Sindrome dell’Avana o Sindrome di Washington?

José Ramón Cabañas Rodríguez  www.cubadebate.cu

Un uomo con alito alcolico entra in un locale dove si riuniscono gli studenti e picchia uno dei giovani. Più e più volte gli chiede di riconoscere la paternità della creatura che sua figlia porta in grembo. Il ragazzo riceve così tanti colpi che è quasi stremato. Quando l’aggressore offeso ritorna a casa, scopre che il test di gravidanza che ha trovato nella stanza di sua figlia non era di quest’ultima ma quello di una vicina.

Questo semplice aneddoto potrebbe illustrare la storia dei sintomi alla salute che importanti funzionari USA all’Avana hanno iniziato a riportare e relazionare ad un presunto attacco, proprio mentre si svolgevano le elezioni presidenziali che hanno portato al potere, a Washington, Donald Trump. Gli eventi eccezionali si sono prospettati all’interno di tale ambasciata dai pochi membri di un personale estraneo alle funzioni diplomatiche. In seguito, il presunto malessere si è esteso a un gruppo più ampio di impiegati.

Il 17 febbraio 2017, l’allora Incaricato d’Affari USA all’Avana ha inviato una lamentela al Ministero degli Affari Esteri (MINREX) in merito a presunti “attacchi” contro il suo personale, che, in teoria, si producevano dal novembre dell’anno precedente. Non si parlava, allora, di malattie o sintomi. Immediatamente, gli esperti cubani si sono mobilitati e hanno iniziato ad indagare, senza nemmeno chiedersi perché le informazioni non fossero state condivise, con loro, sin dal primo giorno.

Paradossalmente, le persone colpite non sono andate a ricevere cure mediche nelle cliniche dove sono sempre state curate all’Avana, come avevano fatto fino ad allora e continuano a farlo, ad oggi, i loro omologhi cubani a Washington.

Cinque giorni dopo il primo rapporto, funzionari cubani si sono incontrati con il capo della sicurezza dell’ambasciata USA e si sono accorti che lui non era a conoscenza di ciò che stava accadendo tra le persone che avrebbe dovuto proteggere. Poche ore dopo il nome di tale individuo è apparso su una lista di presunte vittime dei presunti attacchi ed è stato evacuato negli USA.

Cuba ha offerto la sua disponibilità a collaborare al chiarimento dei fatti, reali o meno, ed ha indicato che era molto importante la cooperazione con le agenzie USA. In modo tempestivo, sono state rafforzate le misure di protezione presso la sede e le residenze dei diplomatici e sono stati aperti nuovi canali di comunicazione.

Su indicazione del più alto livello del Governo di Cuba, è stata avviata un’indagine di polizia ed è stato nominato un comitato di esperti scientifico interistituzionale e interdisciplinare per analizzare le segnalazioni effettuate. Le indagini hanno concluso che non ci sono prove per dimostrare alcun attacco e che una così ampia varietà di sintomi non può essere attribuita ad una causa comune.

L’FBI ha visitato l’Avana quattro volte per condurre proprie analisi in completa libertà. Alla fine, le sue conclusioni hanno coinciso con l’opinione degli esperti cubani secondo cui non esistevano prove di attacchi, ma il Dipartimento di Stato ha respinto la proposta del Burò di far parte dell’indagine il Centro di Controllo e Prevenzione delle Infermità di Atlanta (CDC), che inoltre aveva una lunga esperienza di scambio scientifico con le controparti cubane.

Da gennaio a metà anno 2017, i funzionari dell’ambasciata USA all’Avana hanno richiesto un gran numero di visti affinché parenti stretti o amici potessero recarsi sull’isola e, in innumerevoli occasioni, hanno anche coperto le procedure per recarsi in altre province cubane per turismo. Questo comportamento non corrispondeva all’atteggiamento di un gruppo umano soggetto a qualche vessazione esterna.

In incontri privati di carattere diplomatico, i funzionari USA, sia a Washington che all’Avana, usavano il termine “attacchi” per riferirsi a fatti inspiegabili, mentre le loro controparti cubane hanno messo in guardia contro conclusioni affrettate e hanno ripetutamente esortato la consegna di prove concrete.

Tutte le limitate informazioni che sono state trasferite alla parte cubana attraverso il canale diplomatico sembravano disegnate per indurre in errore e documentare presunti fatti inesatti. In un’occasione si trattava di una mappa in scala ridotta della città dell’Avana con grandi punti rossi in luoghi diversi, che non consentivano di specificare il luogo esatto in cui avrebbe potuto essersi realizzato l’evento narrato. In un altro erano registrazioni di strani suoni che, misurati e confrontati con altri record, indicavano che corrispondevano al ronzio di insetti comuni sull’isola.

Dopo che il servizio di sicurezza diplomatico cubano concordasse con l’ambasciata USA un meccanismo per allertare, in tempo reale, le autorità del verificarsi degli incidenti, in diverse occasioni lo stesso non è stato utilizzato e in altre l’informazione è arrivata molto tardivamente.

Il Dipartimento di Stato si limitava a una breve riga di messaggi: qualcosa era successo all’Avana e la parte cubana doveva spiegarlo, anche senza che loro dicessero esattamente cosa era successo. In termini sportivi, era la cosa più simile alla pratica di tiro contro un bersaglio in movimento.

