Perché gli USA non sbloccano i fondi del Venezuela? 

misionverdad.com

Il secondo accordo parziale siglato tra il Governo Bolivariano e la Piattaforma Unitaria, nel novembre 2022, in Messico, Paese dove si tiene il Tavolo di Dialogo Nazionale (MDN), aveva tra i suoi pilastri la restituzione di parte dei beni patrimoniali della repubblica illegalmente confiscati dall’operazione golpista del 2019 che ha presentato Juan Guaidó alla testa.

Washington, usando il suo potere di arbitraggio globale sul sistema finanziario e impiegando una strategia di sequestro di beni attraverso “sanzioni” secondarie, ha effettuato l’appropriazione illegale di fondi e società dello Stato venezuelano all’estero.

Nonostante Citgo, Monomeros e le 31 tonnellate d’oro depositate presso la Banca d’Inghilterra – pari a più di 1 miliardo di dollari – siano i simboli più cospicui di questa offensiva di saccheggio organizzata contro il Paese, si devono anche considerare altri beni come fondi di riserva, garanzie su titoli e crediti per fatture petrolifere in banche e istituzioni europee che sono stati confiscati.

Si stima che la cifra globale dei beni trattenuti superi i 20 miliardi di dollari, secondo quanto espresso dal presidente dell’Assemblea Nazionale e rappresentante della delegazione del Governo Bolivariano all’MDN, Jorge Rodríguez, in occasione della firma del secondo accordo parziale.

In tal senso, la restituzione al Paese di oltre 3 miliardi di dollari di quella cifra globale non solo rappresentava una parziale rivendicazione del danno economico e patrimoniale causato dalla campagna di “massima pressione” di Donald Trump, bensì era la condizione basilare affinché il processo negoziale avanzasse e potesse continuare a produrre risultati nel breve e medio termine.

Per il Paese i fondi implicano un orizzonte di possibilità nel tentativo di riattivare, recuperare e rafforzare l’economia in aree cruciali per il benessere sociale colpite dal prolungato blocco, come l’istruzione e le infrastrutture sanitarie e i servizi di base – assi del malessere sociale – e, recentemente, nel caso della corporazione degli insegnanti cooptato dall’opposizione mediante una campagna promossa per configurare un’agenda di conflittualità e pressioni dal basso e all’interno dello stesso Stato.

In sintesi, il mancato rispetto del rimpatrio di una parte dei fondi congelati, come si era concordato, si traduce in una stagnazione delle dinamiche di dialogo e nella rottura della zona di fiducia nel processo costruita dall’agosto 2021. Col passare del tempo, diventa chiaro che l’opposizione rappresentata nella Piattaforma Unitaria non ha alcuna volontà di rispettare gli accordi, il che l’ha portata a perdere credibilità di fronte ai suoi seguaci e con i sostenitori internazionali della MDN.

La Piattaforma Unitaria ha cercato di sottrarsi alle proprie responsabilità al riguardo. Stalin González, dirigente dell’opposizione del partito Un Nuevo Tiempo (UNT) e membro della delegazione corrispondente nell’MDN, ha affermato che i beni del Venezuela “non si trovano in un conto bancario di facile accesso”. Inoltre, González ha affermato che entrambe le frazioni “sono responsabili dell’identificazione dei beni e del loro investimento”.

La premessa del dirigente del partito azzurro parte da una base sbagliata. Primo, perché Washington, nello specifico il Dipartimento di Stato, ente esecutore delle “sanzioni” contro il Paese, ha tutta la mappatura degli asset venezuelani perché è stata l’istituzione che ha guidato la caccia e ha prodotto il quadro pseudo-legale per renderla realtà.

La presunta impossibilità di accedere facilmente ai fondi della repubblica, a cui si riferisce González, è chiaramente una manovra di controllo dei danni basata su una pianificata imprecisione tecnica.

