Il ministro della Cultura, Alpidio Alonso, ha denunciato, sul suo account Twitter, la campagna mediatica di manipolazione ed odio contro intellettuali ed artisti cubani, ideata, diretta e molto ben pagata dagli USA. “Facciamo che prevalgano la verità e l’amore”, ha detto, nel messaggio in cui ha mostrato il suo sostegno al grande musicista Alexander Abreu, ora vittima di quella macchina dell’odio
Oni Acosta Llerena www.granma.cu
E’ già un fatto palpabile e ricorrente la demonizzazione dei nostri artisti sulle reti sociali di Internet. I nuovi cavalieri templari della libertà, ma che vivono imprigionati dentro loro stessi, non risparmiano risorse per le loro cacce e, come in una guerra convenzionale, usano tutto ciò che appare e gli sia utile a tali scopi.
Ciò che ad un certo punto è stato camuffato sotto l’egida di una critica artistica, ma lasciando intravedere un discorso egemonico e manipolatore, oggi si mostra crudamente per appropriarsi di strumenti di tutti i tipi che soddisfino, come disperazione canina, una marcata angustia di imposizione ideologica. Questo comportamento può portarci a delineare – da una rapida analisi sull’argomento – due tesi molto semplici: una può essere che il contro-discorso da Cuba si sia delineato e posizionato su Internet da un’intellighenzia impegnata nella difesa della cultura nazionale autentica, e l’altro, ma non meno importante, è l’approvazione imperiale di una politica, come mai prima, così ostile a qualsiasi accenno culturale cubano ed al suo impatto sullo sviluppo dell’arte e del suo mercato su entrambe le sponde.
Così, potremmo affermare che tematiche sensibili dall’endogeno del processo rivoluzionario e culturale cubano hanno ricevuto gli attacchi più in voga in questi tempi, con una inusitata pressione a dissociarsi da un dibattito reale e profondo. In questo senso, ce n’è uno che spicca con aberranti accuse razziali che in poco tempo si è riversato nelle reti sociali contro i nostri artisti, ma diretto e opportunamente. Basterebbe appena uno sguardo per capire che si pretende silurare e creare caos con un tema delicato e per nulla estraneo al nostro complesso intorno socio-politico, ma con una infondata presenza nella musica cubana.
La cosa più preoccupante è la vittimizzazione che esercita il tema razziale come causa di mali che nulla hanno a che fare con esso, ma che, di fronte a quello che desiderano proiettare come “fallito schema sociale e musicale cubano”, gli viene a pennello ai coinvolti.
Da una decisione amministrativa o da qualche altra diatriba con standard commerciali, si arguiscono motivi razziali e si alimenta il presunto mito, senza reali punti d’appoggio nel nostro ambiente, ma che fa parte di un ciclo di preparazione e fabbricazione di un nuovo fantasma in assenza di argomenti e figure credibili che alimentino la parassita favola del razzismo escludente nella musica cubana.
Quando Cuba viene interpellata, le farse non hanno bisogno di essere provate né portare espliciti sostegni: basta solo credere nella buona fede di un “attivista” per dare per scontato detto circo. In qualsiasi altro tema e contesto, le accuse si basano su prove documentali o forensi, che supportano la denuncia. A noi queste regole non si applicano, bensì la parola di chi avversa è sufficiente per scenate e linciaggi senza precedenti. Se qualcuno denuncia – senza prova alcuna – di essere vittima del razzismo da parte delle istituzioni musicali cubane, si lanciano gli odiatori per distruggere la credibilità del paese senza pensarci due volte. Ma se un musicista cubano per difendere questo progetto sociale, o semplicemente per non attaccarlo, soffre di molestie razziste da piattaforme virtuali, comprese minacce di morte, quegli stessi odiatori tacciono con un coro unanime e complice, contraddicendo le loro stesse grida dal fabbricato «attivismo non violento”. E’ che i meccanismi di interazione nelle reti sociali di Internet e le pubblicazioni sul web sono il nuovo scenario nella guerra contro la cultura cubana, dove importano più i “mi piace” e che qualcuno condivida una pubblicazione mediocre, che le idee profonde e la verità.
Allo stesso tempo, le istituzioni e la stampa di settore devono saper separare il dibattito sensibile e necessario su questi temi dal panflet opportunista, dove in molte occasioni si mascherano posizioni di falso attivismo per assecondare pratiche predatorie, demolitrici e senza alcuno scopo costruttivo. A volte l’ambiguità di alcuni è tanto mortifera quanto la maschera di altri.
Quindi, è chiaro, non siamo di fronte ad alcun movimento sociale né attivismo, né di fronte a sensibili lottatori per cause come l’infanzia, la violenza contro le donne o i diritti degli artisti cubani neri. Contrariamente a tutto questo, la costruzione di una presunta piattaforma di libero pensiero tace di fronte alle manifestazioni veramente xenofobe e razziste che minacciano costantemente i nostri musicisti e che, ribadisco, cercano solo l’attacco ingannevole per l’unico crimine di vivere a Cuba e stare insieme al proprio popolo, come è appena accaduto con Alexander Abreu, a cui quella macchina d’odio è giunta a chiamare “gorilla”. Perché quello che fa veramente male è che a lui, a me, a te e a molti di noi ci dicono CUBA.