Il governo USA ha quindi iniziato a trasferire dall’Avana un gruppo di funzionari USA e le loro famiglie, che paradossalmente hanno reso pubblico la loro incomprensione del provvedimento ed il loro desiderio di ritornare ai loro posti. Vale a dire, questa massa non condivideva la teoria degli attacchi, o almeno li considerava di tale relativa importanza da potersi permettere il lusso di tornare. Tuttavia, questa possibilità è stata loro negata e la maggior parte è stata rapidamente ubicata ad altre funzioni.

Ad agosto, con lo stesso livello di imprecisione con cui era stato trattato il tema fino al momento, la notizia è arrivata ai media USA. Mesi dopo un altro giornalista coniava il termine di una presunta sindrome legata al nome della capitale cubana e, disciplinatamente, hanno armato teorie e speculazioni, sulla base di dichiarazioni e presunte fughe di notizie, volutamente inesatte e sensazionalistiche, di varie fonti ufficiali federali.

Quando si esaminano i resoconti della stampa di quei giorni, si può valutare che le informazioni sui presunti attacchi sono confluite al pubblico USA attraverso giornalisti specifici dei media indicati, il resto faceva solo eco senza formulare domande scomode, o mettere in discussione la storia ufficiale. Funzionari cubani hanno localizzato e parlato con i direttori di tali media, che non hanno mai potuto smentire che i loro giornalisti fossero utilizzati da fonti non identificate del governo USA che contribuivano a creare più confusione e non a cercare una spiegazione. Né hanno potuto giustificare la periodica reiterazione della questione, nonostante non avessero nulla di nuovo da informare.

Ci sono state speculazioni su presunte armi utilizzate negli attacchi che generavano suoni o onde, di cui non ci sono registrazioni di fabbricanti, piani o impronte. Si assegnavano ad esse capacità che non sono provate né dimostrate dalla scienza.

In assenza di consenso su una possibile “arma del delitto”, si è parlato allora di possibili commissari degli attacchi, che senza che nessuno ne documentasse l’esistenza, hanno potuto essere realizzati da funzionari cubani “dissidenti” che, tra l’altro, non guadagnavano assolutamente nulla dal danneggiare le relazioni bilaterali o attori di paesi terzi. La reale dissidenza, in ogni caso, radicava a Washington, tra coloro che volevano ribaltare la politica del Presidente Barack Obama verso Cuba e avevano grande bisogno di un buon argomento, tangibile o meno, per iniziare a prendere misure che garantissero il processo di regressione.

In poco tempo, una parte significativa del pubblico USA credeva sia negli “attacchi sonici” sia che McDonalds e Coca-Cola fossero alimenti sani.

E’ stata Cuba, e non gli USA, a sollecitare una riunione dei Ministri degli Esteri per discutere la questione, che si è celebrata a Washington il 26 settembre 2017. Alla stessa è stata evidente che il più alto livello del Dipartimento di Stato non era informato dei dettagli delle indagini che l’FBI aveva condotto all’Avana.

Richiamava l’attenzione che l’allora segretario, Rex Tillerson, un ex dirigente di alto rango della Exxon Mobile, società dove si spendono milioni di dollari nella ricerca di combustibili fossili solo se ci sono prove concrete che sia situato in letti specifici, ha proceduto a danneggiare il rapporto bilaterale con Cuba senza alcuna prova materiale.

Durante quella visita a Washington DC, il ministro degli Esteri cubano ha presentato le sue argomentazioni al Congresso dell’Unione davanti a otto senatori e alla dirigenza della minoranza della Camera dei Rappresentanti e le loro controparti hanno apprezzato lo scambio. Il Congresso aveva celebrato, fino a quella data (e lo ha fatto in seguito), diverse udienze private sul tema, ma assolutamente in nessuna si sono offerti dati utili da parte del governo, nemmeno sotto il velo del più ermetico segreto legislativo.

Dal Campidoglio, il Cancelliere è partito per il Club Nazionale della Stampa, dove ha incontrato i più importanti del gruppo di giornalisti USA che si occupavano di politica estera. Il Ministro cubano ha poi posto una lunga lista di domande sulle incongruenze del caso che permangono, ad oggi, senza risposta. L’impatto della sua presentazione sulla stampa USA, tuttavia, è stata marginale.

In successivi scambi il Dipartimento di Stato ha riconosciuto di non avere informazioni sulle precondizioni mediche dei suoi diplomatici prima di partire per Cuba, o per altre destinazioni, per cui non poteva affermare, né escludere, quali sintomi presentati da alcuni funzionari arrivati ​​di recente (che sono stati diversi) all’Avana non avessero causa in un malessere di cui soffrivano in precedenza.

Ma il Dipartimento di Stato aveva bisogno di dare un velo di credibilità a tale inconsistenza e finalmente è apparso un articolo sul Journal of the American Medical Association (JAMA) che, sebbene fosse scritto per dare una sfumatura scientifica all’accusa contro Cuba, aggiungeva, comunque, altri dubbi a quanto già detto e non pianificava alcuna tesi conclusiva. La parte cubana non ha nemmeno dovuto metterlo in discussione, perché di ciò se ne è occupato lo stesso Comitato Editoriale della pubblicazione che nella stessa edizione ha preso le distanze dal testo.

