come in Brasile, ma una volta che i commenti sono stati vagliati, la conclusione che gli analisti bolsonaristi hanno tratto è che ciò finisce per essere redditizio. Trump, ancora oggi, vive della sua capacità di mobilitare decine di migliaia di militanti, che hanno lanciato l’assalto al Congresso USA mediante la violenza, qualcosa di inedito che, ora, loro vedono come qualcosa di epico.

Nel caso del Brasile, quanto accaduto ha forzato i militari a pronunciarsi e che sorgesse sostegno a Lula da vari settori. Come si svolge il rapporto governativi-opposizione per questo inizio di Governo Lula, che richiede molto sostegno al Congresso?

– La lettura più semplice che si può fare di quello che è successo a Brasilia è che, finalmente, i bolsonaristi hanno anticipato il fatto che molti partiti del Congresso brasiliano negozieranno con il nuovo Governo, con Lula. Ma hanno dimostrato che le masse e le piazze appartengono a loro. La stessa cosa che ha detto Trump: la piazza e l’insurrezione, che storicamente sono state di sinistra, adesso sono – o possono essere – di destra. Quel capitale era del PT (partito dei lavoratori, di Lula ndt), dai sindacati del PT. Ora Bolsonaro può dire: “La piazza è anche mia, le masse anche sono mie”, e sono disposti ad andare più lontano  di quanto possono andare le masse del PT.

Perché?

– Perché lo stesso Lula ha dichiarato di non aver mai lanciato le masse popolari della sinistra brasiliana all’assalto al potere. Bolsonaro lo ha fatto. Ciò simbolicamente, è molto forte, in particolare, perché strappa uno dei tratti d’identità della sinistra dalla presa della Bastiglia nel 1789.

Perché indichi quanto accaduto al Campidoglio come uno spartiacque?

–Finora non c’è stato un esempio come quello che ho appena descritto. I colpi di stato in America Latina, come altrove, sono essenzialmente colpi di stato delle Forze Armate o, diciamo, dei corpi armati di un paese. Persino il fascismo, nel 1922, o il nazismo, nel 1933. Anche se il nazismo giunge al potere attraverso le elezioni, il colpo di Stato ha avuto luogo dopo l’incendio del Reichstag, quando le Forze Armate hanno sostenuto questi partiti che, inoltre, erano come paramilitari, sia il fascismo mussoliniano che il nazionalsocialismo hitleriano. Non vedo esempi di colpo di Stato compiuti con masse popolari. Questo è ciò che Trump ha provato con i suoi 127 milioni di seguaci. Ovviamente l’assalto a Washington non viene fatto da 127 milioni, bastano poche decine di migliaia, di cui più o meno mille riescono ad entrare in Campidoglio. Ma simbolicamente, le masse infuriate assaltano. Il mio interesse con questo libro è capire l’immaginario degli assaltanti, quali idee hanno in testa e chi gliele ha poste in testa.

Che ruolo giocano i media tradizionali e le reti sociali nella diffusione di queste idee?

– La realtà è che i media tradizionali, la grande stampa, la radio e la televisione, giocano un ruolo praticamente inesistente. Se questo tema fosse sorto 15 o 20 anni fa, avremmo detto che la televisione era il media determinante, ma oggi non è così. La prova è che tutti i maggiori media professionali negli USA sono contro Trump e non sono riusciti a invertire il movimento. Trump non ha vinto le elezioni contro Biden e la democrazia non è stata rovesciata. Anche questo va detto. Ma non c’è dubbio che le radici del complottismo, come il caso di QAnon (una delle principali teorie complottiste dell’estrema destra USA), e il modo in cui si è diffusa, sia stato attraverso le reti. Le reti, appunto, hanno un rapporto molto diverso con il consumatore di informazioni e con il produttore di informazioni.

Fox News, un conglomerato mediatico, professionali, è stata la spina dorsale di Trump persino prima che entrasse in carica.

-Sì.

È possibile installare un discorso utilizzando solo le reti sociali, senza il supporto editoriale dei grandi media tradizionali?

