Migrazione, Trump, Biden e ciò che verrà

José Ramón Cabañas Rodríguez

Quando si affronta la questione migratoria negli USA, si incorre comunemente in due errori: il primo, considerare che il paese respinga i flussi immigratori con carattere permanente e, il secondo, considerare che l’uno o l’altro partito federale sia pro o anti migrante.

Gli USA si sono formati come paese a partire da un afflusso di immigranti che hanno soggiogato ed espropriato dei loro territori originari  la popolazione nativa. Se tale flusso si fermasse, l’attuale crescita della sua economia si arresterebbe bruscamente. L’azione esecutiva fondamentale su questo tema è cercare di regolare i flussi e renderli prevedibili, in modo che possano essere accompagnati sia dai fondi federali che dai bilanci delle società private, che ne consentano un’assimilazione ordinata da parte della società.

Un documento del Cato Institute ha recentemente caratterizzato la contraddizione che gli USA affrontano nel trattare il tema migratorio, affermando che l’economia USA era in espansione, il che di per sé genera una domanda di forza lavoro non qualificata che, allo stesso tempo, non trova forme legali per entrare nel paese.

Per questo motivo, i migranti che arrivano soprattutto dai paesi vicini dei Caraibi, dell’America Centrale e del Sud non avrebbero altra opzione pratica che non sia quella di tentare di attraversare il confine illegalmente, con l’aiuto di reti consolidate dedite al traffico di persone.

Alle ragioni addotte dal suddetto istituto bisognerebbe aggiungere i fattori d’impulso presenti nei paesi di origine, come il sottosviluppo, la corruzione e l’effetto di misure coercitive unilaterali come nei casi di Venezuela e Cuba.

Fino al 2016, il dibattito migratorio tra politici democratici e repubblicani era più legato al trattamento da fornire agli immigrati privi di documenti che già risiedevano all’interno degli USA, piuttosto che alla regolamentazione dell’entità della massa umana che transitava senza visto o senza documenti d’identità, dai confini terrestri o marittimi.

Gli scopi della cosiddetta riforma migratoria proposta dai democratici erano volti a regolarizzare la situazione legaler di circa 12 milioni di persone che vivevano nel Paese, ma senza documenti comprovanti il ​​loro status di residenti o cittadini. L’obiettivo finale era che buona parte di questo totale arrivasse al punto di ottenere la cittadinanza, così che, in segno di gratitudine, esercitasse il suo diritto di voto a favore dei loro “salvatori” democratici.

Se avessero avuto successo in questo senso, i democratici avrebbero ribaltato i totali delle votazioni in diversi stati e a livello federale, cosa che avrebbe richiesto molti anni ai repubblicani per raggiungere il pareggio. Cercando di ottenere il sostegno del Congresso e di importanti capi repubblicani per la sua riforma, il governo di Barack Obama ha esercitato una politica di mano dura al confine e ha eseguito deportazioni di immigrati privi di documenti in numero record, che gli sono valsi il soprannome di Deportante – Capo.

Queste azioni, tuttavia, sono state realizzate in mezzo alle contraddizioni che presupponevano programmi specifici diretti contro alcuni paesi che perseguivano obiettivi, molto ben calcolati, di destabilizzazione.

Da parte loro, i repubblicani, che nell’ultimo trimestre dell’amministrazione Obama, detenevano la maggioranza alla Camera e al Senato del Congresso USA, hanno più volte immaginato soluzioni parziali al problema, anche con un obiettivo elettorale, ma che spesso hanno fatto scontrare idirigenti federali con gli interessi di Stati specifici. Non sono stati in grado di articolare alcun programma che potesse avvantaggiarli in termini di numero di voti a loro favore, a scapito della regolarizzazione migratoria di un gruppo umano, ma sì hanno lavorato intensamente con la dirigenza politica di diverse comunità di migranti, alla scopo di mobilitare gli stessi in tempo di elezioni.

In sintesi, fino al 2016 le principali forze politiche USA ragionavano l’equazione migratoria in termini di favori procedurali in cambio di voti. E’stato allora che è apparsa la terza visione di un imprenditore convertito in massimo dirigente esecutivo.

Donald Trump è stato un candidato che ha capitalizzato i sentimenti di frustrazione dei settori economici danneggiati dalle politiche di libero scambio, in particolare la cosiddetta “vecchia economia”, che va dallo sfruttamento dei combustibili fossili fino all’agricoltura e all’edilizia.

