Mappa della sconfitta della destra

Marco Teruggi https://hastaelnocau.wordpress.com

In questo momento la destra doveva stare, secondo i suoi calcoli, in una posizione di forza totalmente diversa. O seduta a Palazzo Miraflores, o nel dispiegamento di un governo parallelo combinato con mobilitazioni di masse ed azioni violente, incluse militari. Si era posta la scommessa tutto o niente/ora o mai più, e ora si trova in una disputa interna per vedere come proseguire, e non terminare in situazione peggiore che all’inizio dell’escalation dei cento giorni.

Successe ciò che è solito succedergli: si sbagliarono nelle loro analisi. Sovrastimarono la propria forza, sottovalutarono il chavismo, lessero in modo errato lo stato d’animo delle masse, calcolarono male le coordinate del campo di battaglia. E nelle battaglie le responsabilità sono collettive ma differenziate: il peso maggiore ricade sui generali -così lo insegna, tra altri, il libro ‘La strana sconfitta’, di Marc Bloch-. Perché si ebbe una sconfitta, tattica nel quadro di un prolungato equilibrio instabile, ma sconfitta infine, e ciò porta cambi, fratture, sbandamenti e cambi di posizione.

Perché valutarono in modo errato le condizioni per la presa del potere in modo violento? Si combinano diversi elementi. In primo luogo, la posizione di classe della dirigenza. La direzione del movimento era ed è nelle mani di uomini e donne della borghesia, dell’oligarchia, quadri per lo più di classe medio-alta, formati in tale politica ed immaginario. Sarebbe falso dire che non hanno sviluppato strutture in alcune zone popolari, ma non sembrano di direzione, e sono minoritarie. A questo elemento s’aggiunge un altro, aggravante per i loro calcoli: una parte della loro direzione, sia venezuelana che USA, è all’estero, in particolare negli USA.

Queste letture, segnate da una distanza di classe e di paese, si allargarono per l’effetto boomerang di una delle sue forze: i social network. Presunsero che la dinamica espressa nelle reti era rappresentativa dello stato d’animo delle maggioranze. Pensarono che la capacità dispiegata -con milioni di dollari- in twitter, facebook, instagram, youtube, era ciò che realmente esisteva, che la radicalità lì espressa era la reale radicalità popolare.

Così credettero che il governo era sul punto di cadere, che il sostegno popolare era minoritario ed alle corde, che le masse scontente avrebbero accompagnato il suo appello alla piazza per liquidare il “regime” e che la sua stessa forza aveva la capacità di dispiegarsi sino a raggiungere la massa poli classista necessaria. Quella combinazione di elementi andava, a sua volta, a tenere incidenza sui fattori politici ed istituzionali del chavismo, che, vedendo l’inarrestabile ascesa delle masse, nella loro richiesta di elezioni generali, dovevano passare dall’altra parte. Avvenne solo con la Procuratrice Generale e alcuni dirigenti intermedi specifici -e non fu da parte delle masse, se non per calcolo e compravendita politica-. Il più importante in questo piano era la Forza Armata Nazionale bolivariana: non si ruppe.

Questi calcoli condussero a sostenere l’ipotesi della liquidazione violenta, per oltre un centinaio di giorni. Con punti chiave come l’annuncio che sarebbe stato eletto il prossimo presidente nelle elezioni primarie. Lo aveva proclamato Ramos Allup, il primo nel dire poi che parteciperà alle elezioni regionali. Tra un annuncio e l’altro trascorsero quindici giorni, e nel mezzo una data fondamentale: la vittoria elettorale del 30 luglio, con oltre 8 milioni di voti contro la violenza dell’opposizione ed a supporto di una soluzione democratica nelle mani del chavismo. La destra sconfessò pubblicamente i risultati, ma il suo impatto fu innegabile, aprì un rimescolamento di posizioni e cambiamento di tattica, in sviluppo.

Le conclusioni furono l’inverso delle loro premesse: il chavismo non era ko e diede una lezione storica; i settori popolari, nella loro maggioranza, osservarono da lontano la dirigenza dell’opposizione e rigettarono la violenza; la forza dell’opposizione -composta dalla sua base sociale estesa, i gruppi d’urto e settori paramilitari- non riuscì a rompere il quadro di stallo. Prendere il potere con la forza è insostenibile con tali coordinate. Caddero, allora, uno dopo l’altro nell’annuncio atteso: la partecipazione alle elezioni sotto l’ordinamento dello stesso stesso sistema elettorale che accusano di illegale, illegittimo e fraudolento. Freddy Guevara, di Voluntad Popular, ha già annunciato che la “strada è elettorale”.