–I media tradizionali sono media di contenuto. Le reti sociali non funzionano così; le reti sociali trasmettono meme, frasi, fotografie, piccoli video in cui non c’è contenuto. Non c’è un contenuto che sviluppi un’analisi di cosa sia il trumpismo. Nessuno nelle reti legge qualcosa che ha più di 15 righe; non è lo stesso universo. I media – siano essi la stampa, la radio o la televisione – hanno una portata relativamente limitata rispetto alla viralità delle reti. Voglio aggiungere in questo senso che il trumpismo non solo si sviluppa attraverso le reti, bensì ci sono tantissime piccole televisioni, piccole radio, tanti piccoli giornali o fogli stampati di volantini che incidono sul discorso. Ma, essenzialmente, le reti hanno un impatto basato su due elementi fondamentali che non sono razionali: l’emozione ed i sentimenti.

Le reti sono state anche lo scenario propizio per alcune disobbedienze civili che hanno allargato l’agenda in tema di diritti civili e riconoscimento delle minoranze: il movimento Black Lives Matter, la legalizzazione dell’aborto, la violenza di genere. Questi temi sono riusciti a disputare l’agenda nello scenario delle reti sociali.

-È lo stesso rapporto con i media. Chi ha più influenza? Zola ha pubblicato “Io accuso” su L’Aurore, che non era un giornale dominante. Da lì si è prodotto un importante movimento intellettuale e la stampa emerge come strumento capace di pesare nel dibattito, non solo come informazione. Oggi con le reti possiamo dire lo stesso. Quello che succede è che ci sono alcuni fenomeni, come le “verità alternative”, che possono essere riassunte in un meme che direbbe qualcosa del tipo: “La mia ignoranza vale quanto la tua informazione”. E quel ragionamento, di per sé assurdo, è quello che funziona sulle reti. D’altronde fino ad ora si pensava che la manipolazione funzionasse in base all’equazione di Goebbels, “una menzogna ripetuta mille volte si trasforma in una verità”. Oggi siamo in un sistema di sfiducia generalizzata, che io chiamo “sfiducia epistemica”, che fa sì che quella premessa sia ribaltata: “Una verità ripetuta mille volte diventa una menzogna”.

Durante la pandemia, vari settori in diverse parti del mondo hanno scommesso sulla paura e sulla sfiducia. In che modo alcuni gruppi di potere hanno approfittato della situazione e hanno alimentato quella che lei chiama la “cultura della menzogna”?

– È che il covid è arrivato in un momento in cui era già in atto una grande sfiducia verso i media, denunciati per l’uso della menzogna, oltre che per il loro aspetto militante e impegnato, invece di avere una capacità di analisi più serena. Ma quella sfiducia si è estesa anche alla scienza. La scienza, con l’idea della sua somiglianza con il progresso, ha causato una serie di catastrofi, da Hiroshima a Fukushima, le cui conseguenze molte persone hanno dovuto sopportare. C’è una grande sfiducia verso la scienza, verso i media e la democrazia. Si ripete che la democrazia è il miglior sistema ad eccezione di tutti gli altri e vediamo che sono società in cui la disuguaglianza cresce invece di ridursi e in cui i loro dirigenti politici sono costantemente accusati di corruzione. Di fronte a questo, il cittadino è facile preda di un discorso di tipo demagogico che mette in discussione tutti questi elementi, e il covid è giunto a concentrare tutto questo.

In che modo lo ha concentrato?

-Quando è arrivato il covid, nessuno sapeva di cosa si trattasse. I dirigenti, per quanto onesti fossero, incorrevano in contraddizioni: “Devi indossare una mascherina, non devi indossare una mascherina, devi prendere una tale misura, non devi prendere una tale misura”. A livello globale, ciò ha causato molta irritazione. Allo stesso tempo, milioni di persone hanno perso: piccoli commercianti, gente che vive dell’economia informale, gli artisti, il mondo della cultura. Tutto ciò ha creato molta irritazione. In un contesto sociale di irritazione, di sconcerto e ignoranza, questo produce complottismo.

La polarizzazione rende molto omogenei i gruppi all’interno e aumenta i livelli di intolleranza verso i membri di un gruppo esterno. Come giocano le identità in questa polarizzazione?