Trump e la sua squadra non hanno mai aspirato a corteggiare gruppi di immigranti né altre minoranze. Hanno nucleato circa il 30-33% delle liste elettorali dietro la loro agenda, il che era di per sé sufficiente per collocare il loro rappresentante alla Casa Bianca.

Per Donald Trump, l’essenza del dibattito migratorio non era in termini di voti, bensì di come ridurre esponenzialmente il valore della forza lavoro immigrante non qualificata. Per questo ha scatenato un linguaggio di odio contro quella fascia di popolazione, ha svariato con l’idea del muro fortificato al confine con il Messico e ha mantenuto un alto tasso di deportazioni. Di conseguenza, l’immigrante non qualificato ha abbandonato l’attivismo sociale, ha accettato lo stesso lavoro per una retribuzione inferiore e ha vissuto nella paura costante. Ma sotto questo manto di atteggiamento verticale contro una “minaccia”, è continuato a verificarsi il flusso di scienziati, professori, medici, informatici e altri specialisti verso l’interno degli USA, per soddisfare le richieste delle industrie ad alta tecnologia e di altre istituzioni del settore più avanzato dell’economia.

Sulla base dei risultati delle elezioni del 2020, l’ascesa al potere di Joe Biden ed il ritorno alle proposte democratiche precedenti il 2016, si sono generate un gruppo di iniziative sconnesse sul tema migratorio, di cui nessuna ha attaccato le cause profonde di quel disordinato movimento umano. Al contrario, queste azioni, nel loro sviluppo parallelo, hanno aumentato e non diminuito i flussi migratori attraverso la frontiera meridionale.

Il caso Cuba

Uno degli ultimi memorandum d’intesa firmati dal governo di Barack Obama e dal governo cubano, nel gennaio 2017, riguardava proprio il tema migratorio che, in un certo senso, riassumeva l’esperienza di precedenti iniziative simili (1984, 1994, 1995) e altre misure specifiche. L’attuazione del pacchetto di decisioni contenute nell’accordo è stata la ragione principale per cui, durante il 2018, si è registrata un’emigrazione clandestina, da Cuba verso gli USA, vicina allo zero.

Questo accordo è stato raggiunto e ha iniziato ad essere attuato in un contesto in cui sono stati posti in vigore e ampliati i voli commerciali regolari tra i due paesi, stabilizzato il flusso di navi da crociera e hanno avuto luogo un insieme di azioni di scambio popolo-popolo che hanno favorito e non hanno impedito un movimento umano prevedibile, ordinato e sicuro.

Ma il panorama è cambiato drammaticamente, prima con la chiusura dell’ufficio consolare USA all’Avana, il mancato rispetto da parte USA degli obblighi previsti dagli accordi migratori e infine con la brusca interruzione della circolazione di aerei e navi tra i due paesi. A ciò si sono aggiunte una serie di misure di soffocamento economico contro l’Isola, che hanno portato la sua popolazione al limite esistenziale al combinarsi con gli effetti della pandemia di COVID19.

Come risultato, si stima che mezzo milione di cubani abbiano lasciato legalmente il loro paese d’origine o abbandonato altri luoghi di residenza temporanea (Europa, America Latina), tra il 2021 e il 2023, e hanno avuto accesso alla frontiera Messico-USA con l’aiuto di coyote (contrabbandieri) e trafficanti locali. All’arrivo ai posti di frontiera, i loro compagni guatemaltechi, honduregni e di altre provenienze sono stati per lo più respinti, ma i cubani sono stati ammessi con la presunzione del “timore credibile” per le conseguenze di essere riportati nel loro paese.

Si tratta di una cifra realmente elevata, ma che si relativizza se paragonata al numero di cubani che si recavano ogni anno negli USA per visite temporanee prima della chiusura di Trump.

Oltre al fatto che i cittadini di origine cubana continuano a godere di alcuni privilegi rispetto al resto dei potenziali migranti, grazie a quanto stipulato nella cosiddetta Legge di Aggiustamento Cubano, del 2 novembre 1966, altre realtà pesavano su questi trattamenti “preferenziali”.

