Lo scorso 22 ottobre 2023, nella città di Palenque, Chiapas, nel sud del Messico, alte autorità di 10 paesi membri della cosiddetta Rotta Nord del Flusso Migratorio in America Latina e nei Caraibi si sono incontrate con l’obiettivo di costruire soluzioni globali di fronte all’aumento del traffico migratorio irregolare osservato negli ultimi anni.
Tra i partecipanti, oltre all’anfitrione, si è distinta la presenza di cinque Capi di Stato e di Governo (Colombia, Cuba, Haiti, Honduras, Venezuela) e altre delegazioni provenienti da Belize, Costa Rica, El Salvador e Panama. L’incontro ha riunito un totale di 11 paesi impegnati in un approccio che assuma le profonde conseguenze dei processi migratori.
L’accordo evidenzia una tabella di marcia assunta dagli Stati per un approccio globale del fenomeno migratorio e l’incorporazione di un linguaggio, reso invisibile nei forum regionali che si sono andati realizzando nell’ultimo lustro, ma che in questa occasione è stato presente in forma esplicita. Ci riferiamo alla menzione delle misure coercitive unilaterali come generatrici della mobilità umana.
L’Incontro di Palenque, intitolato “Per un vicinato Fraterno e con Benessere”, rompe con una logica osservata in alcuni forum sulla migrazione, come il cosiddetto Processo di Quito o quello della Piattaforma RV4, la cui ragion d’essere risiedeva nella strumentalizzazione della migrazione – in particolare quella venezuelana – per destabilizzare alcuni governi e per commercializzare i processi migratori che hanno favorito l’accesso ai finanziamenti internazionali esistenti – e per esistere -.
Analizzare l’Accordo di Palenque alla luce di quanto si andava contemplando in altri meccanismi e dichiarazioni sulla migrazione permette evidenziare un punto di svolta che potrebbe significare un cambio sostanziale nel modo in cui la regione accoglie i flussi migratori osservati nella cosiddetta Rotta del Nord, in particolare quella dei cittadini venezuelani.
UN BREVE MA NECESSARIO CONTESTO
I flussi migratori non sono una novità e sono stati legati al bisogno dell’essere umano di cercare spazi che facilitino la sua esistenza. Se millenni fa si cercavano luoghi che garantissero cibo e buon clima, oggi i migranti puntano su mercati lavorativi che offrano posti di lavoro, buoni salari, garantiscano la loro sicurezza e integrità personale e, in ultima analisi, condizioni minime di esistenza.
In questo senso, la migrazione internazionale non risponde alle stesse cause in tutto il mondo bensì, a seconda del contesto, risponde a fattori economici, geografici, demografici e di altro tipo che costituiscono chiari modelli migratori; persino oggi, la guerra e il cambio climatico, che rendono insostenibile la vita in luoghi specifici del pianeta, verrebbero incorporati come fattori che incoraggiano la migrazione.
In America Latina e nei Caraibi, in un momento di elevata disuguaglianza e povertà derivante da una diseguale divisione internazionale del lavoro, i migranti cercano di accedere al mercato del lavoro statunitense che offre salari comparativamente migliori – anche se è rimasto stagnante dagli anni ’80 – rispetto quelli che hanno nel loro luogo di origine, per contribuire da lì con valuta estera (rimesse) al sostentamento della casa e dei parenti rimasti nei loro luoghi di origine.
Il problema assume nuove dimensioni quando assumiamo che l’America Latina e i Caraibi continuano ad essere la regione più disuguale del pianeta e si trova proprio accanto al paese che è il maggior destinatario di migranti: gli USA, che secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per il 2020 avrebbe una popolazione nata all’estero di 51 milioni di persone.
La migrazione, vista integralmente, offre benefici sia alle persone che decidono di spostarsi, sia alle comunità che le accolgono, nonché a quelle da dove sono partite. Crea però enormi problemi quando si realizza in modo irregolare e avviene mettendo a rischio l’integrità e la garanzia dei diritti umani delle popolazioni che decidano migrare.
