Dal 5 agosto 1994 ad oggi: Fidel Castro e la politica come contro-golpe

L’applauso totale ed il nome ripetuto, 27 anni fa, nel Prado e Malecón è esploso, lo scorso 11 luglio, con la stessa forza di allora, e non mento se dico che ho visto, davanti all’immagine del Comandante circondato da bandiere cubane, retrocedere un gruppo di coloro che venivano dal fallimento nel tentativo di prendere il Campidoglio dell’Avana

Iroel Sánchez  www.granma.cu

A Cuba, nell’estate del 1994, il panorama economico dopo l’impatto della scomparsa del commercio con l’URSS, che aveva spazzato via oltre il 70% degli introiti in valuta estera del paese, non potevano essere peggiore: le interruzioni dell’elettricità si prolungavano per più di 12 ore, una ridotta alimentazione convertì una litania della telenovela di turno – «ragazza, saluta il tuo fidanzato» – in sinonimo di riso con fagioli, il piatto più frequente, insieme ad invenzioni creole come il macinato di soia e la pasta d’oca, mentre l’accesso alle poche caffetterie che vendevano hamburger era distribuito dai CDR, con priorità alle donne incinte ed agli anziani. Il trasporto pubblico era praticamente scomparso, per essere sostituito dall’uso massiccio della bicicletta, in contraddizione con una alimentazione che andava diminuendo giorno dopo giorno. Le solitarie lattine di vongole nelle vetrine furono l’ultima testimonianza di un mercato statale in pesos cubani che in precedenza era da complemento, in modo soddisfacente, alla cosiddetta libreta di rifornimento (tessera annonaria).

Dal 26 luglio 1993 si era depenalizzato il dollaro e la minoranza con accesso ad esso la passavano un poco meglio, anche se i tagli alla corrente colpivano tutti allo stesso modo. I parlamenti operai, nominati così da Fidel con tutte le intenzioni classiste, avevano approvato una serie di provvedimenti che, alla fine, avrebbero rivalutato il peso cubano che, all’epoca, era scambiato a 150 per dollaro, e avrebbero permesso di intraprendere il recupero; ma in quei momenti, la disperazione, l’irritazione ed il malcontento potevano formare una massa critica per ciò che, a Miami, desiderava da decenni ed un giornalista, che ha ancora la faccia tosta per continuare a pubblicare articoli su media come El Nuevo Herald, pensava che si sarebbe consacrato scrivendo un libro intitolato ‘L’ultima ora di Fidel Castro’.

Da alcune settimane i sequestri di imbarcazioni, incoraggiati dalle trasmissioni radiofoniche dagli USA, avevano creato una situazione di tensione nei comuni vicini al porto dell’Avana. La mattina del 5 agosto 1994, presso la sede del Comitato dell’UJC provinciale, discutevamo appassionatamente se dovessimo passare o meno dalla denuncia alla mobilitazione, quando la realtà impose il suo ritmo e decidemmo dirigerci verso il Comitato Nazionale della nostra organizzazione, situato proprio all’ingresso dell’Avenida del Puerto.

Il primo brivido fu  quando vidi una donna gridare a qualcuno che ci passava davanti, in via San Lázaro, diretto all’Avana Vecchia, nel sidecar di una moto: “Togliti quella maglia che ti uccideranno”. Lei, indubbiamente pensava che, in quelle circostanze, le parole scritte sugli abiti di quell’uomo potessero fare la differenza tra la vita e la morte ed io, che indossavo una muta camicia a righe, ma tante volte avevo gridato quello che diceva il pullover dell’uomo, lo guardai per un attimo, non senza stupore, pensando che il logo che esibiva il veicolo su cui viaggiavamo potesse portarci la stessa sorte di chi lo preannunciava, la terrorizzata passante, all’accompagnante del motociclista che ci aveva preceduto per le, anteriormente tranquille,  strade di centro Avana.

Alcuni contenitori dell’immondizia, suppongo piazzati da coloro che iniziarono gli incidenti, cercavano di bloccare il traffico, ma siamo arrivati ​​a destinazione. Nelle vicinanze del Comitato Nazionale dell’UJC (Avenida de las Misiones, Prado e Avenida del Puerto, e Parque Máximo Gómez) si vedevano molte persone che, ovviamente, per ciò che gridavano, non erano della nostra parte; altre, in qualità di curiosi, osservavano in silenzio, e un solitario poliziotto sparava in aria proteggendo la sua auto di pattuglia, parcheggiata vicino al Castillo de La Punta.