In secondo luogo, lo Stato e la popolazione venezuelana sono le parti colpite, quindi chiedere loro di collaborare al tracciamento dei beni e fornire informazioni —che non sono necessarie— in vista del completamento del rimpatrio è un nuovo segnale di affronto che contribuisce all’evasione delle responsabilità contratte, nel novembre dello scorso anno, verso il paese.

Ma quanto detto da González implica anche la conferma che il dialogo con l’opposizione è fortemente carico di finzione politica. Sebbene si proiettano come soggetti con proprio potere contrattuale, l’influenza di Washington risulta sempre decisiva su di loro e vengono resi inutili come entità delegata che, in ultima analisi, si muove secondo gli interessi tattici e strategici di altri. Non è la prima volta che succede. Il modello di tutela messo in atto dagli USA è già stato evidenziato in precedenti processi, ed è stato il motivo principale del fallimento in cui questi tentativi sono finiti.

Il ritardo nel rimpatrio di tali beni venezuelani conferma la tesi ampiamente diffusa che, in realtà, il processo di dialogo sia un modo indiretto e burocratico, esposto allo stallo, di portare avanti le trattative. con gli USA.

In questo senso, l’unico motivo che spiega perché gli oltre 3 miliardi di dollari di proprietà del Venezuela continuino ad essere trattenuti è che gli USA sono restii a rilasciarli effettivamente, benché abbia tutte le informazioni e le leve di potere in mano per effettuare la remunerazione in un periodo di tempo ristretto.

Come rivelato dal quotidiano spagnolo El País, nel gennaio di quest’anno, gli USA stanno direttamente boicottando la consegna di questi fondi. L'”ambasciatore” USA non riconosciuto dal Venezuela, James Story, ha inviato una lettera non pubblica alle Nazioni Unite per spaventarla e avvertirla che la gestione della ricezione del denaro, come si era inizialmente concepito nel secondo accordo parziale, potrebbe trarre come conseguenza che appaiano creditori del debito estero per richiedere pagamenti.

In altre parole, in due piatti: attraverso Story Washington confermava di non essere disposta a concedere condizioni di sicurezza alla restituzione dei fondi bensì, al contrario, ne avrebbe facilitato l’espropriazione da parte di creditori, che sono, per lo più USA.

È lecito pensare che gli USA abbiano continuato su questa linea di pressioni e condizionamenti anche nel primo trimestre del 2023, e cerchino di inabilitare l’ente mediatore e facilitatore: le Nazioni Unite, senza il quali l’accordo di rimpatrio non può essere possibile poiché l’intricato architettura delle “sanzioni” unilaterali, ancora in vigore, impedisce che il denaro sia erogato attraverso canali regolari.

Di fatto, puntando direttamente sull’ONU, cercando di inabilitare la sua funzione che era stata stabilita, gli USA hanno mutilato la più importante garanzia di continuità dell’MDN, e quindi hanno fratturato il quadro operativo e istituzionale entro il quale si sarebbe realizzata la restituzione dei fondi al paese.

Le considerazioni del perché Washington assuma questo impegno sono molteplici e si esprimono a vari livelli della situazione politica, economica e sociale che la nazione venezuelana sta attualmente vivendo. Da un lato, mantenere trattenuti i fondi è un modo per boicottare la ripresa economica intrapresa dal presidente Nicolás Maduro, base materiale del suo consolidamento politico negli ultimi anni e, di conseguenza, della stabilità del Paese.

Il calcolo sembra essere orientato a limitare l’orizzonte di crescita e di riattivazione economica e, con ciò, promuovere un aumento del malcontento e dell’incertezza nella popolazione con l’obiettivo di puntellare un clima di malcontento che possa essere strumentalizzato in una nuova agenda di conflitto e pressioni, già tratteggiate nei suoi aspetti generali dall’influente think-tank Wilson Center, in tempi recenti.