LA STRUMENTALIZZAZIONE E LA COMMERCIALIZZAZIONE DELLA MIGRAZIONE
Storicamente, i flussi migratori in America Latina e nei Caraibi sono stati associati alla necessità di garantire mezzi di sussistenza. Le diverse crisi economiche generate dall’attuazione delle politiche neoliberali degli anni ’90 e dei primi anni 2000, come l’entrata in vigore dell’Accordo Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA) in Messico e la dollarizzazione in Ecuador, sono esempi di come le politiche economiche regressive hanno promosso elevati movimenti demografici da quei paesi – e altri in America Latina e nei Caraibi – verso USA ed Europa – in particolare Spagna -.
Dalla firma del Decreto Obama, nel 2015, la regione è stata testimone di un flusso migratorio senza precedenti di uomini e donne venezuelani che, vista la precarietà derivante dalle misure USA che danneggiavano la normalità economica del Paese, hanno deciso di cercare ad altre latitudini i mezzi di sussistenza negati dalle sanzioni e dal blocco in Venezuela; e sebbene le prime opzioni siano state i paesi limitrofi e vicini del Sud America, dopo aver verificato le complessità economiche esistenti in quei luoghi, si è notato un aumento del movimento verso gli USA come paese di destinazione.
Il dettaglio, senza addentrarci nelle descrizioni del flusso migratorio venezuelano e delle complesse realtà che ha dovuto superare nel suo viaggio, è che durante gli anni 2018-2021 la regione e importanti settori oppositori al governo del presidente Nicolás Maduro, hanno strumentalizzato la migrazione dal Venezuela – nel quadro della politica di “massima pressione” durante l’era Trump – come carta di discredito poiché “la gente fugge dal Venezuela” a causa della “dittatura”.
In questo scenario, con una situazione economica destrutturata a causa delle misure coercitive unilaterali contro il paese, sommato alla promozione e agli incentivi istituzionalizzati nella regione -si è giunti a permettere il trasferimento di cittadini venezuelani in tutto il Sud America senza la documentazione minima, in violazione dei principi di migrazione sicura, ordinata e regolare contemplati dal Patto Mondiale per la Migrazione – che puntava ad una massiccia partenza dei venezuelani dai loro luoghi di origine, le complicazioni che ciò ha cominciato a generare nei paesi riceventi ha inaugurato una campagna che cercava di monetizzare una situazione creata da loro stessi.
Dal defunto Gruppo di Lima, e soprattutto dagli USA, si sono cominciate a delineare ipotesi di soluzioni incentrate nella ricerca di finanziamenti esterni attraverso organismi internazionali e donatori pubblici (altri Stati) e privati per affrontare il flusso migratorio dei venezuelani; dietro rimanevano i migranti di altre nazionalità che non fornivano benefici politici né contribuivano alla fine della “dittatura” venezuelana.
In questo quadro, nell’aprile 2018, sorge la cosiddetta Piattaforma di Coordinamento Interagenzia per Rifugiati e Migranti (R4V), composta da più di 200 organizzazioni (tra cui agenzie delle Nazioni Unite, “società civile”, organizzazioni religiose e molte ONG, tra gli altre) che coordinano gli sforzi nell’ambito del Piano di Risposta per Rifugiati e Migranti del Venezuela (RMRP) in 17 paesi dell’America Latina e dei Caraibi.
Secondo la piattaforma, a settembre 2023 hanno servito 1,5 milioni di venezuelani/e migranti e, secondo i calcoli che fanno, per attendere alle necessità di quella popolazione occorrono 1,7 miliardi di $ di cui, finora, ne hanno conseguito appena il 16% (287 milioni $), distribuiti tra i diversi paesi della regione.
Nel 2018 è stato inoltre formato quello che è stato chiamato Processo di Quito, meccanismo multilaterale per il dialogo e lo scambio di informazioni “sulla situazione di ciascun paese [e] articola una strategia regionale per affrontare la crisi dei rifugiati e migranti venezuelani”, che ha anche cercato di rafforzare la cooperazione finanziaria internazionale, come si può vedere dalla sua prima dichiarazione e come è presente in quelle successive – più di otto dichiarazioni fino ad oggi -.
