Honduras: 10 anni di golpe e neoliberismo

Katu Arkonada www.cubadebate.cu

Le mobilitazioni popolari si succedono in Honduras. In questi giorni sono 60 mila medici e insegnanti sul piede di guerra contro un sistema politico che cerca, per imposizione del Fondo Monetario Internazionale, la privatizzazione della salute e dell’istruzione. Le mobilitazioni hanno un tale grado di sostegno popolare per la Polizia Nazionale ha aderito allo sciopero, costringendo il governo di Juan Orlando Hernandez (JOH) a schierare le forze armate in compiti di repressione delle proteste popolari.

Ma questa storia inizia 10 anni fa, il 28 giugno 2008, quando 200 militari incappucciati entrano, di notte e con l’inganno, nella residenza presidenziale di Tegucigalpa e strappano, in pigiama, il presidente Mel Zelaya per, dopo una breve passaggio in una base militare, deportando in Costarica, nonostante il fatto che l’articolo 102 della Costituzione proibisca espressamente che nessun honduregno possa essere espatriato o consegnato ad uno stato straniero.

L’argomento per il colpo di stato era l’intenzione di Mel Zelaya di collocare un’urna nelle prossime elezioni, promuovendo un referendum che desse il via a riforme costituzionali. Ma ciò era la forma. La sostanza era che Zelaya, un proprietario terriero che aveva vinto le elezioni con il supporto del Partito Liberale, aveva dato una svolta a sinistra dopo aver conosciuto i disagi del popolo honduregno, impantanato nella povertà e violenza, e anche, con l’autorizzazione del Parlamento, aveva incorporato l’Honduras prima in Petrocaribe e poi nell’ALBA.

Questo è stato il primo golpe vincente contro i governi del ciclo progressista, e lo è stato contro il suo anello più debole, inaugurando un periodo di restaurazione conservatrice in lungo ed in largo per l’America Latina, che è stato seguito da colpi di stato parlamentari in Paraguay contro Fernando Lugo, o in Brasile contro Dilma Rousseff, mentre si sviluppava il lawfare, la guerra giudiziaria contro dirigenti progressisti come Lula da Silva, Cristina Fernandez de Kirchner e Rafael Correa.

Ma l’Honduras ha vissuto altri due golpe, in questo caso elettorali.

Nel 2013, e con Mel Zelaya di nuovo nel paese, ma impossibilitato a presentarsi, Xiomara Castro è stata la candidata alla presidenza del Partito Libertà e Rifondazione (Libre). L’inesperienza di Libre e la sua ineguale distribuzione territoriale hanno portato a che le elezioni fossero manipolate a vantaggio di Juan Orlando Hernández. Un solo dato: nello stesso momento in cui si produceva il riconteggio, i magistrati del Tribunale Supremo Elettorale erano riuniti con l’ambasciatrice USA in Honduras.

Ma è stato nel 2017, quando il terzo golpe, secondo elettorale, questo ora non come tragedia ma come farsa, consuma quello iniziato nel 2009. In un’elezione in cui Libre ed il PAC di Salvador Nasrallah affrontavano la rielezione di JOH, il comunicato, per la nulla sospetta, Segretaria Generale dell’OSA sul risultato delle elezioni, getta più chiarezza di qualsiasi analisi politica che possiamo scrivere: intrusioni umane deliberate nel sistema informatico, eliminazione intenzionale di tracce digitali, impossibilità di conoscere il numero di opportunità in cui il sistema è stato violato, valigie di voti aperte o senza verbale, improbabilità statistica estrema per quanto riguarda i livelli di partecipazione all’interno dello stesso dipartimento, schede elettorali in uno stato di recente stampa ed altre irregolarità, aggiunte alla stretta differenza di voti tra i due candidati più votati, rendono impossibile determinare con la necessaria certezza il vincitore.

Tre colpi di stato in 10 anni, uno militare e due elettorali, è il bilancio di uno dei paesi più poveri e più diseguali d’America Latina, e tutto con un obiettivo molto chiaro, l’imposizione del modello neoliberale mediante la violenza in un paese chiave, sempre è stata la sua retroguardia strategica, per le operazioni USA in America Centrale. L’impunità con la quale si è assassinata l’avvocatessa ambientale Berta Caceres in un paese che ha il fratello del presidente JOH accusato di gestire le rotte ed il traffico di cocaina verso gli USA, è probabilmente la migliore, e forse più terribile metafora di come si è imposta la dottrina dello shock per disciplinare la popolazione civile.

Una dottrina dello shock la cui conseguenza più drammatica sono le carovane di migliaia di persone che vengono sfrattate dalle loro vite frutto dell’espropriazione sociale neoliberale e lasciano alle spalle famiglia ed effetti personali per cercare di raggiungere l’american way of life, anche a costo di rischiare di essere estorti, rapiti o assassinati nel tragitto.

È per questo che i fratelli migranti centroamericani in generale, e gli honduregni in particolare, devono essere trattati come rifugiati politici di una dittatura, quella del modello neoliberale, e quando i mass media vogliono parlarci di diritti umani o del dramma migratorio in altre parti più distanti, esigiamo che vadano in Honduras e ci dicano non solo ciò che gli è utile del reality show per ottenere più audience, ma le cause reali di questa migrazione di massa.

E per iniziare a risolvere questo dramma, facciamo nostro il comunicato di Libre del 20 giugno, firmato da Mel Zelaya lo stesso giorno in cui le forze armate assassinavano il tassista Erick Peralta a El Pedregal, e per il quale si dichiarano in lotta permanente contro la dittatura diretta dagli USA dal 2009, chiarendo: JOH deve andarsene ora.