Il destino della Piattaforma Unitaria non sembra essere una priorità a questo punto, nonostante sia finita come l’entità più colpita dallo stallo dell’MDN. Insomma, l’urgenza di ampliare l’offerta di idrocarburi è, in questo momento, la spina dorsale della sua politica estera, e la continuità dell’attività petrolifera della Chevron può essere negoziata direttamente, a prescindere dalla Piattaforma Unitaria.

Ma anche una nuova escalation di sfiducia e scetticismo nei confronti dell’opposizione sembra essere il prodotto della progettualità. Di fronte all’agitazione fabbricata da figure estremiste di destra come María Corina Machado nel contesto delle primarie, affondare la piattaforma dell’opposizione significherebbe consolidare tale boom e mobilitare un sostegno sensibile verso figure rappresentative del cambio di regime e del golpismo creolo.

Mentre la Piattaforma Unitaria rimane incatenata a dare risposte sull’interruzione del dialogo mentre vede deteriorarsi, ancora più, il suo scarso capitale politico, figure come María Corina Machado approfitterebbero di questo scenario per ampliare la loro narrazione volta a sfruttare i fallimenti del G3, il che la farà mostrare come un’opzione outsider, presumibilmente al di fuori della mappa politica tradizionale di cui lei e altri non hanno mai smesso di essere parte costitutiva fin dall’inizio. Un meccanismo per alimentare il cambio di regime ogni volta che si contribuisce ad intensificare la pressione economica e il disagio sociale.

Fermo restando che buona parte di questi fondi erano destinati alle infrastrutture educative, Washington cerca estendere il conflitto rivendicativo per l’aumento degli stipendi prospettato da alcune corporazioni di insegnanti: sono stati, in una certa misura, cooptati o spinti sotto l’ombrello di influenza dei partiti di opposizione. Così, nella misura in cui Washington trattiene gli oltre 3 miliardi di dollari, promuove le condizioni materiali per il mantenimento di questa agenda di pressione allo scopo di diminuire l’accettazione sociale e il consenso narrativo attorno al piano di ripresa economica del presidente Maduro.

È molto probabile che la prospettiva USA non sia posta sulle elezioni presidenziali del 2024 ma, piuttosto, sull’acutizzare i fianchi deboli della ripresa economica in vista del rilancio, quest’anno, del conflitto attraverso tecnologie già ampiamente collaudate, come la rivoluzione colorata.


¿POR QUÉ EE.UU. NO LIBERA LOS FONDOS DE VENEZUELA?

El segundo acuerdo parcial firmado entre el Gobierno Bolivariano y la Plataforma Unitaria en noviembre de 2022 en México, país donde se celebra la Mesa de Diálogo Nacional (MDN), tuvo entre sus pilares la devolución de parte de los activos patrimoniales de la república confiscados ilegalmente desde la operación golpista de 2019 que presentó a Juan Guaidó a la cabeza.

Washington, usando su poder de arbitraje global sobre el sistema financiero y empleando una estrategia de captura de activos mediante “sanciones” secundarias, ejecutó la apropiación ilegal de fondos y empresas del Estado venezolano en el extranjero.

Pese a que Citgo, Monómeros y las 31 toneladas de oro depositadas en el Banco de Inglaterra —equivalentes a más de 1 mil millones de dólares— son los símbolos más conspicuos de esta ofensiva de saqueo organizada contra el país, también deben considerarse otros activos como fondos de reserva, garantías de títulos de valor y cuentas por cobrar de facturas petroleras en bancos e instituciones europeas que fueron confiscadas.

Se estima que la cifra global de activos retenidos supera los 20 mil millones de dólares, según lo expresado por el presidente de la Asamblea Nacional y representante de la delegación del Gobierno Bolivariano ante la MDN, Jorge Rodríguez, cuando se firmó el segundo acuerdo parcial.

En tal sentido, devolver al país más de 3 mil millones de dólares de ese monto global no sólo representaba una reinvindicación parcial ante el daño económico y patrimonial ocasionado por la campaña de “máxima presión” de Donald Trump, sino que era la condición básica para que el proceso de negociación avanzara y pudiera seguir dando resultados en el corto y mediano plazo.