Il gruppo che si era radunato lì – quadri e lavoratori di diverse unità dell’UJC, tra cui c’ero io – cominciò a muoversi gridando slogan rivoluzionari, di cui il più ripetuto era Viva Fidel! Ancora in minoranza, verifichiamo come stavamo guadagnando terreno, alcuni osservavano in silenzio ed altri si ritiravano, le pietre piovevano intorno a noi, ma nessuno ci affrontava direttamente, e così siamo arrivati ​​all’angolo tra Prado e Malecón, dove abbiamo visto arrivare camion del Contingente Blas Roca, uno dei suoi membri, abbiamo poi appreso, che quel giorno, perse un occhio colpito da oggetti che gli erano stati lanciati contro da un edificio vicino.

Salendo per Prado la situazione era confusa. Migliaia di persone occupavano la strada, quando diverse voci cominciarono a dire che da lì veniva Fidel. Ci vollero pochi secondi finché, effettivamente, le tre jeep verde oliva, coperte di tela e assolutamente vulnerabili a qualsiasi violenza, sbucarono in mezzo al tumulto, ed il Comandante scese dalla seconda di esse. D’incanto scomparvero le pietre e un enorme ruggito inondò le nostre gole, già per sempre sicure della vittoria: “Fidel! Fidel!” In mezzo a quella massa incontrollata, chiunque poteva avvicinarsi a meno di un metro dalla sua persona per fargli violenza e sparare l’odio inoculato, per tanto tempo, dalle menzogne ​​e dalla propaganda, ma lui era lì: sereno, parlando piano e sottovoce, chiedendo della situazione in altri luoghi vicini, dicendo che i morti era preferibili che li ponessimo noi, e sicuramente già pensando al contro-golpe che avrebbe dato all’impero, per trasformare ancora una volta la sconfitta in vittoria. Fu lì che iniziò una sistematica offensiva contro la politica USA verso Cuba, che sarebbe proseguita in diverse apparizioni televisive che avrebbero messo sulla difensiva il governo di Bill Clinton, costringendolo a firmare, a breve, un accordo migratorio.

Appena una settimana dopo, il 13 agosto, giorno del suo compleanno, l’UJC organizzò un concerto nello stesso angolo di Prado e Malecón in cui vari dei musicisti partecipanti terminarono le loro esibizioni con lo stesso Viva Fidel! che aveva risuonato, giorni prima, in quelle ore tremende. Nel primo anniversario di quegli eventi, parlando nello stesso luogo, il Comandante avrebbe chiuso una marcia che, come parte del Festival Internazionale Giovanile della Solidarietà Cuba Vive, aveva percorso il litorale dell’Avana da Calle G sino a La Punta. Con le sue parole, chiese la ripresa dei Festival Mondiali della Gioventù e degli Studenti, come teatro di lotta per la pace e la solidarietà antimperialista. I giovani assistenti, come in Cuba Vive, avrebbero  alloggiato nelle case degli avaneri, e avrebbero condiviso con loro una settimana di attività politiche e sociali. Il contro-golpe fidelista continuò ad avanzare e, come al solito, non si accontentava di resistere all’imperialismo o di sconfiggerlo a Cuba. Il suo campo di battaglia era il mondo, e lì competeva, ancora una volta, per l’egemonia.

Lo scorso 11 luglio mi sono ricordato di quel 5 agosto, quando nell’angolo dell’Avana, tra Galiano e Neptuno, ho visto l’arrivo e sollevarsi – insieme a coloro guidati dall’Eroe della Repubblica e coordinatore nazionale dei CDR, Gerardo Hernández, abbiamo difeso, in quel luogo, la Rivoluzione – una foto di Fidel: L’applauso totale ed il nome ripetuto 27 anni fa a Prado e Malecón sono esplosi con la stessa forza di allora, e non mento se dico che ho visto, davanti all’immagine del Comandante circondato da bandiere cubane, retrocedere un gruppo di coloro che venivano dal fallito tentativo di prendere il Campidoglio dell’Avana, e desistere dal salire per Calle Neptuno.