Poiché Cuba ha continuato a richiedere, con insistenza, un incontro tra scienziati di entrambe le parti per analizzare il tema, il Dipartimento di Stato ha solo acconsentito, nel 2018, a far sì che un gruppo di funzionari di quell’agenzia ricevesse una delegazione ufficiale cubana. Quest’ultima ha presentato tutte le incongruenze riscontrate nel caso, mentre la parte USA ha sempre risposto con frasi tratte dall’articolo di JAMA. Tuttavia, in una dimostrazione di solidità professionale non comune per l’epoca, gli impiegati USA hanno chiarito che non hanno mai proposto alla dirigenza dell’agenzia federale di riferirsi ai fatti in questione come attacchi.

In quell’occasione, gli esperti cubani hanno propiziato, per proprio conto, un incontro a titolo personale con rinomate controparti USA in specialità legate al caso, dalla neurologia alla psichiatria. Ci sono state totali coincidenze nell’approccio di entrambe le parti. Per mancanza di una sede che ospitasse una conferenza stampa per presentare i risultati del dibattito, l’Ambasciata di Cuba ha convocato i responsabili della stampa che avevano seguito la questione da molti mesi. C’è stato un vivace scambio di domande e risposte al riguardo, i giornalisti hanno scritto i loro dispacci, ma i loro rispettivi editori non hanno ritenuto il contenuto essere degno di notizia, quel giorno. Poco è stato pubblicato.

A questo punto, forse vale la pena mettere in relazione solo alcune delle domande che scienziati e osservatori di vari paesi (non solo cubani) hanno fatto fin dall’inizio alla prima versione ufficiale USA dei fatti:

Collen G. Le Prell, direttrice del programma di audiologia dell’Università del Texas: “la comunità degli audiologi si chiede quale potrebbe essere la causa dei sintomi descritti in questi casi poiché nessuno ha una buona spiegazione per questo” (…) “la repentina apparizione di perdita dell’udito senza che esista una fonte udibile è molto inusuale”. (Newsweek del 29 agosto 2017)

Andrew Oxenham, psicologo presso il Laboratorio di Percezione e Cognizione Uditiva dell’Università del Minnesota: “non posso spiegarmi che l’infermità e la perdita dell’udito sono legate con un suono … non c’è modo che un dispositivo acustico causi danno uditivo usando suoni non udibili. Non si può stimolare l’orecchio interno in un modo che potrebbe causare danno” (Buzz Feed News, 30 agosto 2017)

James Jauchem, biologo e scienziato in pensione che ha studiato gli effetti biologici dell’energia acustica nel laboratorio di ricerca dell’Aeronautica USA: “non si conoscono gli elementi che hanno i ricercatori per dichiarare che si tratta di un’arma acustica” (The Verge, 16 settembre 2017)

Joe Pompei, ex ricercatore del Massachusetts Institute of Technology, fondatore e presidente di Holosonics: “Non c’è mai stato alcun tipo di risposta fisiologica che rifletta i sintomi che sono stati riportati causati da onde sonore di qualche tipo” (Business Insider, 29 settembre 2017)

Jurgen Altmann, fisico della Technische Universitat Dortmund in Germania: “Direi che è abbastanza inverosimile”, “Non conosco alcun effetto acustico che possa causare sintomi di commozione cerebrale”. (The New York Times, 5 ottobre 2017)

Jun Qin, ingegnere acustico della Southern Illinois University: “Il suono attraverso l’aria non può scuotere la testa”. “Gli ultrasuoni non possono viaggiare per lunghe distanze” (The New York Times, 5 ottobre 2017)

Adam Rogers, giornalista della testata Wired, specializzata in temi tecnologi, ha segnalato: “Continuano le avventure dell’incontro tra 007 e gli X-Files a Cuba” (Wired, 5 ottobre 2017)

Il rapporto di opinioni similari era infinito e continua ad esserlo a distanza di 4 anni. C’è stato un momento in cui i creatori della sindrome sono passati dalla spiegazione sonica degli attacchi, perché si faceva insostenibile, alla speculazione sulle microonde che, allo stesso modo, è stata insostenibile dalla scienza.

La già coniata “Sindrome dell’Avana” è stato un argomento utile per gli USA, davanti alla propria opinione pubblica e a terzi, per giustificare la chiusura dei servizi consolari della propria ambasciata nella capitale cubana, interrompere lì i servizi di immigrazione e cittadinanza, ridurre la presenza diplomatica cubana a Washington, emettere avvisi di viaggio a Cuba, ridurre il flusso di visitatori verso quella destinazione, porre in discussione l’impegno delle autorità cubane per quanto riguarda la sicurezza nel loro territorio per  diplomatici stranieri.

Ma cosa avrebbe guadagnato Cuba se realmente avesse molestato, in qualche modo, i funzionari USA? Qualcuno sano di mente può ritenere che le autorità cubane volessero una regressione nella relazione bilaterale che addizionalmente conducesse a nuove misure di blocco?

Non c’era un crimine, né vittime, né prova, né arma del delitto, ma neppure un movente. Allora, su cosa si è basata l’accusa lanciata, per mesi ai quattro venti, contro Cuba?

Con Tillerson già in pensione dal Dipartimento di Stato, il nuovo segretario Mike Pompeo ha voluto, in un certo modo, coprire le forme esprimendo: “la natura precisa delle lesioni sofferte dal personale colpito, e se esiste una causa comune a tutti i casi, non è ancora stabilita». Ma Pompeo proveniva dal dirigere la CIA, l’agenzia a cui appartenevano la maggior parte di coloro che insistevano di essere stati attaccati.