In questo primo documento si istituzionalizzava il transito irregolare dei venezuelani in tutta l’America Latina e nei Caraibi e si incoraggiava l’emigrazione con la concessione di “benefici” ai quali altre nazionalità non avrebbero o non avrebbero potuto accedere.
Entrambi gli esempi servono a evidenziare come l’emigrazione venezuelana veniva affrontata in quegli anni nella regione, un periodo in cui le sanzioni economiche contro il Paese si fecero sentire in modo più critico sulla popolazione venezuelana. Mostrano la strumentalizzazione e la commercializzazione del flusso migratorio venezuelano e costituiscono un altro esempio di come si affronta in modo differente le migrazioni sulla base di calcoli politici, come è avvenuto con la politica dei piedi asciutti e piedi bagnati applicata alla migrazione cubana.
AGENDO E AFFRONTANDO UN PROBLEMA IN MODO DIVERSO
L’Accordo di Palenque sembra rompere con quella logica e riposiziona questioni che non erano incluse nell’agenda di manipolazione, strumentalizzazione e commercializzazione che ha caratterizzato il periodo 2018-2022. Vogliamo menzionare in particolare quanto segue, per l’impatto che, nei confronti del Venezuela, – potrebbe valere anche per altre nazionalità – ha:
-Per la prima volta, con riferimento al tema migratorio venezuelano, si fa menzione diretta e inequivocabile all’impatto negativo che ha sulla popolazione in generale, e sui più vulnerabili in particolare, l’applicazione delle misure coercitive unilaterali (secondo paragrafo introduttivo), assumendo che “hanno gravi ripercussioni al di là dei paesi obiettivo” (secondo paragrafo del punto 2).
-Sollecita l'”abbandono” delle politiche selettive dei paesi di destinazione, come quella osservata nel promuovere la migrazione irregolare dei venezuelani durante il suddetto periodo. Il quinto paragrafo prevede esplicitamente “evitare di produrre arbitrariamente sia effetti chiamata che effetti deterrenti, tali come la regolarizzazione di alcune nazionalità” e come l’applicazione del cosiddetto TPS degli USA ai cittadini venezuelani.
-Nel nono paragrafo, si sollecita la promozione del dialogo bilaterale tra i paesi di origine, transito e destinazione dei migranti, facendo indirettamente riferimento al ristabilimento di relazioni consolari che consentano un approccio globale ai flussi migratori. Attualmente il Venezuela non ha relazioni stabili con Costa Rica, Guatemala ed El Salvador (transito) né con gli USA (destinazione).
ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI
Al di là della pressione che il governo USA sta esercitando su determinati paesi come il Messico affinché assumano posizioni allineate con la politica migratoria USA, l’iniziativa del presidente Andrés Manuel López Obrador di convocare questo incontro e indirizzare i suoi sforzi verso gli obiettivi stabiliti nella dichiarazione sono, per lo meno, coraggiosi in un contesto in cui lo sforzo può essere criticato o condannato.
La rottura delle logiche che si andavano assumendo nella regione potrebbe costituire, sulla base dell’Accordo di Palenque, l’inizio della fine del Processo di Quito e dell’R4V che hanno arrecato così tanti danni alla migrazione venezuelana, e potrebbe, allo stesso tempo, promuovere il ristabilimento dell’approccio vis-a-vis tra il governo venezuelano e altri della regione.
L’intero ecosistema delle ONG sarà danneggiato al realizzarsi la tabella di marcia stabilita nell’accordo, il che minerà la narrativa consolidata sulla migrazione venezuelana.
Il Venezuela, e in particolare il presidente Nicolás Maduro, continua a consolidare la sua presenza internazionale in spazi di dialogo che potrebbero risultare scomodi per la tematica che affrontano – come quello della migrazione – ma in cui si ottiene posizionare le argomentazioni del governo venezuelano.