E’ che il contro-golpe fidelista è ancora vivo e ci accompagna nelle battaglie di oggi. Me lo sono ricordato di nuovo quando, alle Olimpiadi di Tokyo, Julio César La Cruz ha detto esattamente ciò che quella maglietta che indossava lo sconosciuto compagno al quale hanno gridato “ti uccideranno”: Patria o morte! Venceremos!


Del 5 de agosto de 1994 a hoy: Fidel Castro y la política como contragolpe

El aplauso total y el nombre repetido hace 27 años en Prado y Malecón brotó el pasado 11 de julio con la misma fuerza de entonces, y no miento si digo que vi, ante la imagen del Comandante rodeado de banderas cubanas, retroceder a un grupo de quienes venían de fracasar en el intento de tomar el Capitolio de La Habana

Autor: Iroel Sánchez

En la Cuba del verano de 1994 el panorama económico tras el impacto de la desaparición del comercio con la URSS, que había arrasado con más de un 70 % de los ingresos en divisas del país, no podía ser peor: los cortes de electricidad se prolongaban más de 12 horas, una menguada alimentación convirtió una letanía de la telenovela de turno –«niña, saluda a tu novio»– en sinónimo de arroz con frijoles, el plato con más frecuencia disponible, junto a inventos criollos como el picadillo de soya y la pasta de oca, mientras el acceso a las pocas cafeterías que vendían hamburguesas se distribuía por CDR, con prioridad para embarazadas y ancianos. El transporte público prácticamente había desaparecido, para ser sustituido por el uso masivo de la bicicleta, en contradicción con una alimentación que había ido menguando día tras día. Solitarias latas de almejas en las vidrieras fueron el último testimonio de un mercado estatal en pesos cubanos que antes complementaba satisfactoriamente la llamada libreta de abastecimiento.

Desde el 26 de julio de 1993 se había despenalizado el dólar, y la minoría con acceso a él la pasaba un poco mejor, aunque los cortes eléctricos impactaban en todos por igual. Los parlamentos obreros, llamados así por Fidel con toda intencionalidad clasista, habían aprobado una serie de medidas que, a la postre, revaluarían el peso cubano que se cotizaba por esos días a 150 por dólar, y posibilitarían emprender la recuperación; pero en esos momentos la desesperanza, la irritación y el descontento podían hacer masa crítica para lo que en Miami llevaban décadas anhelando, y un periodista, que aún tiene la dureza facial para continuar publicando artículos en medios como El Nuevo Herald, pensó  que se consagraría escribiendo un libro titulado La última hora de Fidel Castro.

Desde hacía varias semanas los secuestros de embarcaciones alentados por las emisiones de radio desde Estados Unidos habían ido creando una tensa situación en los municipios cercanos al puerto de La Habana. En la mañana del 5 de agosto de 1994, en la sede del Comité de la UJC en la provincia, discutíamos apasionadamente si debíamos o no pasar de la denuncia a la movilización, cuando la realidad impuso su ritmo y decidimos dirigirnos hacia el Comité Nacional de nuestra organización, enclavado justamente a la entrada de la Avenida del Puerto.

El primer estremecimiento fue cuando vi a una mujer gritarle a alguien que pasó delante de nosotros por la calle San Lázaro, rumbo a La Habana Vieja, en el sidecar de una motocicleta:

«Quítate ese pulover que te van a matar». Ella, sin duda, pensó que en esas circunstancias las palabras escritas en la ropa de aquel hombre podían hacer la diferencia entre la vida y la muerte, y yo, que iba con una muda camisa a rayas, pero muchas veces había gritado lo que el pulóver del hombre decía, la miré un momento, no sin susto, pensando en que el logo que exhibía el vehículo en que nos trasladábamos nos podía deparar igual destino que el que le auguraba, la aterrorizada transeúnte, al acompañante del motociclista que nos había antecedido por las antes tranquilas calles centrohabaneras.

Algunos contenedores de basura, supongo colocados por los que iniciaron los disturbios, intentaban cortar el tráfico, pero llegamos hasta nuestro destino. En las inmediaciones del Comité Nacional de la UJC (Avenida de las Misiones, Prado y Avenida del Puerto, y el Parque Máximo Gómez) se veían muchas personas que, obviamente, por lo que gritaban, no estaban de nuestro lado; otras, en rol de curiosos, observaban en silencio, y un solitario policía disparaba al aire, mientras protegía su carro patrullero, parqueado junto al Castillo de La Punta.