Per alcuni mesi i presunti attacchi sono sembrati essere un tema bilaterale tra USA e Cuba e se si faceva riferimento ad un terzo, era in termini di “qualche potenza interessata a danneggiare i funzionari USA” che, prodotto di nuove speculazioni, è stata identificata come la Russia.

Tuttavia, la narrativa ufficiale USA ha preso una svolta inaspettata quando una funzionaria di quel paese ha colto i sintomi della sindrome, un po’ lontano dai Caraibi, in Cina (aprile 2018). Curiosamente, non si sono registrati eccessi nella condotta del Dipartimento di Stato e non si sono prese contro la nazione asiatica nessuna delle misure registrate nel caso di Cuba, tuttora in vigore. Sebbene altri importanti funzionari nello stesso paese abbiano cercato di sommarsi all’epidemia di attacchi, la versione ufficiale ne ha registrato solo uno e in poco tempo non è più stato nei titoli dei giornali.

La storia si è fatta ancora più inverosimile quando due persone diverse sono state registrate sotto i sintomi della “Sindrome dell’Avana” nel territorio USA, nell’aprile 2021, e, successivamente, si sono aggiunti altri importanti funzionari USA, in Germania e Austria, nell’agosto 2021. In questi fatti, Washington non ha richiesto a Berlino o Vienna (né a sé stesso) ulteriori sicurezze per il comfort dei suoi cittadini, né si è ridotto il flusso di visitatori nazionali verso quelle destinazioni.

Se fossero vere tutte le speculazioni che si erano tessute su Cuba, come si esplicava ora che un potere maligno si muovesse per mezzo mondo, compresa la capitale USA, con un’ “arma” che si calcolava che debba essere della dimensione  di un carro armato, che dovrebbe emettere un suono abbastanza intenso da provocare danni al cervello, con una capacità direzionale così perfezionata da colpire solo persone selezionate e non quelle che si muovevano a pochi metri dal bersaglio?

Ed è accaduto l’inevitabile, la teoria che è stata creata per danneggiare i rapporti con un paese estero è stata utilizzata dalle presunte vittime per intentare azioni legali nei tribunali USA con l’accusa che il Dipartimento di Stato e altre agenzie non hanno protetto adeguatamente i propri dipendenti. Il cacciatore è finito cacciato.

In tutto questo tempo Cuba ha osservato un atteggiamento di totale attaccamento alla scienza, condividendo le opinioni e le analisi degli esperti cubani che analizzano, studiano e scambiano con le limitate informazioni disponibili e offrendo cooperazione senza lanciare speculazioni infondate. Tuttavia, dopo aver affrontato da sola, per un lungo periodo, le uniche misure punitive che Washington ha messo in atto a causa del verificarsi degli “attacchi”, c’è il diritto di pensare ad alcune generalizzazioni.

La maggior parte dei funzionari- vittime non sono diplomatici, bensì sono legati alle agenzie di intelligence USA. Gli stessi hanno condiviso non solo spazi fisici e isolati nelle ambasciate del loro paese all’estero, ma anche tecnologie specifiche nei loro luoghi di lavoro, nonché abitudini, condizioni e esigenze comuni che sicuramente li hanno costretti ad affrontare una elevata tensione psichica ed emotiva.

Sarebbe utile che le agenzie USA impiegassero più tempo in una visione introspettiva e, se non fossero disposte a farlo, almeno mostrassero un atteggiamento più coerente nell’affrontare il problema nel suo insieme. Se nulla di tutto questo fosse possibile, ci si aspetterebbe che rettificassero un modo di fare che hanno ereditato da una precedente amministrazione, attuato con il franco proposito di provocare una irreversibile retrocessione nelle relazioni bilaterali con Cuba.

Grazie al lavoro professionale di declassificazione dell’organizzazione USA National Security Archives, nel febbraio 2021 sono stati pubblicati tre rapporti sulla cosiddetta “Sindrome dell’Avana” scritti dal Dipartimento di Stato, dal Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Infermità e dalle Accademie Nazionali delle Scienze, Ingegneria e Medicina degli USA. In tutti si è riflesso su ciò che è accaduto in relazione a questo tema durante gli anni di Trump: la mancanza di cooperazione delle agenzie che impiegavano i soggetti colpiti con cui hanno svolto le indagini; inesistente accesso ai soggetti coinvolti; decisioni precipitate da motivazioni politiche e assenza di una teoria che spiegasse l’attribuzione di sintomi diversi ad una causa comune.

In particolare, il menzionato rapporto del Dipartimento di Stato ha suggerito che la decisione di Donald Trump di smantellare l’ambasciata dell’Avana, all’inizio del 2018, come reazione a presunti “attacchi sonici” contro il suo personale diplomatico, sia stata una “risposta” politica afflitta da cattiva gestione, mancanza di coordinamento e non adempimento delle normative. Lo stesso testo ha rivelato che l’ex presidente ha preso la decisione di ridurre il 60% del personale consolare all’Avana e disattivare il funzionamento dell’ambasciata, senza avere alcuna prova che Cuba fosse dietro i misteriosi problemi di salute che hanno colpito i suoi funzionari.