Il ristabilimento delle relazioni consolari potrebbe significare un allentamento delle esigenze istituzionali – richiesta di procedure – della migrazione venezuelana per facilitare la sua regolarizzazione nei paesi in cui decida liberamente di stabilirsi, o di rientrare nel paese senza gli inconvenienti che la mancanza di documentazione impone.
EL NUEVO (Y NECESARIO) ABORDAJE MIGRATORIO DEL ACUERDO DE PALENQUE
El pasado 22 de octubre de 2023, en la ciudad de Palenque, Chiapas, en el sur de México, altas autoridades de 10 países integrantes de la llamada Ruta Norte del Flujo Migratorio en América Latina y el Caribe se reunieron con el objetivo de construir soluciones integrales ante el aumento del tráfico migratorio irregular observado durante los últimos años.
Entre los asistentes, además del anfitrión, destacó la presencia de cinco Jefes de Estado y de Gobierno (Colombia, Cuba, Haití, Honduras, Venezuela) y de otras delegaciones procedentes de Belice, Costa Rica, El Salvador y Panamá. El encuentro congregó un total de 11 países que apuestan por un abordaje que asuma las profundas consecuencias de los procesos migratorios.
Del acuerdo se destaca una hoja de ruta asumida por los Estados para el abordaje integral del fenómeno migratorio y la incorporación de un lenguaje, invisibilizado en los foros regionales que se han venido realizando en el último lustro, pero que en esta ocasión estuvo presente de forma explícita. Nos referimos a la mención de las medidas coercitivas unilaterales como generadoras de la movilidad humana.
El Encuentro de Palenque, denominado “Por una Vecindad Fraterna y con Bienestar”, rompe con una lógica observada en algunos foros sobre migración, como el llamado Proceso de Quito o el de la Plataforma RV4, cuya razón de ser residió en la instrumentalización de la migración —en especial la venezolana— para desestabilizar algunos gobiernos y para mercantilizar los procesos migratorios que han fomentado el acceso de financiamiento internacional existente —y por existir—.
Analizar el Acuerdo de Palenque a la luz de lo que se venía contemplando en otros mecanismos y declaraciones sobre migración permite evidenciar un punto de inflexión que podría significar un cambio sustancial en cómo la región asume los flujos migratorios observados en la llamada Ruta Norte, en especial la de los nacionales venezolanos.
UN BREVE PERO NECESARIO CONTEXTO
Los flujos migratorios no son nuevos y han estado vinculados a la necesidad del ser humano de buscar espacios que faciliten su existencia. Si hace milenios se buscaban lugares que garantizaran alimentos y buen clima, en los actuales momentos los migrantes apuestan por mercados laborales que proporcionen trabajos, buenos salarios, garanticen su seguridad e integridad personal y, en definitiva, condiciones mínimas de existencia.
En este sentido, la migración internacional no responde a las mismas causas en todo el mundo sino que, dependiendo del contexto, atiende a factores económicos, geográficos, demográficos y de otra índole que conforman claros patrones de migración; incluso, en la actualidad, la guerra y el cambio climático, que hace insostenible la vida en lugares específicos del planeta, se incorporarían como factores que alientan la migración.
En América Latina y el Caribe, en un momento de alta desigualdad y pobreza producto de una desigual división internacional del trabajo, los migrantes buscan acceder al mercado laboral estadounidense que ofrece salarios comparativamente mejores —aun cuando se haya estancado desde los años 1980— que los que tienen en su lugar de origen, para desde allí aportar con divisas (remesas) al sostenimiento de la casa y los familiares que se quedaron en sus lugares de origen.
El problema adquiere nuevas dimensiones cuando asumimos que América Latina y el Caribe sigue siendo la región más desigual del planeta y se encuentra justo al lado del país que es el mayor receptor de migrantes: Estados Unidos, que según datos de la Organización Internacional de Migración (OIM) para 2020 tendría una población nacida en el extranjero de 51 millones de personas.