De música, redes y sus racismos selectivos
El ministro de Cultura, Alpidio Alonso, denunció, en su cuenta de Twitter, la campaña mediática de manipulación y de odio contra intelectuales y artistas cubanos, concebida, dirigida y muy bien pagada desde Estados Unidos. «Hagamos que prevalezcan la verdad y el amor», dijo, en el mensaje en el que mostró su apoyo al gran músico Alexander Abreu, víctima ahora de esa maquinaria de odio
Autor: Oni Acosta Llerena
Ya es un hecho palpable y recurrente la demonización de nuestros artistas en las redes sociales de internet. Los nuevos caballeros templarios de la libertad, pero que viven presos dentro de sí mismos, no escatiman recursos para sus cacerías y, como en una guerra convencional, se valen de cuanto aparezca y les sea útil para tales propósitos.
Lo que en determinado momento se disfrazó bajo la égida de una crítica artística, pero dejando entrever un discurso hegemónico y manipulador, hoy se muestra descarnadamente para apropiarse de herramientas de todo tipo que satisfagan, cual desespero canino, una marcada angustia de imposición ideológica. Esa conducta puede conducirnos a esbozar -desde un análisis rápido en cuanto al tema- dos tesis muy simples: una puede ser que el contradiscurso desde Cuba se ha perfilado y posicionado en internet por una intelectualidad comprometida con la defensa de la cultura nacional auténtica, y la otra, pero no menos importante, es la refrendación imperial de una política como nunca antes tan hostil hacia todo atisbo cultural cubano y su incidencia en el desarrollo del arte y de su mercado en las dos orillas.
Así, podríamos afirmar que temáticas sensibles desde lo endógeno del proceso revolucionario y cultural cubano han recibido los ataques más de moda en estos tiempos, con una inusitada presión para la disociación de un debate real y profundo. En esa línea hay uno que sobresale con aberradas acusaciones raciales que en poco tiempo ha pululado en las redes sociales contra nuestros artistas, pero dirigido y a conveniencia. Apenas una mirada bastaría para entender que se pretende torpedear y crear caos con un tema sensible y para nada ajeno a nuestro complejo entorno sociopolítico, pero con una infundada presencia en la música cubana.
Lo más preocupante es la victimización que esgrime el tema racial como causante de males que nada tienen que ver con ello, pero que ante la mirada de lo que desean proyectar como el «fallido esquema social y musical cubano», les viene de maravilla a los involucrados.
Desde una decisión administrativa o alguna que otra diatriba con raseros comerciales se arguyen motivos raciales y se alimenta el supuesto mito sin asideros reales en nuestro entorno, pero que forma parte de un ciclo de preparación y fabricación de un nuevo fantasma ante la falta de argumentos y figuras creíbles que alimenten la parásita fábula del racismo excluyente en la música cubana.
Cuando se interpela a Cuba, las farsas no necesitan probarse ni llevar apoyaturas gráficas: solo basta creer en la buena fe de un «activista» para dar por sentado dicho circo. En cualquier otro tema y contexto, las acusaciones se basan en pruebas documentales o forenses, que sustenten la denuncia. Para nosotros esas reglas no aplican, sino que la palabra de quien adversa es suficiente para alharacas y linchamientos sin precedentes. Si alguien denuncia -sin prueba alguna- que es víctima de racismo por parte de instituciones de la música cubana, se lanzan los odiadores a despedazar la credibilidad del país sin pensarlo dos veces. Pero si un músico cubano por defender este proyecto social, o solo por no atacarlo, sufre de acoso racista desde plataformas virtuales, incluyendo amenazas de muerte, esos mismos odiadores callan a coro unánime y cómplice, contradiciendo sus propios gritos desde el fabricado «activismo no violento». Y es que los mecanismos de interacción en redes sociales de internet y publicaciones en la web son el nuevo escenario en la guerra contra la cultura cubana, donde importan más los «me gusta» y que alguien comparta una publicación mediocre, que las ideas profundas y la verdad.
A su vez, las instituciones y la prensa del sector debemos saber separar el debate sensible y necesario sobre estos temas del panfleto oportunista, donde en muchas ocasiones se disimulan posiciones de falso activismo para complacer prácticas de rapiña, demoledoras y sin ningún propósito constructivo. A veces la ambigüedad de algunos es tan mortífera como el antifaz de otros.
Entonces, resulta claro, no estamos ante ningún movimiento social ni activismo, ni ante sensibles luchadores por causas como la infancia, la violencia contra la mujer o los derechos de los artistas negros cubanos. Contrario a todo ello, la edificación de una supuesta plataforma de pensamiento libre calla ante las manifestaciones realmente xenófobas y racistas que amenazan a nuestros músicos constantemente y que, reitero, solo buscan el ataque artero por el único delito de vivir en Cuba y estar junto a su pueblo, como acaba de suceder con Alexander Abreu, a quien esa máquina de odio ha llegado a llamar «gorila». Porque lo que realmente duele es que, a él, a mí, a usted, y a muchos nos digan CUBA.