Testualmente, il rapporto affermava: “La decisione di ridurre il personale all’Avana non sembra aver seguito le procedure standard del Dipartimento di Stato e non è stata preceduta né seguita da alcuna analisi formale dei rischi e benefici della continua presenza fisica dei dipendenti del Governo USA all’Avana”.

A confessione di parte, non necessitano prove.

Saremmo entrambi d’accordo che la prossima volta che qualcuno esiga obbligazioni di paternità, debba prima mostrare prove di una gravidanza, o almeno non ricorrere a posizioni estreme.


¿Síndrome de La Habana o Síndrome de Washington?

Por: José Ramón Cabañas Rodríguez

Un hombre con aliento etílico entra a un local donde se reúnen estudiantes y la emprende a golpes contra uno de los jóvenes. Le exige una y otra vez que reconozca la paternidad de la criatura que su hija lleva en el vientre. El muchacho recibe tantos golpes que queda casi exhausto. Cuando el agresor ofendido regresa a casa descubre que la prueba de embarazo que encontró en el cuarto de su hija no era de ella, sino de una vecina.

Esta anécdota simple podría ilustrar la historia de los síntomas de salud que funcionarios estadounidenses destacados en La Habana comenzaron a reportar y a relacionar con un supuesto ataque, justo cuando se celebraron las elecciones presidenciales que llevaron al poder en Washington a Donald Trump. Los hechos excepcionales se plantearon al interior de esa embajada por escasos miembros de un personal ajeno a las funciones diplomáticas. Después, el alegado malestar se generalizó a un grupo más amplio de empleados.

El 17 de febrero del 2017 el entonces Encargado de Negocios estadounidense en La Habana trasladó al Ministerio de Relaciones Exteriores (MINREX) una queja sobre supuestos “ataques” contra su personal, que teóricamente se producían desde noviembre del año anterior. No se hablaba entonces de enfermedades o síntomas. De inmediato, los expertos cubanos se movilizaron y comenzaron a investigar, sin preguntarse siquiera por qué la información no se les compartió desde el primer día.

Paradójicamente, los afectados no acudieron a recibir atención médica en las clínicas donde siempre se atendían en La Habana, tanto como habían hecho hasta entonces y lo siguen haciendo hasta hoy sus contrapartes cubanas en Washington.

Cinco días después del primer reporte funcionarios cubanos se reunieron con el jefe de seguridad de la embajada estadounidense y se percataron de que aquel no estaba al tanto de lo que ocurría entre las personas a las que debía proteger. Pocas horas más tarde apareció el nombre de ese individuo en una lista de supuestas víctimas de los alegados ataques y fue evacuado con rumbo a Estados Unidos.

Cuba ofreció su disposición a colaborar en el esclarecimiento de los hechos, reales o no, e indicó que era muy importante la cooperación con agencias estadounidenses. De manera expedita, se reforzaron las medidas de protección a la sede y las residencias de los diplomáticos, y se abrieron nuevos canales de comunicación.

Por indicación del más alto nivel del Gobierno de Cuba se inició una investigación policial y se nombró un comité de expertos científico interinstitucional e interdisciplinario para analizar los reportes realizados. Las investigaciones concluyeron que no existe evidencia para demostrar ataque alguno y que una diversidad de síntomas tan variados no puede atribuirse a una causa común.

El FBI visitó La Habana en cuatro ocasiones para realizar su propio análisis con total libertad. Al final sus conclusiones coincidieron con  la opinión de los expertos cubanos de que no existían evidencias de ataques, pero el Departamento de Estado rechazó la propuesta del Buró de hacer parte de la investigación al Centro de Control y Prevención de Enfermedades en Atlanta (CDC), el cual tenía además experiencia de intercambios científicos de larga data con contrapartes cubanas.

Desde enero hasta mediados del año 2017 los funcionarios de la embajada estadounidense en La Habana solicitaron una amplia cantidad de visas para que viajaran a la Isla familiares cercanos, o amigos y también cubrieron los procedimientos para viajar a otras provincias cubanas  en plan turístico en innumerables ocasiones. Este comportamiento no se correspondía con la actitud de un grupo humano que está sometido a hostigamiento externo alguno.

En los encuentros privados de carácter diplomático los funcionarios estadounidenses tanto en Washington como en La Habana utilizaban el término “ataques” para referirse a los hechos inexplicables,  mientras que sus contrapartes cubanas alertaban contra conclusiones precipitadas y urgían sobre  la entrega de pruebas concretas una y otra vez.

Toda la limitada información que se trasladó a la parte cubana por el canal diplomático parecía diseñada para inducir a error y documentar supuestos hechos imprecisos. En una ocasión fue un mapa a pequeña escala de la ciudad de la Habana con grandes puntos rojos en distintas locaciones, que no permitían precisar el lugar exacto donde podría haber tenido lugar el hecho que se narraba. En otra fueron grabaciones de sonidos extraños que al ser medidos y comparados con otros registros indicaban que correspondían al zumbido de insectos comunes en la Isla.

Después de que el servicio de seguridad diplomática cubana acordara con la embajada estadounidense un mecanismo para alertar en tiempo real a las autoridades sobre la ocurrencia de los incidentes, en varias ocasiones el mismo no fue utilizado y en otras la información llegó de forma muy tardía.