Gli USA sono un Paese con un deficit di professionisti in settori quali la sanità (deficit di 124000 medici nei prossimi 10 anni), istruzione (51000 insegnanti hanno lasciato il loro posto nel solo 2023 e l’86% delle scuole hanno un organico incompleto), informatica e comunicazione (il settore richiede 750000 professionisti solo in termini di cybersecurity). Sono proprio queste aree di conoscenza in cui Cuba prepara specialisti che si distinguono dalla media regionale e che accedono al mercato USA attraverso i canali dell’immigrazione illegale e che, per questo, sono disposti ad accettare posti di lavoro per una retribuzione inferiore rispetto ai professionisti che provengono da altre latitudini.

Lo scenario post-2024

In vista delle elezioni presidenziali del novembre 2024, è emersa una nuova dinamica che potrebbe determinare il trattamento della questione da parte di qualsiasi governo eletto in tali elezioni. Le autorità statali dei territori di confine con il Messico, in particolare quelle del Texas, hanno iniziato ad assumere un ruolo di primo piano nel contrastare l’immigrazione clandestina che si avvicina ad un atteggiamento di ribellione nei confronti delle autorità federali.

Il fatto di distribuire verso vari stati, via aerea e via terra, i nuovi arrivati ​​privi di documenti oltre ad assumere la responsabilità del controllo delle frontiere a scapito delle capacità delle agenzie federali, aggiungono una nuova contraddizione a una situazione già molto complessa.

Il ruolo da protagonista del governatore del Texas ha ricevuto il sostegno di altri 25 omologhi repubblicani, in contrasto con un presunto accordo che entrambe i partiti stavano negoziando al Senato federale. Il fatto è servito all’ancora candidato Donald Trump per ossigenare ulteriormente il sostegno delle sue basi nel Sud degli USA e per segnare il terreno di fronte ad un Joe Biden equivoco ed incoerente.

Questi politici rappresentano aree del Paese con una domanda diseguale di manodopera importata e diseguali tempi, ritmi e costi di assimilazione dei nuovi arrivati ​​nei loro tessuti sociali.

Queste contraddizioni non scompariranno con il passaggio delle elezioni presidenziali. Qualunque sia l’esito, gli USA manterranno pratiche discriminatorie di fronte al fenomeno dell’immigrazione clandestina, criminalizzando coloro che hanno qualifiche e opportunità economiche inferiori, mentre incoraggeranno l’ingresso di specialisti altamente qualificati in settori chiave per la loro economia, attraverso programmi federali.

C’è da aspettarsi che in modo pratico, anche senza modificare leggi e norme, si vadano eliminando i privilegi esistenti riguardo gruppi specifici di migranti per nazionalità, che si sono determinati solo per ragioni di politica estera.


Migración, Trump, Biden y lo que vendrá

Por: José Ramón Cabañas Rodríguez

En el abordaje de la cuestión migratoria en Estados Unidos comúnmente se incurre en dos errores: uno considerar que el país rechaza los flujos inmigratorios con carácter permanente y, segundo, estimar que uno u otro partido federal es pro o anti migrantes.

Estados Unidos se formó como país a partir de un influjo de inmigrantes que subyugó y despojó de sus territorios originales a la población autóctona. El crecimiento actual de su economía se detendría en seco si tal flujo se detuviera. La acción ejecutiva fundamental en ese tema es tratar de regular los flujos y hacerlos previsibles, para que puedan ser acompañados tanto por fondos federales, como por los presupuestos de las empresas privadas, que permitan una asimilación ordenada por parte de la sociedad.

Un documento del Instituto Cato caracterizó recientemente la contradicción que enfrenta Estados Unidos en el tratamiento del tema migratorio, al decir que la economía estadounidense estaba en expansión, lo cual genera de por sí una demanda de fuerza de trabajo no calificada, que al mismo tiempo no encuentra formas legales de ingresar al país.

Por esta razón, los migrantes que llegan sobre todo desde países cercanos del Caribe, Centro y Sur América no contarían con otra opción práctica que no sea intentar cruzar la frontera de forma ilegal, con la ayuda de redes firmemente establecidas para el tráfico de personas.

A las razones mencionadas por el dicho instituto habría que agregar los factores de impulso que están presentes en los países de origen, como pueden ser el subdesarrollo, la corrupción y el efecto de las medidas coercitivas unilaterales como en los casos de Venezuela y Cuba.

Hasta el año 2016 el debate migratorio entre políticos demócratas y republicanos estaba más relacionado con qué tratamiento  se debía brindar a los inmigrantes indocumentados que ya residían al interior de Estados Unidos, más que a regular la magnitud de la masa humana que transitaba sin visas, o sin documentos de identidad, por las fronteras terrestres o marítimas.