(Tratto da La Jornada)


Honduras: 10 años de golpes y neoliberalismo

Por: Katu Arkonada

Las movilizaciones populares se suceden en Honduras. En estos días son 60 mil médicos y maestros en pie de guerra contra un sistema político que busca, por imposición del Fondo Monetario Internacional, la privatización de la salud y la educación. Las movilizaciones cuentan con tal grado de apoyo popular que hasta la Policía Nacional se ha sumado al paro, forzando al gobierno de Juan Orlando Hernández (JOH) a desplegar a las fuerzas armadas en tareas de represión de las protestas populares.

Pero esta historia comienza hace 10 años, el 28 de junio de 2018, cuando 200 militares encapuchados entran con nocturnidad y alevosía en la residencia presidencial de Tegucigalpa y sacan en pijama al presidente Mel Zelaya para, tras un breve paso por una base militar, deportarlo a Costa Rica, a pesar de que el artículo 102 de la Constitución prohíbe expresamente que ningún hondureño puede ser expatriado ni entregado a un Estado extranjero.

El argumento para el golpe de Estado era la intención de Mel Zelaya de colocar una urna en la siguiente elección, promoviendo un refrendo que diese paso a reformas constitucionales. Pero eso era la forma. El fondo era que Zelaya, un terrateniente que había ganado las elecciones con el apoyo del Partido Liberal, había dado un giro a la izquierda tras conocer las penurias del pueblo hondureño, sumido en la pobreza y violencia, e incluso, con la autorización del Parlamento, había incorporado a Honduras primero a Petrocaribe, y luego al ALBA.

Ese fue el primer golpe exitoso contra los gobiernos del ciclo progresista, y lo fue contra su eslabón más débil, inaugurando un periodo de restauración conservadora a lo largo y ancho de América Latina, al que le sucedieron los golpes parlamentarios en Paraguay contra Fernando Lugo, o en Brasil contra Dilma Rousseff, al mismo tiempo que se desataba el lawfare, la guerra judicial contra líderes progresistas como Lula da Silva, Cristina Fernández de Kirchner o Rafael Correa.

Pero Honduras vivió dos golpes más, en este caso electorales.

En 2013, y ya con Mel Zelaya de regreso en el país, pero imposibilitado para presentarse, Xiomara Castro fue candidata presidencial del Partido Libertad y Refundación (Libre). La inexperiencia de Libre y su desigual distribución territorial llevó a que las elecciones fueran manipuladas en beneficio de Juan Orlando Hernández. Un solo dato: a la misma hora en que se producía el recuento, los magistrados del Tribunal Supremo Electoral estaban reunidos con la embajadora de Estados Unidos en Honduras.

Pero fue en 2017 cuando el tercer golpe, segundo electoral, este ya no como tragedia, sino como farsa, consuma lo iniciado en 2009. En unas elecciones en las que Libre y el PAC de Salvador Nasralla enfrentaban la reelección de JOH, el comunicado de la nada sospechosa Secretaría General de la OEA sobre el resultado de las elecciones, arroja más claridad que cualquier análisis político que podamos escribir: Intrusiones humanas deliberadas en el sistema informático, eliminación intencional de rastros digitales, imposibilidad de conocer el número de oportunidades en que el sistema fue vulnerado, valijas de votos abiertas o sin actas, improbabilidad estadística extrema respecto a los niveles de participación dentro del mismo departamento, papeletas de voto en estado de reciente impresión e irregularidades adicionales, sumadas a la estrecha diferencia de votos entre los dos candidatos más votados, hacen imposible determinar con la necesaria certeza al ganador.

Tres golpes de Estado en 10 años, uno militar y dos electorales, es el balance de uno de los países más pobres y desiguales de América Latina, y todo con un objetivo muy claro, la imposición del modelo neoliberal mediante la violencia en un país clave, siempre fue su retaguardia estratégica, para las operaciones de Estados Unidos en Centroamérica. La impunidad con la que se asesinó a la defensora ambiental Berta Cáceres en un país que tiene al hermano del presidente JOH acusado de gestionar las rutas y tráfico de cocaína hacia Estados Unidos, es problemente la mejor, y a la vez más terrible metáfora de como se ha instrumentalizado la doctrina del shock para disciplinar a la población civil.

Una doctrina del shock cuya consecuencia más dramática son las caravanas de miles de personas que son desalojadas de sus vidas fruto del despojo social neoliberal y dejan atrás familia y pertenencias para tratar de alcanzar el american way of life, aun a costa de arriesgarse a ser extorsionados, secuestrados o asesinados en el camino.

Es por ello que los hermanos migrantes centroamericanos en general, y los hondureños en particular, deben ser tratados como refugiados políticos de una dictadura, la del modelo neoliberal, y cuando los medios de comunicación masivos nos quieran hablar de derechos humanos o del drama migratorio en otras partes más lejanas, exijamos que vayan a Honduras y nos cuenten no solo lo que les sirve de reality show para ganar más audiencia, sino las causas reales de esta migración masiva.

Y para empezar a solucionar este drama, hagamos nuestro el comunicado de Libre del 20 de junio, firmado por Mel Zelaya el mismo día que las fuerzas armadas asesinaban al taxista Erick Peralta en El Pedregal, y por el que se declaran en lucha permanente contra la dictadura dirigida por Estados Unidos desde 2009, dejando muy claro: JOH debe irse ya.

(Tomado de La Jornada)

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