–È un punto molto importante per capire cosa sta accadendo, in particolare negli USA, ma non solo. L’estrema destra in Europa sta crescendo ed è al potere. In Italia i fascisti sono tornati al potere. Nel libro cerco di spiegare chi erano gli assalitori del Campidoglio e cosa avevano in mente. Ma, prima, viene fatta un’analisi di tipo sociologico tradizionale sul profilo socioeconomico dei trumpisti, per esempio. Nella crisi della democrazia a livello internazionale, al centro di quella crisi, c’è la crisi delle classi medie. Tutti continuano a parlare di ricchi o mega-ricchi, di poveri o di ultra-poveri, ma i ceti medi sono quelli che si sono logorati di più in questi 40 anni di ultraliberalismo.

Come reagiscono le classi medie a questa situazione?

– Negli USA, la classe media bianca, che sta perdendo la sua base socioeconomica, che guadagna meno e ha meno vantaggi economici di quanto non sapesse di avere una volta, avrebbe potuto ribellarsi, irritarsi o protestare come categoria sociale danneggiata da un modello economico che la emargina. Invece di fare una lettura di classe o sociale della sua situazione, ha fatto una lettura identitaria. Là la destra americana, l’estrema destra, ha suggerito a queste classi medie che ciò che accade loro non è dovuto al modello economico, bensì a ragioni di identità etnica.

In un paese profondamente razzista, inoltre.

-In effetti, negli USA il ​​razzismo è molto radicato, e l’estrema destra ha usato molto bene quel sentimento razzista. Il razzismo è in aumento ovunque, in particolare all’interno dell’Unione europea. In Europa vediamo come i temi razzisti, etnici e linguistico-nazionali siano tornate con il conflitto tra Russia e Ucraina. Lo vediamo anche in America Latina con gli afrodiscendenti, i popoli originari. Questa questione si colloca ancora una volta al centro di tutto. Insomma, quelle categorie sociali che avrebbero dovuto avvicinarsi alle organizzazioni sindacali o alle politiche che le hanno storicamente difese, hanno avuto di sé una lettura identitaria e non sociale.


Ignacio Ramonet: Bolsonaro y Trump demostraron que las calles hoy pueden ser de la derecha

 Natalia Aruguete, Bárbara Schijman

Página/12 Tomado de Cubadebate

En su reciente libro La era del conspiracionismo (Siglo XXI), Ignacio Ramonet se propone entender, en particular, el imaginario de los asaltantes al Capitolio el 6 de enero de 2021 y, más estructuralmente, las razones que han llevado a los sectores desclasados –clases medias empobrecidas que dejaron perdieron una serie de derechos con los que contaban hace unas décadas– a caer en una desconfianza sistémica, en teorías conspiracionistas y en la cultura de la mentira.

En esta entrevista con Página/12, el periodista español y director de Le Monde Diplomatique en Español compara el ataque al Capitolio con el asalto a la Plaza de los Tres Poderes, ocurrido el 8 de enero pasado. Bolsonaro, como Trump, advierte Ramonet, demostraron que “las masas y la calle son de ellos”.

En el libro destaca que gran parte de los votantes republicanos siguen pensando que hubo fraude en las elecciones. Allí, un cuarto de la población estaría dispuesta a renunciar a la democracia si cuenta con algún liderazgo con el que se sienta identificada. ¿Qué prevé para las próximas elecciones en Estados Unidos?

–Hemos visto la importante influencia de Trump en las recientes elecciones de medio término en Estados Unidos; en particular, de los candidatos y las candidatas que se identifican con él. Muchos analistas advierten la pequeña victoria –o la no victoria contundente– de los republicanos y señalan que muchos de los candidatos y candidatas que se impusieron para este medio término los impuso Trump. Es decir, que la radicalidad de esas candidatas y candidatos republicanos trumpistas impidió una victoria que podría haber sido mejor. Si los demócratas consiguieron conservar la victoria en el Senado, en parte fue por esta victoria incompleta de los republicanos. La influencia de Trump sigue siendo importante, aunque le cueste al Partido Republicano.

¿Qué costos pagaría el Partido Republicano?

