La fine dell’anno che non si prevedeva in Venezuela

Marco Teruggi  www.cubadebate.cu

A gennaio nessuno sapeva in quale situazione si sarebbe trovato il Venezuela a fine anno. Pochi, pochissimi, immaginavano che sarebbe stato calmo e che ci sarebbero state grandi file nelle strade, questa volta non a causa di penurie, come nel 2015 o 2016, ma per spendere il bonus in criptovaluta Petro concesso dal governo per le feste.

Caracas vive un dicembre con maggiore tranquillità rispetto agli anni precedenti. L’economia, in una dinamica di blocco e crisi -pezzi interconnessi-, ha lasciato maggiori spazi di tregua per la popolazione. Sono stati visti fuochi artificiali, tavoli di Natale con il cosciotto consegnato dal governo, consumo permanente nelle principali arterie di Caracas.

Si tratta di una situazione che dura da diversi mesi ed ha generato un plateau nella superficie di un’economia il cui PIL si è contratto più della metà in sei anni. Uno scenario caratterizzato dall’emergenza e consolidamento di un settore dollarizzato della popolazione, l’uso di quella valuta nelle transazioni commerciali in quartieri popolari o aree ricche e la moltiplicazione dei lavori informali di fronte al continuo declino dei salari formali con la svalutazione della moneta nazionale e l’aumento dei prezzi.

La situazione a Caracas è più stabile rispetto alle altre parti del paese. Non si vedono code per la benzina come nelle strade o nelle città dell’interno, la fornitura di elettricità si è mantenuta con pochi registri di tagli e si è consolidato un circuito di consumo per la fascia minoritaria che vive e pensa in dollari.

Era difficile prevedere questo dicembre all’inizio dell’anno con l’autoproclamazione di Juan Guaidó ed il tentativo di entrare con la forza, dalla Colombia, il 23 febbraio. Neppure in marzo, con il blackout/sabotaggio nazionale che ha lasciato il paese al buio per diversi giorni, o il 30 aprile, con Guaidó e Leopoldo López con un pugno di militari in armi nelle strade.

L’offensiva sembrava quasi inarrestabile, non solo a causa del primo momento di forza della formula di Guaidó e del suo appello all’opposizione venezuelana che tornava a mobilitarsi, ma soprattutto perché dietro o davanti all’autoproclamato c’era sempre il governo USA.

Il ruolo degli USA è stato esplicito durante tutto l’anno. John Bolton, ex consigliere per la sicurezza, ha affermato che non avevano problemi a parlare della Dottrina Monroe e, per gestire il dossier Venezuela, è stato nominato Elliot Abrahms, un uomo che è stato a capo delle guerre sporche in America Centrale negli anni ’80, con fatti come il massacro di El Mozote, in El Salvador.

L’allineamento di Donald Trump, Mike Pompeo, Bolton, Abrams, l’asse anti-Castro guidato da Marco Rubio e i poteri raramente visibili dello Stato profondo, hanno costituito un quadro d’assalto finale. Quel calcolo delle forze è risultato errato per coloro che hanno guidato l’offensiva: non solamente Nicolás Maduro rimane al governo, ma Guaidó e l’opposizione nel suo insieme attraversano i loro mesi peggiori.

La crisi della destra ha diversi elementi sovrapposti: scandali di corruzione all’interno dell’Assemblea Nazionale (AN), la divisione tra coloro che vedono possibili accordi con il governo per, ad esempio, le elezioni legislative previste per il 2020 e quelli che solo pianificavano un’uscita con la forza e la questione della presidenza dell’AN che dovrà essere rinnovata il 5 gennaio.

Chi è a capo del legislativo è centrale sia a livello interno che internazionale. A livello nazionale perché definisce in gran parte chi rimarrà alla guida della destra e della sua principale tribuna. A livello internazionale, perché l’ingegneria del governo parallelo creata dagli USA ha il suo principale punto di appoggio nell’AN: riconoscono chi è a capo della legislatura come presidente incaricato del paese.

La scommessa USA è mantenere Guaidó. Hanno già affermato, anticipando uno scenario avverso, che il loro sostegno non è per lui come persona, ma alla presidenza dell’unica istituzione che riconoscono come democratica. La sua permanenza lì sarebbe sostenere l’attuale correlazione di forze, mentre il suo allontanamento potrebbe significare una retrocessione per gli USA, nonché una nuova espressione della sua incapacità di risolvere il dossier Venezuela.

Il successivo passo chiave dopo il 5 sarà la convocazione delle elezioni legislative. Al momento il tema di conversazione della maggioranza della popolazione è il bonus dato dal governo, il riconoscimento dello sforzo o la critica fatta dagli oppositori che lo qualificano come uno strumento per controllare la popolazione e mantenere lo stesso quadro senza risolvere la situazione economica

I problemi di fondo difficilmente hanno una soluzione in breve tempo, a causa dell’impatto del blocco economico e finanziario che continuerà ad intensificarsi come annunciato dagli USA, a causa della bassa produzione di petrolio che a volte riesce a stabilizzarsi in un milione di barili al giorno, o per la mancanza di capacità del settore elettrico di soddisfare l’attuale domanda nazionale.

L’economia è in fase di transizione e metamorfosi in una combinazione di scenario di guerra e orientamenti raramente esplicitati dal governo. Si tratta di un quadro complesso, a sua volta segnato dall’emigrazione e dalle sue conseguenti rimesse che portano dollari nei quartieri popolari e nelle classi medie.