La migración, vista integralmente, otorga beneficios tanto a las personas que deciden desplazarse como a las comunidades que los reciben, así como a las de donde partieron. No obstante, crea enormes problemas cuando se realiza de forma irregular y ocurre poniendo en riesgo la integridad y garantía de los derechos humanos de las poblaciones que deciden migrar.
LA INSTRUMENTALIZACIÓN Y MERCANTILIZACIÓN DE LA MIGRACIÓN
Históricamente los flujos migratorios en América Latina y el Caribe han estado asociados a la necesidad de garantizar medios de subsistencia. Las distintas crisis económicas generadas a partir de la implementación de las políticas neoliberales de la década de 1990 y principio de los 2000, como la entrada en vigencia del Tratado de Libre Comercio de América del Norte (TLCAN) en México y la dolarización en Ecuador, son ejemplos de cómo políticas económicas regresivas impulsaron altos desplazamientos demográficos desde esos países —y otros de América Latina y El Caribe— hacia Estados Unidos y Europa —sobre todo España—.
Desde la firma del Decreto Obama en 2015 la región fue testigo de un flujo migratorio inédito de venezolanas y venezolanos que, viendo la precarización producto de las medidas estadounidenses que afectaban la normalidad económica del país, decidieron buscar en otras latitudes los medios de subsistencia negados por las sanciones y el bloqueo en Venezuela; y si bien las primeras opciones lo constituyeron los países vecinos y cercanos de Sudamérica, tras la comprobación de las complejidades económicas existentes en esos lugares se viene notando un incremento del movimiento hacia Estados Unidos como país destino.
El detalle, sin adentrarnos en descripciones del flujo migratorio venezolano y de las complejas realidades que le ha tocado sortear en su periplo, es que durante los años 2018-2021 la región, e importantes sectores opositores al gobierno del presidente Nicolás Maduro, instrumentalizó la migración venezolana —en el marco de la política de “máxima presión” durante la era Trump— como carta de descrédito ya que “la gente huye de Venezuela” a consecuencia de la “dictadura”.
En este escenario, con una situación económica desestructurada a consecuencia de las medidas coercitivas unilaterales contra el país, sumado al fomento e incentivo institucionalizado en la región —se llegó a permitir el traslado de nacionales venezolanos por toda Sudamérica sin la documentación mínima, lo que contraviniene los principios de migración segura, ordenada y regular que contempla el Pacto Mundial para la Migración—, que apostaba por la salida masiva de venezolanos y venezolanas de sus lugares de origen, las complicaciones que eso comenzó a generar en los países receptores inauguró una campaña que buscaba monetizar una situación creada por ellos mismos.
Desde el difunto Grupo de Lima, y en especial desde Estados Unidos, se comenzaron a diseñar supuestas soluciones enfocadas en la búsqueda de financiamiento externo a través de organismos internacionales y donantes públicos (otros Estados) y privados para atender el flujo migratorio de venezolanos y venezolanas; atrás quedaban los migrantes de otras nacionalidades que no daban réditos políticos ni contribuían a la salida de la “dictadura” venezolana.
En este marco, en abril de 2018, surge la llamada Plataforma de Coordinación Interagencial para Refugiados y Migrantes (R4V), conformada por más de 200 organizaciones (incluidas agencias de la ONU, “sociedad civil”, organizaciones religiosas y muchas ONG, entre otras) que coordinan esfuerzos bajo el Plan de Respuesta para Refugiados y Migrantes de Venezuela (RMRP, por sus siglas en inglés) en 17 países de América Latina y el Caribe.
Según la plataforma, para septiembre de 2023 han atendido 1,5 millones de venezolanos y venezolanas migrantes y, según los cálculos que realizan, se necesitan 1,7 mil millones de dólares para atender esa población, de los que hasta la fecha apenas han conseguido 16% (287 millones de dólares), distribuidos entre distintos países de la región.
En 2018 también se conformó lo que se llamó el Proceso de Quito, mecanismo multilateral de diálogo e intercambio de información “sobre la situación de cada país [y] articula una estrategia regional para atender la crisis de refugiados y migrantes venezolanos”, que buscó también afianzar la cooperación financiera internacional, como se desprende de su primera declaración y que está presente en las subsiguientes —más de ocho declaraciones hasta la fecha—.