–Esto último lo hemos visto con la elección del presidente de la Cámara de Representantes, que no ha sido elegido en la primera vuelta, como no ocurría prácticamente desde hace un siglo. Los trumpistas siguen siendo importantes en el seno del Partido Republicano, lo hemos visto en las elecciones de medio término, en las elecciones para presidente de la Cámara de Representantes y lo vamos a ver en estos dos próximos años en las candidaturas para las primarias en el Partido Republicano. Trump ya prácticamente ha anunciado que él sería candidato para las elecciones del 2025.

Esta mayor polarización que alientan los trumpistas dentro del Partido Republicano, ¿amplía la base electoral o no? ¿La radicalización es, finalmente, provechosa para un potencial triunfo de los republicanos en una elección presidencial o es más bien un impedimento?

–Ese es el debate que tiene ahora el Partido Republicano en su seno. El hecho de que se hable de un candidato alternativo a Trump, como es el caso del gobernador de Florida, Ron DeSantis, es una de las primeras deducciones que se hacen de lo que ocurrió en las elecciones de medio término. Es decir, ese radicalismo es el núcleo duro de los republicanos, aunque también su debilidad electoral general. No solo eso: algunas de las medidas republicanas más radicales pronunciadas por el Tribunal Supremo, dominado por jueces nombrados por Trump –en particular, la decisión de impedir el aborto–, ha conducido a muchas mujeres históricamente republicanas a desviarse, porque efectivamente esa medida no entra en la vida cotidiana de mucha gente. Ese debate que plantea la pregunta es un poco la contradicción en la que se encuentra el Partido Republicano hoy. El conspiracionismo es el alimento principal del núcleo más dinámico y fuerte con el que tiene que lidiar el Partido Republicano en una perspectiva electoral.

¿Qué semejanzas encuentra entre el ataque al Capitolio y el asalto a la Plaza de los Tres Poderes en Brasilia? ¿Estos ataques les sirven o pueden ser búmeran para los liderazgos opositores?

–La primera deducción que podemos hacer de lo que pasó el 8 de enero en Brasilia es que fue voluntaria y una copia del asalto al Capitolio, incluso por la elección de la fecha: 6 de enero en Washington, Capitolio; 8 de enero en Brasilia, los Tres Poderes. No cabe duda de que el análisis que han hecho los bolsonaristas es que el asalto al Capitolio ha sido positivo para Trump. La opinión pública general en Estados Unidos lo condenó, igual que en Brasil, pero una vez tamizados los comentarios, la conclusión que han sacado los analistas bolsonaristas es que eso acaba por ser rentable. Trump, aún hoy, vive de su capacidad de movilizar a decenas de miles de militantes, que se han lanzado al asalto del Congreso de los Estados Unidos mediante la violencia, algo inédito que, ahora, ellos ven como algo épico.

En el caso de Brasil, lo sucedido forzó a que los militares se pronunciaran y que surja respaldo a Lula desde varios sectores. ¿Cómo se performa la relación oficialismo-oposición para este inicio del Gobierno de Lula, que requiere de muchos apoyos en el Congreso?

–La lectura más sencilla que puede hacerse de lo que pasó en Brasilia es que, finalmente, los bolsonaristas anticiparon el hecho de que muchos partidos en el Congreso brasileño van a negociar con el nuevo Gobierno, con Lula. Pero han demostrado que las masas y la calle son de ellos. Lo mismo que dijo Trump: la calle y la insurrección, que históricamente fueron de izquierda, ahora son –o pueden ser– de derecha. Ese capital era del PT, de los sindicatos petistas. Ahora, Bolsonaro puede decir: “La calle también es mía, las masas también son mías”, y están dispuestos a ir más lejos de lo que pueden ir las masas petistas.

¿Por qué?

–Porque el propio Lula declaró que nunca lanzó a las masas populares de izquierda brasileñas al asalto del poder. Bolsonaro lo hizo. Eso simbólicamente es muy fuerte, en particular, porque le arranca una de las señas de identidad de la izquierda desde la toma de la Bastilla en 1789.

¿Por qué señala lo sucedido en el Capitolio como un parteaguas?