Il Venezuela termina un anno che è sembrato essere molto di più. In questi giorni nei quartieri popolari vengono spesi i buoni, si preparano i tavoli di Capodanno, le rumbe con salsa, trap e reggaeton, mancano coloro che sono fuori dal paese, viene posta in opera la capacità di resilienza di una società che si prepara per un 2020 che sarà, sicuramente, più complesso del 2019.


El fin de año que no se preveía en Venezuela

Por: Marco Teruggi

Nadie sabía en enero en qué situación se encontraría Venezuela a final de año. Pocos, muy pocos, imaginaban que se estaría en calma y que habría grandes colas en las calles, esta vez no por desabastecimiento como en el 2015 o 2016, sino para gastar el bono en criptomoneda Petro otorgado por el gobierno para las fiestas.

Caracas vive un diciembre con mayor tranquilidad que en años anteriores. La economía, en una dinámica de bloqueo y crisis -piezas imbricadas-, ha dejado mayores espacios de respiro para la población. Se han visto fuegos artificiales, mesas navideñas con el pernil entregado por el gobierno, consumo permanente en las arterias principales de Caracas.

Se trata de una situación que lleva varios meses y ha generado una meseta en la superficie de una economía cuyo PIB se ha contraído más de la mitad en seis años. Un escenario marcado por la emergencia y consolidación de un sector dolarizado de la población, el uso de esa moneda en las transacciones comerciales en barrios populares o zonas pudientes, y la multiplicación de los trabajos informales ante la caída sostenida de los salarios formales con la devaluación de la moneda nacional y el aumento de precios.

La situación en Caracas es más estable que en las demás partes del país. No se ven colas de gasolina como en las carreteras o ciudades del interior, el abastecimiento de luz se ha mantenido con pocos registros de cortes, y se ha consolidado un circuito de consumo para la franja minoritaria que vive y piensa en dólares.

Era difícil pronosticar este diciembre a principios de año con la autoproclamación de Juan Guaidó y el intento de ingreso por la fuerza desde Colombia el 23 de febrero. Tampoco en marzo, con el apagón/saboteo nacional que dejó al país a oscuras durante varios días, o el 30 de abril, con Guaidó y Leopoldo López junto a un puñado de militares en armas en las calles.

La ofensiva parecía casi imparable, no solamente por el primer momento de fuerza de la fórmula Guaidó y su atractivo para la oposición venezolana que volvía a movilizarse, sino principalmente porque detrás o delante del autoproclamado siempre estuvo el gobierno norteamericano.

El rol de Estados Unidos (EEUU) fue explícito durante todo el año. John Bolton, exasesor de seguridad, afirmó que no tenían problema en hablar de la Doctrina Monroe, y, para llevar el expediente Venezuela, fue nombrado Elliot Abrahms, un hombre que estuvo al frente de las guerras sucias de Centroamérica en los años 80, con hechos como la masacre de El Mozote, en El Salvador.

La alineación de Donald Trump, Mike Pompeo, Bolton, Abrams, el eje anticastrista encabezado por Marco Rubio, y los poderes pocas veces visibles del Estado profundo, conformaron un cuadro de asalto final. Ese cálculo de fuerzas resultó errado para quienes encabezaron la ofensiva: no solamente Nicolás Maduro sigue en el gobierno, sino que Guaidó y el conjunto de la oposición atraviesa sus peores meses.

La crisis de la derecha tiene varios elementos superpuestos: escándalos de corrupción dentro de la Asamblea Nacional (AN), la división entre quienes ven posibles acuerdos con el gobierno para, por ejemplo, las elecciones legislativas previstas para el 2020, y quienes solo plantean una salida por la fuerza, y la cuestión de la presidencia de la AN que deberá ser renovada el 5 de enero.

Quien esté al frente del legislativo es central tanto a nivel interno como internacional. En lo nacional porque define en gran parte quien quedará en la conducción de la derecha y su principal tribuna. En lo internacional porque la ingeniería del gobierno paralelo creada por EEUU tiene su principal punto de apoyo en la AN: reconocen a quien está al frente del legislativo como presidente encargado del país.

La apuesta norteamericana es mantener a Guaidó. Ya han afirmado, anticipándose a un escenario adverso, que su respaldo no es a él como persona, sino a la presidencia de la única institución que reconocen como democrática. Su permanencia allí sería sostener la actual correlación de fuerzas, mientras que su desplazamiento podría significar un retroceso para EEUU, así como una nueva expresión de su incapacidad para resolver el expediente Venezuela.

El siguiente paso clave luego del 5 será la convocatoria a las elecciones legislativas. Por el momento el tema de conversación de la mayoría de la población es el bono entregado por el gobierno, el reconocimiento del esfuerzo, o el cuestionamiento hecho por opositores que lo califican como un instrumento para controlar a la población y mantener el mismo cuadro sin resolver la situación económica.

Los problemas de fondo difícilmente tengan solución en un tiempo corto, por el impacto del bloqueo económico y financiero que seguirá escalando como ha sido anunciado por EEUU, por la baja producción petrolera que por momentos logra estabilizarse en un millón de barriles diarios, o la falta de capacidad del sector eléctrico para abastecer la actual demanda nacional.

La economía está en proceso de transición y metamorfosis en una combinación de escenario de guerra y orientaciones pocas veces explicitadas por el gobierno. Se trata de un cuadro complejo, marcado a su vez por la emigración y sus consecuentes remesas que traen dólares en los barrios populares y las clases medias.

Venezuela termina un año que han parecido ser muchos más. Por estos días en los barrios populares se gastan los bonos, se preparan las mesas de año nuevo, las rumbas con salsa, trap y reggaetón, se extraña a quienes están fuera del país, se pone en obra la capacidad de resiliencia de una sociedad que se prepara para un 2020 que será, seguramente, más complejo que el 2019.

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