Los propósitos de la llamada reforma migratoria planteada por los demócratas estaban dirigidos a regularizar la situación legal de alrededor de 12 millones de personas que habitaban en el país, pero sin documentos que probaran su condición de residentes o de ciudadanos. El objetivo último era que una buena parte de dicho total llegara hasta el punto de obtener la ciudadanía, de manera que, en agradecimiento, ejerciera su derecho al voto a favor de sus “salvadores” demócratas.

De haber tenido éxito en ese sentido, los demócratas hubieran dado un giro a los totales de votación en varios estados y a nivel federal, que los republicanos habrían tardado muchos años en balancear. Tratando de lograr el respaldo del Congreso y de importantes líderes republicanos para su reforma, el gobierno de Barack Obama ejerció una política de mano dura en la frontera y ejecutó deportaciones de indocumentados en cifras record, que le ganaron el apelativo de Deportador en Jefe.

Esas acciones se ejecutaron, sin embargo, en medio de las contradicciones que presuponían programas específicos dirigidos contra determinados países que perseguían objetivos muy bien calculados de desestabilización.

Por su parte, los republicanos, que contaron con mayoría en la Cámara y el Senado del Congreso estadounidenses en el último cuarto del gobierno de Obama imaginaron una y otra vez soluciones parciales al problema, también con un objetivo electoral, pero que muchas veces enfrentaron a líderes federales con los intereses de estados específicos. No lograron articular ningún programa que los beneficiara en cuanto a cantidades de votos a su favor, a costa de la regularización migratoria de un grupo humano, pero sí trabajaron intensamente con el liderazgo político de varias comunidades de migrantes, con el objetivo de movilizar a los mismos en tiempos de comicios.

En resumen, hasta el 2016 las principales fuerzas políticas estadounidenses razonaban la ecuación  migratoria en términos de favores procesales a cambio de votos. Fue entonces que apareció la tercera visión de un empresario convertido en máximo ejecutivo.

Donald Trump fue un candidato que capitalizó los sentimientos de frustración de los sectores económicos que fueron perjudicados con las políticas del libre comercio, en especial la llamada “vieja economía”, dentro de la que se cuenta desde la explotación de los combustibles fósiles, hasta la agricultura y la construcción.

Trump y su equipo nunca aspiraron a cortejar a grupos de inmigrantes, ni otras minorías. Nuclearon tras su agenda a un aproximado del 30 al 33% del padrón electoral, que era suficiente por sí mismo para situar a su representante en la Casa Blanca.

Para Donald Trump la esencia del debate migratorio no era en términos de votos, sino cómo reducir exponencialmente el valor de la fuerza de trabajo inmigrante no calificada. Por ello desató un lenguaje de odio contra ese grupo poblacional, devarió con la idea del muro fortificado en la frontera con México y mantuvo un alto ritmo de deportaciones. Como consecuencia el inmigrante no calificado abandonó el activismo social, aceptó el mismo empleo por menor paga y vivió en medio de un miedo constante. Pero bajo ese manto de actitud vertical contra una “amenaza”, se continuó produciendo el flujo de científicos, profesores, médicos, informáticos y otros especialistas hacia el interior de Estados Unidos, para satisfacer las demandas de industrias de alta tecnología y otras instituciones del sector más avanzado de la economía.

A partir de los resultados de las elecciones del 2020, el acceso de Joe Biden al poder y el retorno a las propuestas demócratas previas al 2016, se generaron un grupo de iniciativas inconexas en el tema migratorio, de las cuales ninguna atacaba de raíz las causas de ese movimiento humano desordenado. Muy por el contrario, esas acciones en su desarrollo en paralelo aumentaron y no disminuyeron los flujos migratorios por la frontera sur.

El caso de Cuba

Uno de los últimos memorandos de entendimiento firmados en el gobierno de Barack Obama y el gobierno cubano en enero del 2017 fue precisamente en el tema migratorio, el cual resumía en cierta manera la experiencia de iniciativas similares anteriores (1984, 1994, 1995) y otras medidas específicas. La puesta en práctica del paquete de decisiones que el acuerdo contenía fue la razón principal para que durante el año 2018 se registrara una emigración indocumentada cercana a cero desde Cuba hacia los Estados Unidos.