El Departamento de Estado se limitaba a una escueta línea de mensajes: algo había sucedido en La Habana y la parte cubana debía explicarlo, aún sin ellos decir exactamente qué era lo que había ocurrido. En términos deportivos era lo más parecido a practicar tiro contra un blanco en movimiento.

El gobierno estadounidense comenzó entonces a transferir desde La Habana a un grupo de funcionarios estadounidenses y sus familiares, que de forma paradójica hicieron pública su incomprensión con la medida y su deseo de retornar a sus puestos. Es decir, esta masa no compartía la teoría de los ataques, o al menos los consideraba de tan relativa importancia que se podían permitir el lujo de regresar. No obstante, se les negó tal posibilidad y la mayoría fue reubicada en poco espacio de tiempo en otras funciones.

En el mes de agosto, con el mismo nivel de imprecisión con que había sido tratado el tema hasta el momento, la noticia saltó a los medios de prensa estadounidenses. Meses después otro periodista acuñaba el término de un supuesto síndrome asociado con el nombre de la capital cubana y disciplinadamente armaron teorías y especulaciones, a partir de declaraciones y supuestas filtraciones, intencionalmente inexactas y sensacionalistas, de diversas fuentes oficiales federales.

Cuando se revisan los reportes de prensa de aquellos días, se puede apreciar que la información sobre los supuestos ataques fluyó al público estadounidense a través de periodistas específicos de medios señalados, el resto solo hacía eco sin formular preguntas incómodas, o cuestionar la historia oficial. Funcionarios cubanos localizaron y hablaron con  los directivos de tales medios, los cuales no pudieron desmentir nunca que sus periodistas estuvieran siendo utilizados por fuentes no identificadas del gobierno de Estados Unidos que contribuían a crear más confusión  y no a buscar una explicación. Tampoco pudieron justificar la reiteración periódica al tema, a pesar de que no había nada nuevo que informar.

Se especuló sobre supuestas armas utilizadas en los ataques que generaban sonidos u ondas, de las que no existen registros de fabricantes, planos o huellas. Se les adjudicaban a aquellas capacidades que no están probadas ni demostradas por la ciencia.

A falta de consenso sobre una posible “arma homicida”, se habló entonces de posibles comisores de los ataques, que sin que nadie documentase que existieran, pudieron realizar funcionarios cubanos “disidentes” que, por cierto, no ganaban absolutamente nada con dañar la relación bilateral o actores de terceros países. La disidencia real en todo caso radicaba en Washington, entre aquellos que querían revertir la política del Presidente Barack Obama hacia Cuba y estaban muy necesitados de un buen argumento, tangible o no, para comenzar a tomar medidas que garantizaran el proceso de regresión.

Al poco tiempo una parte importante del público estadounidense creía tanto en los “ataques sónicos” como en que los McDonalds y la Coca Cola son alimentos saludables.

Fue Cuba y no Estados Unidos la que solicitó una reunión de Cancilleres para ventilar el asunto, que se celebró en Washington el  26 de septiembre del 2017. En la misma fue evidente que el máximo nivel del Departamento de Estado no estaba informado de los detalles de las investigaciones que había conducido el FBI en La Habana.

Llamaba la atención que  el entonces Secretario Rex Tillerson,  ex ejecutivo de más alto rango en la Exxon Mobile, empresa donde se gastan millones de dólares en la búsqueda de combustibles fósiles solo si hay evidencia dura y pura de que está situado en lechos específicos, procedió a dañar la relación bilateral con Cuba sin ninguna prueba material.

En aquella visita a Washington DC el Canciller cubano presentó sus argumentos en el Congreso de la Unión ante ocho senadores y el liderazgo de la minoría de la Cámara de Representantes y sus contrapartes agradecieron el intercambio. El Congreso había celebrado hasta esa fecha (y lo hizo después) varias audiencias privadas sobre el tema, pero absolutamente en ninguna de ellas se ofrecieron desde el gobierno datos útiles, ni siquiera bajo el velo del secreto legislativo más hermético.

Desde el Capitolio el Canciller partió hacia el Club Nacional de Prensa, donde se reunió con lo más destacado del grupo de los reporteros estadounidenses que cubrían la política exterior. El Ministro cubano hizo entonces una larga lista de preguntas sobre las inconsistencias del caso que permanecen sin respuesta hasta hoy. El impacto de su presentación en la prensa estadounidense sin embargo fue marginal.

En sucesivos intercambios posteriores, el Departamento de Estado reconoció que no tenía información de precondiciones médicas de sus diplomáticos antes de partir hacia Cuba, o a otros destinos, por lo que no podía afirmar, ni descartar, que síntomas presentados por varios funcionarios recién llegados (que fueron disímiles) a La Habana no tuvieran causa en un padecimiento que sufrían desde antes.

Pero el Departamento de Estado necesitaba darle algún velo de credibilidad a tanta inconsistencia y finalmente apareció un artículo en el Journal of the American Medical Association (JAMA) que aunque fue redactado para darle un matiz científico a la acusación contra Cuba,  agregaba sin embargo más dudas a lo ya dicho y no planteaba ninguna tesis concluyente. La parte cubana no tuvo siquiera que ponerlo en tela de juicio, porque se encargó de ello la propia Junta Editorial de la publicación que en la misma edición se distanció del texto.

