Dialoghiamo?

Sappiamo che il requisito principale per sviluppare un dialogo, in tutta la sua estensione semantica e pratica, radica in volontà aperte e verificabili, proattive per ascoltare quello che un interlocutore pensa e fa

Dialogare è un fatto sociale che a molti indica «civiltà»

Dialogare ha «una buona accoglienza» e normalmente è la miglior strategia per dirimere (bene o male) accordi o disaccordi. E molto raramente un vero dialogo omette l’uguaglianza di opportunità e, principalmente, l’uguaglianza delle condizioni.

Sappiamo che il requisito principale per sviluppare un dialogo, in tutta la sua estensione semantica e pratica, radica in volontà aperte e verificabili, proattive per ascoltare quello che un interlocutore pensa e fa. Che questa volontà d’ascoltare, nella sua proattività, chiede anche disposizione per realizzare accordi pertinenti concreti e congiunti con cambi di attitudini.

Che il seguente passo di un buon dialogo sarebbe una convivenza armonica. Ma è necessaria uguaglianza (no uniformità) di posizioni obiettive e soggettive.

Questo è possibile in società divise in classi? Solo i popoli fratelli dialogano onestamente.

Anche in condizioni disuguali è possibile un certo livello di dialogo, ma sarà sempre un dialogo determinato dalle assimetrie, ed è d’importanza metodologica primordiale osservare come e quanto influiscono tali asimmetrie nelle caratteristiche del dialogo, e le loro conseguenze a breve, medio e lungo tempo.

Questo sembrerebbe perfetto se non fosse perchè si scoprono imboscate, generalmente immediatamente traditi con mille e una canagliata, come furono trascinati i dialoghi di Pade per la Colombia, come le farse dialoghiste del Movimento (golpista) San Isidro in Cuba. E mille altri esempi.

La storia dei dialoghi è plagata dalle più diverse esperienze, che includono nel parto dei saperi (nella maieutica di Socrate) alla falsificazione nel uso del dialogo manipolato come imboscata ideologica per mettere , come una trappola, «in piedi di uguaglianza», quello che è semplicemente irriconoscibile, inammissibile e immorale. Così come sono di norma i dialoghi convocati dall’impero o i dialoghi usati nella televisione come esempi di democrazia borghese festaiola, o i dialoghi proposti alla gioventù perche si creda il racconto che «tutti siamo uguali» sotto il capitalismo. E molti ingenuamente ci cadono.

Con le condizioni attuali di dominio capitalista, andare a un tavolo di dialogo o esigerlo, implica rendere esplicite le agende concrete, il curriculum degli interlocutori e tutte le disuguaglianze che circondano un’iniziativa.

Non possiamo dialogare sulla povertà nel mondo se qualcuno dei dialoganti arriva affamato. Non si può dialogare senza denunciare le coazioni, le minacce e i limiti imposti prima e durante il dialogo.

Non si può dialogare sulla pace se loro sono padroni del industria bellica planetaria, non si può dialogare sula cultura se loro sono i padroni del macchine della guerra ideologica che camuffano da «mezzi di comunicazione»; non si può dialogare sulla democrazia se loro mantengono bloccati i nostri paesi. Niente di tutto questo somiglia al dialogo nè alla civiltà. Possiamo andare ai loro tavoli, ma non vi andremo mai ingenuamente.

Non è intransigente esigere condizioni degne. L’inaccettabile è prestarsi a una trappola che ci hanno teso migliaia di volte abusando del loro potere autoritario e classista.

Non è arroganza esigere uguaglianza di opportunità e uguaglianza di condizioni. Non è petulanza sottomettere a revisione minuziosa il contenuto delle agende e, soprattutto far valere il nostro diritto d’includere nelle agende i temi che c’importano e preoccupano storicamente.

Si deve dialogare con tutti? Solo se rispettano i popoli, se meritano la fiducia delle lotte.

Necessitiamo strumenti scientifici e aiuti teorico –metodologici per andare sufficientemente informati a un tavolo di dialogo, accudire sufficientemente avvertiti su ogni possibile trappola borghese, accudire nutriti dall’esperienza che dà la lotta dalle basi.

Evitare, ad ogni costo d’obbedire a qualsiasi agenda inconsulta, anche s travestita da collettiva. Assistere sicuri che parleremo linguaggi comuni senza un parolaio «tecnico», senza grovigli semantici che non intendiamo o sui quali non siamo stati consultati.

Assistere con la forza morale delle nostre storie di lotta e delle nostre grandi vittorie rivoluzionarie, ma mai assistere da ingenui.

«Con l’inganno ci hanno sconfitto, più che con la nostra forza», diceva il gigante Simón Bolívar, che sapeva abbastanza di dialoghi.

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