–Hasta ahora, no se ha producido un ejemplo como el que describí recién. Los golpes de Estado en América Latina, como en todas partes, esencialmente son golpes de Estado de las Fuerzas Armadas o, digamos, de los cuerpos armados de un país. Incluso, el fascismo en 1922 o el nazismo en 1933. Aunque el nazismo llega al poder mediante elecciones, el golpe de Estado se produce después del incendio del Reichstag, cuando las Fuerzas Armadas apoyan a estos partidos que, además, eran como paramilitares, tanto el fascismo mussoliniano como el nacionalsocialismo hitleriano. No veo ejemplos de un golpe de Estado hecho con masas populares. Eso es lo que intentó Trump con sus 127 millones de seguidores. Evidentemente, el asalto a Washington no lo hacen los 127 millones, basta con algunas decenas de miles de los cuales más o menos un millar consigue entrar al Capitolio. Pero, simbólicamente, las masas irritadas asaltan. Mi interés con este libro es entender el imaginario de los asaltantes, qué ideas tienen en la cabeza y quién les ha puesto esas ideas en su cabeza.

¿Qué rol juegan los medios tradicionales y las redes sociales en la propagación de estas ideas?

–La realidad es que los medios tradicionales, los grandes medios de prensa escrita, radio y televisión, juegan un rol prácticamente inexistente. Si este tema hubiera surgido hace 15 o 20 años, hubiéramos dicho que la televisión era el medio determinante, pero no es el caso hoy. La prueba es que todos los grandes medios profesionales en Estados Unidos están contra Trump y no han conseguido invertir el movimiento. Trump no ganó la elección contra Biden, y la democracia no fue derrocada. Eso también hay que decirlo. Pero no cabe duda de que el arraigo del conspiracionismo, como el caso de QAnon (una de las principales teorías de conspiración de la extrema derecha estadounidense), y el modo en que se ha diseminado, ha sido por las redes. Las redes, precisamente, tienen una relación muy diferente con el consumidor de información y con el productor de información.

Fox News, un conglomerado mediático, profesional, ha sido la columna vertebral de Trump, incluso antes de asumir su mandato.

–Sí.

¿Es posible instalar un discurso utilizando solo redes sociales, sin el respaldo editorial de los grandes medios tradicionales?

–Los medios tradicionales son medios de contenido. Las redes sociales no funcionan así; las redes sociales transmiten memes, frases, fotografías, pequeños videos en los que no hay contenido. No hay un contenido que desarrolle un análisis de lo que es el trumpismo. Nadie en las redes lee algo que tenga más de 15 líneas; no es el mismo universo. Los medios –sea prensa, radio o televisión–, tienen un alcance relativamente limitado frente a la viralidad de las redes. Quiero añadir en ese sentido que el trumpismo no solo se desarrolla por las redes, sino que hay muchísimas pequeñas televisiones, pequeñas radios, muchísimos pequeños periódicos u hojas impresas de octavillas que repercuten el discurso. Pero, esencialmente, las redes repercuten con base en dos elementos fundamentales que no son de tipo racional: la emoción y los sentimientos.

También las redes han sido escenario propicio para ciertas desobediencias civiles que ampliaron la agenda en materia de derechos civiles y de reconocimiento de minorías: el movimiento Black Lives Matter, la legalización del aborto, la violencia de género. Estos temas lograron disputar agenda en el escenario de las redes sociales.

–Es la misma relación con los medios. ¿Quién tiene más influencia? Zola publicó “Yo acuso” en L’Aurore (La Aurora), que no era un periódico dominante. A partir de ahí, se produce un movimiento intelectual importante y surge la prensa como herramienta capaz de pesar en el debate, no solo como información. Hoy con las redes podemos decir lo mismo. Lo que ocurre es que hay algunos fenómenos, como las “verdades alternativas”, que se pueden resumir en un meme que diría algo así: “Mi ignorancia vale tanto como tu información”. Y ese razonamiento, que es en sí absurdo, es el que funciona en las redes. Por otra parte, hasta ahora se pensaba que la manipulación funcionaba con base en la ecuación de Goebbels, “una mentira repetida mil veces se transforma en una verdad”. Hoy estamos en un sistema de desconfianza generalizada, que yo llamo “desconfianza epistémica”, que hace que aquella premisa se haya invertido: “Una verdad repetida mil veces se transforma en una mentira”.