En este primer documento se institucionalizó el tránsito irregular de venezolanos y venezolanas por toda América Latina y el Caribe y se incentivó la migración con el otorgamiento de “beneficios” que otras nacionalidades no tendrían o a los que no podrían acceder.
Ambos ejemplos sirven para destacar cómo se abordó la migración venezolana durante esos años en la región, tiempo cuando las sanciones económicas contra el país se hicieron sentir de forma más crítica sobre la población venezolana. Muestran la instrumentalización y mercantilización del flujo migratorio venezolano y constituyen una muestra más de cómo se aborda de forma diferenciada las migraciones atendiendo al cálculo político, como ocurrió con la política de pies secos y pies mojados aplicada a la migración cubana.
ACTUANDO Y ABORDANDO UN PROBLEMA DE FORMA DISTINTA
El Acuerdo de Palenque aparece para romper con esa lógica y reposiciona temas que en la agenda de manipulación, instrumentalización y mercantilización que caracterizó el periodo 2018-2022 no estaban incluidos. Queremos hacer especial mención a los siguientes, por el impacto que, con relación a Venezuela —podría valer también para otras nacionalidades—, tiene:
Por primera vez en referencia al tema migratorio venezolano se hace mención directa e inequívoca a la afectación negativa que tiene sobre la población general, y sobre los más vulnerables en particular, la aplicación de las medidas coercitivas unilaterales (segundo párrafo introductorio), asumiendo que “tienen graves repercusiones más allá de los países objetivo” (segundo párrafo del punto 2).
Exhorta el “abandono” de políticas selectivas de países destino, como la que se observó al promover la migración irregular de venezolanos durante el periodo antes mencionado. El párrafo quinto expresa explícitamente “evitar producir arbitrariamente tanto efectos llamada, como efectos disuasivos, tales como la regularización de ciertas nacionalidades” y como la aplicación del llamado TPS de Estados Unidos a nacionales venezolanos.
En el párrafo noveno insta a la promoción de diálogos bilaterales entre países de origen, tránsito y destino de los migrantes, haciendo una mención indirecta al restablecimiento de relaciones consulares que permitan el abordaje integral de los flujos migratorios. Actualmente Venezuela no tiene relaciones establecidas con Costa Rica, Guatemala y El Salvador (tránsito) ni con Estados Unidos (destino).
ALGUNAS CONSIDERACIONES FINALES
Más allá de las presiones que el gobierno de Estados Unidos esté ejerciendo sobre países particulares como México para que asuman posturas alineadas con la política migratoria estadounidense, la iniciativa del presidente Andrés Manuel López Obrador de convocar este encuentro y dirigir sus esfuerzos hacia los objetivos planteados en la declaración son, cuando menos, valientes en un contexto donde el esfuerzo puede ser criticado o condenado.
El rompimiento de las lógicas que se venían asumiendo en la región podría constituir, a partir del Acuerdo de Palenque, el inicio del fin del Proceso de Quito y de R4V que tanto daño han hecho a la migración venezolana, y pudiera promover al mismo tiempo el restablecimiento del abordaje vis a vis entre el gobierno venezolano y otros de la región.
Todo el ecosistema oenegero se verá afectado de concretarse la hoja de ruta establecida en el acuerdo, lo que socavará el relato establecido acerca de la migración venezolana.
Venezuela, y en particular el presidente Nicolás Maduro, sigue consolidando su presencia internacional en espacios de diálogo que pudieran resultar incómodos por la temática que abordan —como el de la migración—, pero donde se logran posicionar los argumentos del gobierno venezolano.
El restablecimiento de las relaciones consulares podría significar un alivio a los requerimientos institucionales —solicitud de trámites— de la migración venezolana de cara a facilitarle su regularización en los países donde decida libremente establecerse, o para regresar al país sin los inconvenientes que la falta de documentación impone.