Un’altra Moncada come esplosione quotidiana

Un’altra Moncada come esplosione quotidiana, urgente, necessaria

E non mancano roditori finanziati. Infelici, non sopportano gli applausi delle nove, non conoscono la bontà, ignorano il coraggio, non sanno di fermezza inusitata. Poveretti, sognano esplosioni e non vedono tutte le esplosioni, le migliaia di Moncada.

José LLamos Camej

Si annuncia  l’aurora; si avvicina un nuovo assalto: ogni giorno in quest’Isola è uno e mille assalti, una e mille Monacada. Tutto avvenne una domenica all’alba. A Santiago, dormiva  la guarnizione «delle poderose forze dominanti»; Cuba la sorprese.

Quel giorno di quell’anno cominciava la lotta; era  «il primo assalto a una delle tante fortezze che si dovevano  ­prendere ».

Lo disse il giovane avvocato che guidò la ribellione. Inesperienza, ignoranza, sottosviluppo, mancanza di risorse; …  …«Moncada da prendere».

Fidel parla di un altro vizio chiuso in caserma: «vecchie idee, egoismo, la Moncada più difficile da prendere».

Un allarme che giunge ai nostri giorni con un’altra voce: la voce di un uomo a sua volta ugualmente chiara­, lucida ugualmente, ancora giovane; porta il sogno della Patria nella pupilla e il bianco della pace tra i capelli.

In questo mondo complesso e sfidante –ha detto l’uomo– si corrono rischi; «e non cambiare, non trasformare», sarebbe il peggiore di tutti i rischi  –avvisa –, e invita a superarli. U’altra volta si presentano le sfide: più alimenti, sciogliere nodi, esportare, «fare le cose bene».

Legioni di cubani sui solchi. È l’opzione.  Minare il suolo di sementi, irrigarlo di sudore, deludere quelli che ci vogliono asfissiare, insomma un’ altra Moncada quotidiana, urgente, necessaria.

Alla carica con la la lancia in resta, alziamo gli scudi, ci sono proiettili che giungono da altri fianchi, di odio satanico, rancori imperiali, opportunismo,  amnesie selettive.

E non mancano roditori finanziati. Infelici, non sopportano gli applausi delle nove, non conoscono la bontà, ignorano il coraggio, non sanno di fermezza inusitata. Poveretti, sognano esplosioni e non vedono tutte le esplosioni, le migliaia di Moncada.


Le mura della Moncada

All’ora del processo, Fidel invoca l’Apostolo, Martí si muove per la sala come un angelo con la spada di fuoco e persino i nemici  provano il raro  orgoglio d’essere cubani. Non è il giudice che dà colpi di martello: sono quelle poderose parole: «Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà!»

Julio César Sánchez Guerra

Tra le vene di una città escono i giovani martiani. Al cadere della notte le luci delle auto inghiottono la strada; di tanto in tanto una fermata per respirare l’aria di un paese.  Ora non si tratta d’essere o non essere, ma dove sarà la cosa; la domanda li perseguita come un tafano di città in città; alcuni vengono con le scarpe a due toni e i soli pantaloni eleganti, la guayabera bianca; altri lasciano alla famiglia un brevissimo messaggio d’arrivederci o un addio appeso alla finestra come la luce tremolante di una candela.

Già il viaggio attraversa le terre orientali; alla fine Santiago, il carnevale, la Granjita Siboney. Nel mezzo di una festa un’altra volta la possibilità del sacrificio per la felicità di tutti.

In una piccolissima sala i valorosi, più grandi dei loro fucili, si vedono i volto, tutti insieme,  per la prima volta. Senza tempo per dormire due donne danno colpetti sulle spalle e distribuiscono le uniformi.

Dopo le parole di Fidel e l’inno di Perucho.

È domenica 26 di luglio del 1953, Giorno della Santa Ana e avviene il dramma di una storia: l’assalto la dispersione, il sangue dei compagni per strade, che non hanno dormito. Alcuni tra le montagne, altri all’entrata di una boscaglia sconosciuta, e altri sfidando le barriere di guardia all’entrata di ogni città dissimulano  l’odore della polvere che esce dai loro pori.

Forse hanno paura. È che non sono Achille, l’eroe leggendario con un solo punto mortale nel tallone, ma Ettore alle porte di Troia e fa male morire con una così piccola vita nei polmoni e lasciare una canzone senza nome nella mani della fidanzata o nei sogni di una madre.

Ma vincono la paura e l’odio degli sciacalli. Fidel prigioniero, eretto, guarda quelli che sono sopravvissuti e pone dove nessuno lo veda il dolore per quelli che mancano: gli occhi di Abel, gli occhiali, i feriti assassinati, il corpo mutilato di Boris Luis, il poeta Raúl Gómez García che già non c’è più e continua vivo al di sopra del verso, del fumo e della mitragliatrice.

All’ora del processo, Fidel invoca l’Apostolo, Martí si muove per la sala come un angelo con la spada di fuoco e persino i nemici  provano il raro  orgoglio d’essere cubani.

Una lingua, come uno scudiscio nel volto del Generale percorre la sala, passa per le pagine che hanno rubato la dignità umana e reclama: terra per contadini, salute per i malati, scuole per i bambini, case pulite per i cittadini tanto mortali come l’albero, libertà per il diritto all’essenziale culto di amare dei piedi scalzi

Non è il giudice che dà colpi di martello: sono quelle poderose parole: «Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà!»

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