Alcuni ancora non si sono pronunciati, risultato di disaccordi, incapacità per una disputa elettorale -come Maria Corina Machado- tensione con una base sociale defraudata a cui promisero un potere imminente per annunciargli, cento giorni dopo, una via elettorale e crisi interna. Questi mesi di escalation riconfigurano la mappa interna della destra che sembra consistere in tre settori che, benché sostengono differenti posizioni -per pragmatismo o convinzione-, non sembrano avere confini tanto chiari.

1. Il primo è formato dai partiti della destra più storica come Azione Democratica, guidata da Ramos Allup, che, benché accompagnò l’escalation di violenza, la sua scommessa risiede e risiedeva nella strategia dell’usura del governo -particolarmente per l’effetto degli attacchi economici- al fine di accumulare, in voti, il malcontento popolare e puntare su vittorie elettorali.

2. Il secondo è diretto, per esempio, da Voluntad Popular e Primero Justicia -i cui dirigenti sono inabilitati a candidarsi- e che puntò all’uscita di forza, lavorò alla formazione/finanziamento/addestramento di gruppi d’urto, e si vincolò, in modo diretto, con settori paramilitari.

3. Il terzo gruppo è quello che si è autodefinito “resistenza” e si è moltiplicato con diversi nomi a seconda le zone del paese. Il discorso è il rifiuto del tradimento dei dirigenti che accettarono di andare alle elezioni, la necessità di una escalation nello scontro di strada e la rivendicazione delle azioni di violenza -come gli attacchi il giorno delle elezioni-. I suoi spazi comunicativi sono centralmente i social network e Miami. E’ difficile sapere se si tratta di un processo di relativa spontaneità, o la “resistenza” fu creata per realizzare azioni pianificate, ad esempio, dal secondo settore, sotto altra identità. Quanti sono, chi dirigono? Secondo alcune dichiarazioni da Miami, sono gruppi sparsi che non hanno alcun centro di comando.

Da questa analisi si può comprendere, per esempio, l’azione di domenica a Fort Paramacay. Non si tratta, come gli attacchi alle caserme durante i mesi di maggio/giugno/luglio di misure nel contesto di un’escalation che cerca di intrappolare, di offensiva. Sembrerebbe piuttosto un tentativo di mantenere misure di grande impatto -con forte ripercussione internazionale- con la preparazione dei gruppi più radicali. La responsabilità del fatto dovrebbe cercarsi nel terzo settore, -che sembra essere legato, di nascosto, al secondo, ed a dirigenti della destra come il senatore USA Marco Rubio-. Sicuramente cerchino più azioni come questa, o maggiori. Ci sono sintomi di disperazione, e ciò può portare violenza e scommesse più radicali.

A questo quadro devono aggiungersi le due principali linee di forza della destra: l’economica ed il fronte internazionale. Nel primo caso si è visto come dopo il 30 luglio si produsse un attacco frontale contro la moneta all’aumentare vertiginosamente il dollaro parallelo. L’obiettivo è sparar fuori i prezzi, logorare la popolazione, distanziarla in tal modo dal governo, aggravare il quadro di difficoltà materiale, cercare di asfissiare la quotidianità delle classi popolari. Per quanto riguarda l’internazionale, l’escalation continua diretta dagli USA, con il centrale supporto della Colombia e dei governi subordinati della regione.

Il risultato è che la destra è ritornata a dipendere da due strategie che esprimono la sua incapacità. Una è quella di colpire la popolazione per portarla alla disperazione e cercare di tradurre questa situazione in voti. L’altra è quella di richiedere un intervento USA, mascherato nella forma che sia necessario. Tale realtà è un segno di debolezza, non di forza.