Como Cuba seguía solicitando insistentemente un encuentro entre científicos de ambas partes para analizar el tema, el Departamento de Estado solo accedió en el 2018 a que un grupo de funcionarios de tal agencia recibiera a una delegación oficial cubana. Esta última presentó todas las inconsistencias que encontraba en el caso, mientras que la parte estadounidense ripostó siempre con oraciones extraídas del artículo de JAMA. No obstante, en una muestra de solidez profesional poco común para la época, los empleados estadounidenses sí dejaron claro que nunca propusieron al liderazgo de la agencia federal referirse a los hechos en cuestión como ataques.

Los expertos cubanos propiciaron en aquella oportunidad por su propia cuenta un encuentro a título personal con renombradas contrapartes de Estados Unidos en especialidades afines al caso, desde neurología hasta psiquiatría. Hubo coincidencia total en el enfoque de ambas partes. A falta de encontrar una sede que acogiera una conferencia de prensa para presentar los resultados del debate, la Embajada de Cuba convocó a líderes de medios de prensa que habían seguido el tema durante largos meses. Hubo un intercambio animado de preguntas y respuestas al respecto, los periodistas escribieron sus despachos, pero sus editores respectivos no consideraron que el contenido era noticioso ese día. Poco se publicó.

En este punto quizás valga la pena relacionar solo algunos de los cuestionamientos que científicos y observadores de diversos países (no solo los cubanos) hicieron  desde temprano a la primera versión oficial estadounidense de los hechos:

Collen G. Le Prell, directora del programa de audiología de la Universidad de Texas: “la comunidad de audiólogos se pregunta cuál podría ser la causa de los síntomas descritos en estos casos pues nadie tiene una buena explicación para ello” (…) “la aparición repentina de pérdida de la audición sin que exista una fuente audible, es muy inusual”. (Newsweek 29 de agosto del 2017)

Andrew Oxenham, psicólogo del Laboratorio de Percepción y Cognición Auditiva de la Universidad de Minnesota:   “no puedo explicarme que la enfermedad y la pérdida de la audición estén relacionadas con un sonido… no hay forma que un dispositivo acústico cause daño auditivo usando sonidos inaudibles. No se puede estimular el oído interno de una manera que podría causar daño” (Buzz Feed News, 30 de agosto del 2017)

James Jauchem, biólogo y científico retirado que investigó los efectos biológicos de la energía acústica en el laboratorio de investigaciones de la Fuerza Área de EE.UU.: “no se conocen los elementos que tienen los investigadores para declarar que se trata de un arma acústica”  (The Verge, 16 de septiembre del 2017)

Joe Pompei, ex investigador del Massachussetts Institute of Technology, fundador y presidente de Holosonics: “Nunca ha habido ningún tipo de respuesta fisiológica que refleje los síntomas que se han informado causados por ondas de sonido de cualquier tipo” (Business Insider, 29 de septiembre del 2017)

Jurgen Altmann, físico de la Technische Universitat Dortmund en Alemania: “Diría que es bastante inverosímil”, “No conozco efecto acústico alguno que pueda causar síntomas de conmoción cerebral”. (The New York Times, 5 de octubre del 2017)

Jun Qin, ingeniero acústico de la Southern Illinois University: “El sonido a través del aire no puede sacudir tu cabeza”. “Los ultrasonidos no pueden viajar una larga distancia” (The New York Times, 5 de octubre del 2017)

Adam Rogers, periodista de la publicación Wired, especializada en temas tecnológicos señaló: “Las aventuras del encuentro entre 007 y los Expedientes X en Cuba continúan” (Wired, 5 de octubre del 2017)

La relación de opiniones similares era interminable y continúa siéndolo 4 años después. Llegó un momento en que los creadores del síndrome saltaron de la explicación sónica de los ataques, porque se hacía insostenible, a la especulación sobre las microondas que igualmente ha sido insostenible desde la ciencia.

El ya acuñado “Síndrome de La Habana” fue un argumento útil para Estados Unidos ante su propia opinión pública y ante terceros para justificar el cierre de los servicios consulares de su embajada en la capital cubana, descontinuar allí los servicios de inmigración y ciudadanía, reducir la presencia diplomática cubana en Washington, emitir alertas de viaje a Cuba, reducir el flujo de visitantes con ese destino, poner en tela de juicio el compromiso de las autoridades cubanas respecto a la seguridad en su territorio para diplomáticos extranjeros.

¿Pero qué ganaba Cuba en caso de que realmente hubiera hostigado de alguna manera a los funcionarios estadounidenses? ¿Alguien en su sano juicio puede considerar que las autoridades cubanas deseaban una regresión en la relación bilateral que adicionalmente condujera a nuevas medidas de bloqueo?

No había un crímen, ni víctimas, ni evidencia, ni arma homicida, pero tampoco móvil. Entonces, ¿en qué se basó la acusación lanzada a los cuatro vientos contra Cuba durante meses?

Ya retirado Tillerson del Departamento de Estado, el nuevo Secretario Mike Pompeo quiso cubrir las formas de cierta manera expresando: “la naturaleza precisa de las lesiones sufridas por el personal afectado, y si existe una causa común para todos los casos, aún no se ha establecido”. Pero Pompeo venía de dirigir la CIA, la agencia a la que pertenecían la mayoría de los que insistían en que fueron atacados.