Durante la pandemia, diversos sectores en distintas partes del mundo apostaron al miedo y a la desconfianza. ¿De qué manera ciertos grupos de poder se aprovecharon de la coyuntura y alimentaron lo que usted llama la “cultura de la mentira”?

–Es que la covid llegó en un momento en que ya se había instalado una gran desconfianza hacia los medios, que fueron denunciados por el uso de la mentira, así como de su aspecto militante y comprometido, en lugar de tener una capacidad de analizar más serenamente. Pero esa desconfianza se extendió también a la ciencia. La ciencia, bajo la idea de su semejanza con el progreso, ha provocado desde Hiroshima hasta Fukushima una serie de catástrofes cuyas consecuencias han tenido que soportar muchas personas. Hay una gran desconfianza hacia la ciencia, hacia los medios y hacia la democracia. Se repite que la democracia es el mejor sistema con excepción de todos los demás y vemos que son sociedades en las que crece la desigualdad en lugar de reducirse y en las que sus dirigentes políticos constantemente son acusados de corrupción. Frente a esto, el ciudadano es presa fácil para un discurso de tipo demagógico que pone en cuestión todos esos elementos, y la covid vino a concentrar todo eso.

¿De qué modo lo concentró?

-Cuando llegó la covid, nadie sabía de qué se trataba. Los dirigentes, por muy honestos que fueren, incurrieron en contradicciones: “Hay que poner mascarilla, no hay que poner mascarilla, hay que tomar tal medida, no hay que tomar tal medida”. A nivel global, eso provocó una gran irritación. Al mismo tiempo, millones de personas perdieron: pequeños comerciantes, gente que vive de la economía informal, artistas, el mundo de la cultura. Todo esto creó mucha irritación. En un contexto social de irritación, de desconcierto y de desconocimiento, eso produce conspiracionismo.

La polarización vuelve muy homogéneos a los grupos hacia adentro y aumenta los niveles de intolerancia hacia los miembros de un grupo externo. ¿Cómo juegan las identidades en esta polarización?

–Es un punto muy importante para entender lo que está pasando, en particular en Estados Unidos, aunque no solamente. La extrema derecha en Europa está subiendo y está en el poder. En Italia, los fascistas han regresado al poder. En el libro, trato de explicar quiénes eran los asaltantes al Capitolio y qué tenían en la cabeza. Pero, primero, se hace un análisis de tipo sociológico tradicional acerca del perfil socioeconómico de los trumpistas, por ejemplo. En la crisis de la democracia a nivel internacional, en el corazón de esa crisis, está la crisis de las clases medias. Todo el mundo sigue hablando de los ricos o los megarricos, de los pobres o los ultrapobres, pero las clases medias son las que más se desgastaron en estos 40 años de ultraliberalismo.

¿Cómo responden las clases medias a esta situación?

–En Estados Unidos, la clase media blanca, que está perdiendo su base socioeconómica, que gana menos dinero y tiene menos ventajas económicas de las que supo tener en algún momento, podía haberse sublevado, irritado o protestado como categoría social afectada por un modelo económico que la margina. En lugar de hacer una lectura de clase o social de su situación, hizo una lectura identitaria. Ahí la derecha americana, la ultraderecha, le ha sugerido a esas clases medias que lo que les ocurre no se debe al modelo económico, sino a motivos de identidad étnica.

En un país profundamente racista, además.

-Efectivamente, en Estados Unidos el racismo está muy arraigado, y la extrema derecha ha utilizado muy bien ese sentimiento racista. El racismo está subiendo en todas partes, en particular en el seno de la Unión Europea. En Europa vemos cómo los temas racistas, étnicos y lingüístico-nacionales han regresado con el conflicto entre Rusia y Ucrania. Lo vemos también en América Latina con los afrodescendientes, los pueblos originarios. Esta cuestión se coloca de nuevo en el corazón de todo. En definitiva, esas categorías sociales que deberían haberse acercado a las organizaciones sindicales o a las políticas que históricamente las han defendido, han tenido sobre ellas mismas una lectura identitaria y no social.

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