L’elezione del 30 luglio è stata una vittoria tattica del chavismo. Tale nuova situazione dentro l’instabile equilibrio portò effetti dentro una destra che tornò a sbagliarsi rabbiosamente nella sua analisi del campo di battaglia. Tale vantaggio chavista deve essere tradotto in azione urgente. La principale, oltre la giustizia, è quella economica e, si sa, l’economia è concentrazione della politica. Lì sembra stare la sfida centrale della rivoluzione.


Mapa de la derrota de la derecha

Marco Teruggi

A esta hora la derecha debía estar, según sus cálculos, en una posición de fuerza totalmente diferente. O sentada en el Palacio de Miraflores, o en el despliegue de un gobierno paralelo combinado con movilizaciones de masas y acciones violentas, incluidas militares. Se había planteado la apuesta a todo o nada/ahora o nunca, y hoy se encuentra en una disputa interna para ver cómo seguir, y no terminar peor que al iniciar la escalada de los cien días.

Pasó lo que les suele pasar: se equivocaron en sus análisis. Sobrestimaron la fuerza propia, subestimaron al chavismo, leyeron de manera errada el estado de ánimo de las masas, calcularon mal las coordenadas del campo de batalla. Y en las batallas las responsabilidades son colectivas pero diferenciadas: el peso mayor recae sobre los generales -así lo enseña, entre otros, el libro La extraña derrota, de Marc Bloch-. Porque hubo una derrota, táctica en el marco de un equilibrio inestable prolongado, pero derrota al fin, y eso trae cambios, facturas, desbandadas y cambios de posiciones.

¿Por qué evaluaron de manera equivocada las condiciones para la toma del poder de manera violenta? Se combinan varios elementos. En primer lugar, la posición de clase de la dirigencia. La dirección del movimiento estuvo y está en manos de hombres y mujeres de la burguesía, la oligarquía, cuadros en su mayoría de clase media-alta, formados en esa política e imaginario. Sería falso decir que no han desarrollado estructuras en algunas zonas populares, pero no parecen de dirección, y son minoritarias. A ese elemento se suma otro, agravante para sus cálculos: una parte de su dirección, tanto venezolana como norteamericana, se encuentra en el extranjero, en particular en Estados Unidos.

Esas lecturas, marcadas por una distancia de clase y de país, se ensancharon por el efecto boomerang de una sus fuerzas: las redes sociales. Asumieron que la dinámica expresada en las redes era representativa del estado de ánimo de las mayorías. Pensaron que la capacidad desplegada -con millones de dólares- en twitter, facebook, instagram, youtube, era la que realmente existía, que la radicalidad allí expresada era la radicalidad popular real.

De esa manera creyeron que el gobierno estaba a un empujón de caer, que su respaldo popular era minoritario y contralascuerdas, que las masas descontentas acompañarían su llamado a la calle para sacar al “régimen”, y que su propia fuerza tenía capacidad de desplegarse hasta alcanzar la masividad policlasista y nacional necesaria. Esa combinación de elementos iba a tener a su vez incidencia sobre factores políticos e institucionales del chavismo, que, al ver el ascenso irrefrenable de las masas en su pedido de elecciones generales, se iban a cambiar de bando. Solo sucedió con la Fiscal General y algunos dirigentes intermedios puntuales -y no fue por las masas sino por cálculo y compra política-. Lo más importante en ese plan era la Fuerza Armada Nacional Bolivariana: no se quebró.

Esos cálculos condujeron a sostener la hipótesis de la salida violenta durante más de cien días. Con puntos clave como el anuncio de que sería elegido el próximo presidente en elecciones primarias. Lo había proclamado Ramos Allup, el primero en decir luego que participará en las elecciones regionales. Entre un anuncio y el otro pasaron quince días, y en el medio una fecha clave: la victoria electoral del 30 de julio, con más de 8 millones de votos en contra de la violencia opositora y en respaldo a una solución democrática en manos del chavismo. La derecha desconoció públicamente los resultados, pero su impacto fue innegable, abrió un reacomodo de posiciones y cambio de táctica en desarrollo.

Las conclusiones fueron la inversión de sus premisas: el chavismo no estaba nocau y dio una lección histórica, los sectores populares miraron en su mayoría desde lejos a la dirigencia opositora y rechazaron la violencia, la fuerza propia -compuesta por su base social ampliada, los grupos de choques, y sectores paramilitares- no alcanzó a quebrar el cuadro de empate. Tomar el poder por la fuerza es insostenible con esas coordenadas. Cayeron entonces uno tras otro en el anuncio esperado: la participación en las elecciones bajo el ordenamiento del mismo poder electoral que acusan de ilegal, ilegítimo y fraudulento. Freddy Guevara, de Voluntad Popular, ya anunció que el “camino es electoral”.