El grupo que se había concentrado allí –cuadros y trabajadores de distintas dependencias de la UJC, entre los que me encontraba– comenzó a desplazarse gritando consignas revolucionarias, de las cuales la más repetida era ¡Viva Fidel! Aún en minoría, comprobamos cómo íbamos ganando terreno, unos observaban en silencio y otros retrocedían, las piedras llovían a nuestro alrededor, pero nadie se nos enfrentaba directamente, y así llegamos hasta la esquina de Prado y Malecón, a donde vimos arribar camiones del Contingente Blas Roca, uno de sus integrantes después supimos que perdió un ojo ese día, impactado por objetos que le lanzaron desde un edificio cercano.

Subiendo por Prado, la situación era confusa. Miles de personas ocupaban la calle, cuando varias voces empezaron a hablar de que por ahí venía Fidel. Fueron pocos segundos hasta que, efectivamente, los tres jeeps verde olivo, cubiertos de tela y absolutamente vulnerables a cualquier violencia, desembarcaron en medio del tumulto, y el Comandante bajó del segundo de ellos. Por arte de magia desaparecieron las piedras y un rugido enorme inundó nuestras gargantas, ya para siempre seguras de la victoria: «¡Fidel!, ¡Fidel!». En medio de aquella masa incontrolada cualquiera podía llegar a menos de un metro de su persona para violentarlo y disparar el odio inoculado durante tanto tiempo por las mentiras y la propaganda, pero allí estaba: sereno, hablando pausadamente y en voz baja, preguntando por la situación en otros lugares cercanos, diciendo que los muertos era preferible que los pusiéramos nosotros, y seguramente pensando ya en el contragolpe que le daría al imperio, para una vez más convertir el revés en victoria. Fue allí donde comenzó una sistemática ofensiva contra la política de Estados Unidos hacia Cuba, que continuaría en varias comparecencias televisivas que pondrían a la defensiva al Gobierno de Bill Clinton, y lo obligarían a firmar en breve un acuerdo migratorio.

Apenas una semana después, el 13 de agosto, día de su cumpleaños, la UJC organizó en la misma esquina de Prado y Malecón un concierto en el que varios de los músicos participantes terminaron sus interpretaciones con el mismo ¡Viva Fidel! que había resonado días antes en aquellas horas tremendas. En el primer aniversario de aquellos hechos, hablando en el mismo lugar, el Comandante clausuraría una marcha que, como parte del Festival Internacional Juvenil de Solidaridad Cuba Vive, había recorrido el litoral habanero desde la calle G hasta La Punta. En sus palabras, convocó a retomar los Festivales Mundiales de la Juventud y los Estudiantes, como escenario de lucha por la paz y la solidaridad antimperialista. Los jóvenes asistentes, como en el Cuba Vive, se alojarían en las casas de los habaneros, y compartirían con ellos una semana de actividades políticas y sociales. El contragolpe fidelista seguía avanzando y, como de costumbre, no se conformaba con resistir al imperialismo ni vencerlo en Cuba. Su campo de batalla era el mundo, y ahí le disputaba una vez más la hegemonía.

El pasado 11 de julio recordé aquel 5 de agosto, cuando en la esquina habanera de Galiano y Neptuno vi llegar y alzarse –junto a quienes encabezados por el Héroe de la República y coordinador nacional de los CDR, Gerardo Hernández, defendíamos en ese lugar la Revolución– una foto de Fidel: El aplauso total y el nombre repetido hace 27 años en Prado y Malecón brotó con la misma fuerza de entonces, y no miento si digo que vi, ante la imagen del Comandante rodeado de banderas cubanas, retroceder a un grupo de quienes venían de fracasar en el intento de tomar el Capitolio de La Habana, y desistir de ascender por la calle Neptuno.

Y es que el contragolpe fidelista sigue vivo y nos acompaña en las batallas de hoy. Volví a recordarlo cuando, en las olimpiadas de Tokio, Julio César La Cruz dijo exactamente lo que aquel pulóver que llevaba el compañero desconocido al que gritaron «te van a matar»: ¡Patria o Muerte! ¡Venceremos!

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