Para el país, los fondos implican un horizonte de posibilidad en el intento de reactivar, recuperar y robustecer la economía en ámbitos cruciales para el bienestar social afectados por el bloqueo prolongado, como la educación y la infraestructura de salud y de servicios básicos —ejes del malestar social— y, recientemente, en el caso del gremio magisterial cooptado por la oposición mediante una campaña promovida para configurar una agenda de conflictividad y presión desde abajo y dentro del propio Estado.

En resumen, no cumplir con la repatriación de una parte de los fondos congelados, tal como se había concertado, se traduce en un estancamiento de la dinámica de diálogo y en el quiebre de la zona de confianza en el proceso construida desde agosto de 2021. A medida en que el tiempo avanza queda claro que la oposición representada en la Plataforma Unitaria no tiene voluntad para cumplir los acuerdos, lo que la ha llevado a perder credibilidad ante sus seguidores y frente a los acompañantes internacionales de la MDN.

La Plataforma Unitaria ha intentado esquivar su responsabilidad al respecto. Stalin González, dirigente opositor del partido Un Nuevo Tiempo (UNT) y miembro de la delegación correspondiente en la MDN, aseveró que los activos de Venezuela “no se encuentran en una cuenta de banco al que se pueda acceder de manera sencilla”. Además, González afirmó que ambas fracciones “son responsables de identificar los activos e invertirlos”.

La premisa del dirigente de la tolda azul parte de una base errada. Primero porque Washington, en concreto el Departamento del Estado, ente ejecutor de las “sanciones” contra el país, tiene todo el mapeo de las activos venezolanos debido a que fue la institución que encabezó la cacería y produjo el marco pseudo-legal para hacerla realidad.

La supuesta imposibilidad de acceder de manera sencilla a los fondos de la república, a la que hace referencia González, es claramente una maniobra de control de daños sustentada en una planificada imprecisión técnica.

En segundo lugar, el Estado y la población venezolanas son las partes afectadas, por lo que pedirles que colaboren a rastrear activos y proveer información —que no hace falta— con vistas a concretar la repatriación es un nueva muestra de agravio que contribuye con la evasión de las responsabilidades contraídas en noviembre del año pasado frente al país.

Pero lo manifestado por González también implica la confirmación de que el diálogo con la oposición tiene una carga de ficción política importante. Si bien se proyectan como sujetos con poder de negociación propio, la influencia de Washington siempre resulta determinante sobre ellos y quedan inutilizados como un ente delegado que, en definitiva, se mueve en función de intereses tácticos y estratégicos ajenos. No es la primera vez que ocurre. El patrón de tutelaje que desempeña Estados Unidos ya se ha evidenciado en procesos anteriores, y ha sido la razón principal del fracaso en el que han terminado esos intentos.

El retraso en la repatriación de tales activos venezolanos confirma la tesis ampliamente extendida de que, en realidad, el proceso de diálogo es una forma indirecta y burocrática, expuesta al estancamiento, de llevar adelante las negociaciones con Estados Unidos.

En tal sentido, la única razón que explica que los más de 3 mil millones de dólares propiedad de Venezuela sigan retenidos es que Estados Unidos se resiste a liberarlos efectivamente, aunque tiene toda la información y las palancas de poder a la mano para hacer efectiva la retribución en un estrecho margen de tiempo.

Como reveló el diario El País de España en enero de este año, Estados Unidos está boicoteando directamente la entrega de dichos fondos. El “embajador” estadounidense no reconocido por Venezuela, James Story, envió una carta no pública a Naciones Unidas para atemorizarla y advertirle que gestionar la recepción del dinero, como se había concebido inicialmente en el segundo acuerdo parcial, podría traer como consecuencia que acreedores de la deuda externa aparecieran para reclamar pagos.