Algunos todavía no se han pronunciado, producto de desacuerdos, incapacidad para una disputa electoral -como María Corina Machado-, tensión con una base social defraudada a la cual le prometieron un poder inminente para anunciarle cien días después una vía electoral, y crisis interna. Estos meses de escalada reconfiguraron el mapa interno de la derecha, que parece compuesta por tres sectores, que, aunque sostienen posiciones diferentes -por pragmatismo o convicción-, no parecen tener fronteras tan claras.

  1. El primero está conformado por los partidos de derecha más históricos, como Acción Democrática presidido por Ramos Allup, que, aunque acompañó la escalada de violencia, su apuesta reside y residió en la estrategia del desgaste del gobierno -en particular por el efecto de los ataques económicos- para acumular en votos el descontento popular, y apostar a victorias electorales.

2.El segundo está dirigido, por ejemplo, por Voluntad Popular y Primero Justicia -cuyos dirigentes están inhabilitados para presentarse como candidatos- y fue quien apostó a la salida por la fuerza, trabajó en la conformación/financiamiento/entrenamiento de grupos de choque, y se vinculó de manera directa con sectores paramilitares.

  1. El tercer grupo es el que se ha autodenominado “resistencia” y se ha multiplicado en varios nombres según las zonas del país. El discurso es el del rechazo a la traición de los dirigentes que aceptaron ir a las elecciones, la necesidad de escalar en la confrontación callejera, y la reivindicación de las acciones de violencia -como los ataques el día de las elecciones-. Sus espacios comunicacionales son centralmente las redes sociales y Miami. Resulta difícil saber si se trata de un proceso de relativa espontaneidad, o la “resistencia” fue creada para desplegar acciones planificadas, por ejemplo, por el segundo sector, bajo otra identidad. ¿Cuánto son, quiénes dirigen? Según algunas propias declaraciones maiameras, son grupos dispersos que no tienen centro de mando.

    Desde ese análisis se puede entender por ejemplo la acción del domingo en Fuerte Paramacay. No se trata, como los ataques a cuarteles durante los meses de mayo/junio/julio, de medidas en el marco de una escalada que busca acorralar, de ofensiva. Pareciera más bien un intento de mantener medidas de alto impacto -con fuerte repercusión internacional- junto con la preparación de los grupos más radicales. La autoría del hecho debería buscarse en el tercer sector -que parece vinculado, por debajo de la mesa, al segundo, y a dirigentes de la derecha como el senador norteamericano Marco Rubio-. Seguramente intenten más acciones como esta, o mayores. Hay síntomas de desesperación, y eso puede traer violencia y apuestas más radicales.

A este cuadro deben agregarse las dos principales líneas de fuerza de la derecha: la económica y el frente internacional. En el primer caso se ha visto como luego del 30 de julio se produjo un ataque frontal contra la moneda al aumentar vertiginosamente el dólar paralelo. El objetivo es disparar los precios, desgastar a la población, distanciarla de esa manera del gobierno, agravar el cuadro de dificultad material, intentar asfixiar los cotidianos de las clases populares. En cuanto a lo internacional, la escalada sigue dirigida desde los Estados Unidos, con apoyo central desde Colombia y los gobiernos subordinados de la región.

El resultado es que la derecha ha vuelto a depender de dos estrategias que expresan su incapacidad. Una es golpear a la población para llevarla al desespero e intentar traducir esa situación en votos. La otra es pedir la intervención norteamericana, disfrazada de la forma que sea necesaria. Esa realidad es muestra de debilidad y no de fuerza.

La elección del 30 de julio fue una victoria táctica del chavismo. Esa nueva situación dentro del equilibrio inestable trajo efectos dentro de una derecha que volvió a equivocarse furiosamente en su análisis del campo de batalla. Esa ventaja chavista debe ser traducida en acciones urgentes. La principal, además de la justicia, es la económica, y, se sabe, la economía es concentración de política. Ahí parece estar el desafío central de la revolución.

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