Este acuerdo se alcanzó y se comenzó a implementar en un contexto en el cual se ponían en vigor y se ampliaban los vuelos comerciales regulares entre ambos países, se estabilizó el flujo de cruceros y tuvieron lugar un grupo de acciones de intercambio pueblo a pueblo que favorecían y no impedían un movimiento humano previsible, ordenado y seguro.

Pero el panorama cambió dramáticamente primero con el cierre de la oficina consular estadounidense en La Habana, el incumplimiento por parte de Estados Unidos de sus obligaciones previstas en los acuerdos migratorios, y finalmente con la brusca detención del movimiento de aeronaves y embarcaciones entre ambos países. A ello se agregaron un rosario de medidas de asfixia económica contra la Isla, que llevaron a su población a un límite existencial al combinarse con los efectos de la pandemia de COVID19.

Como resultado, se estima que medio millón de cubanos salieron por medios legales de su país de origen o abandonaron otros lugares de residencia temporal (Europa, América Latina) entre el 2021 y el 2023 y accedieron a la frontera mexicano-estadounidense con la ayuda de coyotes y traficantes locales. Al arribar a los puestos fronterizos sus acompañantes guatemaltecos, hondureños y de otras procedencias eran rechazados en su mayoría, pero los cubanos eran admitidos bajo la presunción del “miedo creíble” a las consecuencias de ser retornados a su país.

Se trata de una cifra realmente alta, pero que se relativiza cuando se compara con la cantidad de cubanos que viajaron anualmente a EE UU para visitas temporales antes del cierre trumpista.

Además de que los ciudadanos de origen cubano siguen gozando de ciertos privilegios ante el resto de los potenciales migrantes, gracias a lo estipulado en la llamada Ley de Ajuste Cubano del 2 de noviembre de 1966, otras realidades pesaban para dicho trato “preferencial”.

Estados Unidos es un país con un déficit de profesionales en áreas como las de salud (déficit de 124 000 médicos en los próximos 10 años), educación (51 000 profesores abandonaron sus plazas sólo en el 2023 y el 86% de las escuelas tienen plantilla incompleta) informática y comunicaciones (el sector demanda 750 000 profesionales sólo en lo relativo a ciberseguridad). Se trata precisamente de áreas del conocimiento en las que Cuba prepara especialistas que se destacan de la media regional y que acceden al mercado estadounidense por los canales del inmigrante ilegal y que, por tanto, están dispuestos a aceptar puestos de trabajo por una remuneración menor a los profesionales que provienen de otras latitudes.

El escenario post 2024

De camino hacia las elecciones presidenciales de noviembre del 2024 ha surgido una nueva dinámica que podría determinar el tratamiento que le de al asunto cualquier gobierno que salga electo en dichos comicios. Las autoridades estaduales de los territorios fronterizos con México, particularmente las de Texas, han comenzado a asumir un protagonismo en el enfrentamiento a la inmigración indocumentada que se acerca a una actitud de desacato ante las autoridades federales.

El hecho de diseminar hacia varios estados, por vía aérea y terrestre a los recién llegados indocumentados, más asumir la responsabilidad del control de la frontera en detrimento de las capacidades de las agencias federales, agregan un nueva contradicción a una ya bien compleja situación.

La actitud protagónica del gobernador texano recibió el respaldo de otros 25 homólogos republicanos, en contraposición con un supuesto acuerdo que negociaban ambos partidos en el senado federal. El hecho ha sido utilizado por el aún candidato Donald Trump para oxigenar aún más el apoyo de sus bases en el Sur de Estados Unidos y para marcar el terreno ante un Joe Biden equívoco e incoherente.

Aquellos políticos representan  zonas del país con demanda desigual de fuerza de trabajo importada y desiguales tiempos, ritmos y costos de asimilación de los recién llegados en sus tejidos sociales.

Estas contradicciones no desaparecerán con el paso de las elecciones presidenciales. Cualquiera que sea su resultado, Estados Unidos mantendrá prácticas discriminatorias ante el fenómeno de la inmigración indocumentada, criminalizando a aquellos de menor calificación y oportunidades económicas, mientras que fomentará la entrada de especialistas de alta preparación en sectores clave para su economía, a través de programas federales.

Es de esperar que de forma práctica, aún sin modificar leyes y normas, se vayan eliminando privilegios existentes respecto a grupos de migrantes específicos por nacionalidades, que se han determinado solo por razones de política exterior.

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