Es decir, en dos platos: A través de Story Washington confirmaba que no estaba dispuesto a otorgarle condiciones de seguridad a la devolución de los fondos sino que, por el contrario, facilitaría que pudieran ser objeto de captura por acreedores, vale decir, mayoritariamente estadounidenses.

Es factible pensar que Estados Unidos ha continuado en esta línea de presión y condicionamiento en el primer trimestre de 2023, y busca inhabilitar al ente mediador y facilitador: Naciones Unidas, sin el cual el acuerdo de repatriación no puede ser posible ya que la intrincada arquitectura de “sanciones” unilaterales aún vigente impide que el dinero sea liberado por canales regulares.

De facto, apuntando directamente hacia la ONU, buscando inhabilitar la función que tenía establecida, Estados Unidos ha mutilado la garantía de continuidad más importante de la MDN, y así ha fracturado el marco operativo e institucional dentro del cual se realizaría la devolución de los fondos al país.

Las consideraciones de por qué Washington realiza esta apuesta son múltiples y se expresan en diversos planos de la coyuntura política, económica y social que experimenta la nación venezolana en la actualidad. Por un lado, mantener retenidos los fondos es una forma de boicotear la recuperación económica emprendida por el presidente Nicolás Maduro, base material de su afianzamiento político en los últimos años y, en consecuencia, de la estabilidad del país.

El cálculo pareciera estar orientado a limitar el horizonte de crecimiento y reactivación económica y, con ello, promover un aumento del malestar e incertidumbre en la población con el objetivo de apuntalar un clima de descontento que pudiera instrumentalizarse en una nueva agenda de conflicto y presión, ya dibujada en sus aspectos generales por el influyente think-tank Wilson Center en tiempo reciente.

El destino de la Plataforma Unitaria no pareciera ser una prioridad en este punto, a pesar de que ha terminado como la entidad más afectada por el estancamiento de la MDN. En definitiva, la urgencia por ampliar el suministro de hidrocarburos es el factor que vertebra ahora mismo su política exterior, y la continuidad de la actividad petrolera de Chevron puede negociarse por vías directas, prescindiendo de la Plataforma Unitaria.

Pero una nueva escalada de desconfianza y escepticismo hacia la oposición también pareciera ser producto de una planificación. Ante el revuelvo fabricado por figuras extremistas de derecha como María Corina Machado en el contexto de primarias, hundir la plataforma opositora se traduciría en afianzar dicho auge y movilización de apoyo perceptivo hacia figuras representativas del cambio de régimen y el golpismo criollo.

Mientras la Plataforma Unitaria queda encadenada a dar respuestas sobre la interrupción del diálogo al tiempo que observa su escaso capital político deteriorarse aún más, figuras como María Corina Machado aprovecharían dicho escenario para ampliar su narrativa dirigida a explotar los fracasos del G3, lo que la hará mostrarse como una opción outsider, al margen, supuestamente, del mapa político tradicional del que ella y otros nunca han dejado de ser parte constitutiva desde el principio. Un mecanismo para alimentar el cambio de régimen toda vez que se contribuye a intensificar la presión económica y el malestar social.

También en el entendido de que buena parte de esos fondos iban dirigidos a la infraestructura educativa, Washington busca extender el conflicto reinvindicativo por el incremeno de los salarios planteado desde algunos gremios del magisterio: Han sido en cierta medida cooptados o empujados bajo el paraguas de influencia de los partidos opositores. Así, en la medida en que Washington retiene los más de 3 mil millones de dólares promueve las condiciones materiales para que esa agenda de presión se mantenga con el propósito de disminuir la aceptación social y el consenso narrativo en torno al plan de recuperación económica del presidente Maduro.

Es muy probable que la perspectiva estadounidense no esté puesta en las presidenciales del año 2024 sino, más bien, en agudizar los flancos débiles de la recuperación económica de cara al relanzamiento este mismo año del conflicto mediante tecnologías ya ampliamente probadas, como la revolución de colores.

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