Durante algunos meses los supuestos ataques parecieron ser un tema bilateral entre Estados Unidos y Cuba y, si se hacía referencia a algún tercero, era en términos de “alguna potencia interesada en dañar a los funcionarios estadounidenses”, que producto de nuevas especulaciones fue identificada como Rusia.

Sin embargo, la narrativa oficial estadounidense dio un giro inesperado cuando una funcionaria de aquel país se acogió a los síntomas del síndrome, un poco lejos del Caribe, en China (abril del 2018). De forma curiosa, no se registraron excesos en la conducta del Departamento de Estado y no se tomaron contra la nación asiática ninguna de las medidas  registradas en el caso de Cuba, todavía en vigor. Aunque otros funcionarios destacados en el mismo país pretendieron sumarse a la epidemia de ataques, la versión oficial solo registró a una y al poco tiempo ya no estaba en titulares.

Más inverosímil aún se hizo la historia cuando dos personas diferentes fueron registradas bajo los síntomas del “Síndrome de La Habana” en territorio estadounidense en abril del 2021 y con posterioridad  se sumaron otros funcionarios estadounidenses destacados en Alemania y Austria a la altura de agosto del 2021. En estos hechos Washington no le reclamó a Berlín o Viena (ni a sí mismo) seguridades adicionales para el confort de sus nacionales, ni se redujo el flujo de visitantes nacionales en aquellos destinos.

Si eran ciertas todas las especulaciones que se tejieron respecto a Cuba, ¿cómo se explicaba ahora que un poder maligno se moviera por medio mundo, incluida la capital estadounidense, con un “arma” que se calculaba que debía ser del tamaño de un tanque de guerra, que tendría que emitir un sonido lo suficientemente intenso como para provocar un daño cerebral, con una capacidad direccional tan perfeccionada que impactara solo a personas seleccionadas y no a las que se movían a escasos metros del objetivo?

Y sucedió lo inevitable, la teoría que fue creada para dañar las relaciones con un país extranjero fue utilizada por las supuestas víctimas para presentar ante los tribunales estadounidenses demandas judiciales bajo la acusación de que el Departamento de Estado y otras agencias no protegieron adecuadamente a sus asalariados. El cazador terminó cazado.

En todo este tiempo Cuba ha observado una actitud de total apego a la ciencia, compartiendo las opiniones y análisis de los expertos cubanos que analizan y han estudiado e intercambiado con la información limitada disponible y ofreciendo cooperación sin lanzar especulaciones sin sustento. Sin embargo, después de enfrentar en solitario durante un largo período las únicas medidas punitivas que Washington implementó por la ocurrencia de los “ataques”, hay derecho a pensar en algunas generalizaciones.

Los funcionarios-víctimas en su mayoría no son diplomáticos, sino que están vinculados a agencias de inteligencia estadounidenses. Los mismos compartieron no sólo espacios físicos y aislados en las embajadas de su país en el exterior, sino también tecnología específica en sus lugares de trabajo, así como hábitos, condiciones y exigencias comunes que los obligaron seguramente a enfrentar una alta tensión psíquica y emocional.

Bien valdría la pena que las agencias estadounidenses emplearan más tiempo en una visión introspectiva y, si no estuvieran dispuestas a hacerlo, al menos mostraran una actitud más coherente al enfrentar el problema en su conjunto. De no ser posible nada de esto, cabría esperar que rectificaran un modo de hacer que heredaron de una administración anterior, implementado con el franco propósito de provocar un retroceso irreversible en la relación bilateral con Cuba.

Gracias a la labor profesional de desclasificación de la organización estadounidense National Security Archives,  en febrero del 2021 fueron publicados tres informes sobre lo que se denominado “Síndrome de La Habana”  redactados por el Departamento de Estado, el Centro para la Prevención y el Control de Enfermedades y las Academias Nacionales de Ciencias, Ingeniería y Medicina de los EE UU. En todos ellos se reflejó lo sucedido en relación con este tema durante los años de Trump: la falta de cooperación de las agencias empleadoras de los afectados con los que realizaron las investigaciones, inexistente acceso a los implicados, decisiones precipitadas por motivaciones políticas y ausencia de una teoría que explicara la atribución de síntomas diversos a una causa común.

En particular, el informe mencionado del Departamento de Estado  sugirió que la decisión de Donald Trump de desmantelar la embajada de La Habana a principios de 2018, como reacción a unos supuestos “ataques sónicos” contra su personal diplomático, fue una “respuesta” política plagada de mala gestión, falta de coordinación e incumplimiento de las normativas. El mismo texto reveló que el exmandatario tomó la decisión de reducir el 60% del personal consular en La Habana y desactivar el funcionamiento de la embajada, sin tener prueba alguna de que Cuba estuviera detrás de los misteriosos problemas de salud que afectaron a sus funcionarios.

Textualmente el informe planteó: “La decisión de reducir el personal en La Habana no parece haber seguido los procedimientos estándar del Departamento de Estado y no fue precedida ni seguida por ningún análisis formal de los riesgos y beneficios de la presencia física continuada de los empleados del Gobierno estadounidense en La Habana”.

A confesión de partes, relevo de pruebas.

Estaremos de acuerdo en que la próxima vez que alguien exija obligaciones de paternidad, debe mostrar primero las evidencias de un embarazo, o al menos no acudir a posturas extremas.

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One thought on “Sindrome dell’Avana o Sindrome di Washington?”

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