Emendamento Platt, Plattismo, cubania

Abel Prieto Jimenez www.cubadebate.cu

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È difficile immaginare il clima spirituale di Cuba nel novembre del 1900, occupata dalle truppe USA, presieduta da un arrogante generale yankee insediato come governatore militare nell’ex Palazzo dei Capitani Generali. Con il paese occupato dagli USA, disarmato e disperso l’Esercito Libertador e sciolto il Partito Rivoluzionario Cubano, il popolo deve essersi sentito un po’ orfano. Gli avevano sequestrato i suoi ideali e, per di più, la situazione economica era disastrosa dopo tanti anni di guerra.

“Come una pietra di frustrazione”, diceva Lezama, “il cubano contemplava Martí morto, esposto all’entrata di Santiago de Cuba, o Calixto García costretto a rimanere contemplando le montagne, senza poter entrare nella città”.

I nordamericani, i nostri generosi “salvatori”, permisero la formazione di un’Assemblea Costituente, con delegati eletti con voto popolare. Dovevano redigere una Costituzione per Cuba, che sarebbe stata (finalmente!) una Repubblica indipendente. Avrebbero avuto anche una seconda missione, della massima importanza per il governo USA: il carattere delle relazioni tra Cuba e il suo vicino al Nord sarebbe stato stabilito, legalmente e scrupolosamente, in un documento normativo annesso alla Legge delle Leggi.

L’apertura dell’Assemblea Costituente si celebrò il 5 novembre 1900 presso il Teatro Irioja ribattezzato, per l’occasione, Teatro Martí. Ci fu un momento di emozionante significato patriottico: nella sessione inaugurale, venne ufficialmente riconosciuta la marcia composta nel 1868 da Perucho Figueredo come Inno Nazionale di Cuba.

Suppongo che ci fosse incertezza, timori e, inoltre, senza dubbio, speranze. La gente accorreva al Teatro Martí e seguiva le discussioni nei palchi, dove potesse accomodarsi, o attraverso la stampa, che commentava ampiamente i dibattiti.

Pochi mesi dopo quell’inaugurazione, il 21 febbraio 1901, i delegati misero a punto la Costituzione della nuova repubblica. Avrebbero dovuto, quindi, occuparsi della stesura del documento che avrebbe regolato i legami amichevoli, ovviamente, tra la nascente Repubblica di Cuba e la sua sorella maggiore.

Nel suo libro ‘Cuba: i primi anni della sua indipendenza’, Rafael Martínez Ortiz annunciava melodrammaticamente la sfida che l’Assemblea andava ad affrontare: “mancava ancora qualcosa, imposto con la rigidità inflessibile e con l’impassibilità crudele dell’inevitabile: determinare le relazioni tra Cuba e gli USA”.

L’Assemblea aveva nominato una commissione di cinque membri affinché proponesse le basi di un tema così delicato. Non sapevano che il lavoro era già stato preparato da Elihu Root, il Segretario alla Guerra USA, che aveva fatto arrivare al governatore militare dell’isola, il generale Leonard Wood, una lettera con le principali richieste che l’Emendamento Platt avrebbe poi contenuto. L’ordine era netto e chiaro: i punti riportati nella sua lettera dovevano essere inseriti nel documento che sarebbe stato sottoposto all’Assemblea Costituente.

Con un gesto molto yankee, presumibilmente cordiale e un pò intimidatorio, Wood organizzò una battuta di caccia nella Ciénaga de Zapata e invitò la commissione. Lì, tra mangrovie, coccodrilli e zanzare, in un ambiente un po’ esotico, il rappresentante dell’Impero travestito da cacciatore condivise con il quintetto di delegati le offensive parole di Root sul destino neocoloniale di Cuba.

Poco dopo, il 26 febbraio, il senatore del Connecticut Orville H. Platt, presentò al Congresso USA un emendamento al progetto di legge sul bilancio federale dell’Esercito. Presto avrebbe marcato col fuoco la storia di Cuba con il nome di Emendamento Platt.

Lo storico Ernesto Limia, che ha studiato a fondo l’intero processo di imposizione del fatidico Emendamento, assicura che questo passaggio “Fu un colpo deliberato: lo introdusse cinque giorni prima della chiusura del Congresso. Era poco probabile che i democratici ritardassero il voto, visto il timore di critiche se non avessero fornito aiuto al corpo armato dell’Unione sulla questione cubana”. (“L’emendamento Platt: una camicia di forza contro la Cuba mambisa”)

Il 27 febbraio, su Puck venne pubblicata una vignetta intitolata “Stimolando il bambino”. Nel disegno, un bimbo nero con un cappello da mambí costruiva un Campidoglio  giocattolo e lo Zio Sam lo incoraggiava e, allo stesso tempo, gli lanciava un benevolo avvertimento: “Così si fa, bambino mio! Avanti! Ma ricorda, terrò sempre un occhio paterno su di te!” (Louis A. Pérez Jr., ‘Cuba nell’immaginario degli USA’)

L’emendamento fu approvato al Senato lo stesso giorno, il 27 (43 voti contro 20). Il 1 marzo la Camera dei Rappresentanti lo ratificò con 159 voti favorevoli e 134 contrari, e il presidente McKinley lo firmò il giorno successivo.

Fu un colpo terribile per i cubani che per trent’anni avevano lottato per la sua piena indipendenza. I delegati dell’Assemblea Costituente rimasero costernati per la trappola che veniva alla luce in tutta la sua perversità. Compresero che la Risoluzione Congiunta del Congresso USA del 19 aprile 1898 —che stabiliva nel suo primo punto che “il popolo dell’isola di Cuba deve essere libero e indipendente”— non era altro che parte di quella trappola: una farsa, una cortina di fumo per coprire i piani imperiali.

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Secondo Limia, “Wood iniziò quindi l’assalto più corruttivo del suo intero mandato, ricorrendo al ricatto economico come risorsa politica”. Il 21 marzo un antico autonomista, Luis V. de Abad, segretario della “Commissione delle Corporazioni Economiche”, recentemente tornato da un giro negli USA, disse al quotidiano La Discusión che “dall’approvazione in Campidoglio dell’Emendamento Platt, il valore della proprietà a Cuba salì del 50%”. D’altra parte, i prodotti cubani non avrebbero ottenuto franchigie se l’Assemblea Costituente s’intestardiva nel respingere l’Emendamento. E concludeva con la tesi illustrativa (e ricorrente) dei “due cammini”: “Cuba ha, ora, l’opportunità di scegliere il suo futuro percorso lungo due cammini diversi: uno, bello e facile, la porterà ad un rapido e sicuro ingrandimento, l’altro accidentato e pericoloso, porterà i cubani nell’abisso. Sono a tempo per seguire la migliore rotta.”

Anche Martínez Ortiz, nel libro citato, ci parla dei “due cammini”. Considera fatali per Cuba “il cammino degli idealismi utopici”, la “malata soggettività” di “sognare ciò che potrebbe essere e chiudere gli occhi su ciò che è”, e “gli impulsi ciechi di un sentimentalismo morboso”. Se un giorno si manifestasse una qualche contraddizione tra la Repubblica cubana e gli USA, “la morte dei più deboli sarebbe fatale, assolutamente inevitabile”.

L’altro cammino è quello realistico. Per Cuba, secondo Martínez Ortiz, il “realismo” è questione di vita o di morte, e realismo a Cuba significa considerare risolto con l’approvazione dell’Emendamento Platt, il problema della sua personalità nazionale, sia pure con “ostacoli e limitazioni”. I cubani dovrebbero assumere la subordinazione agli USA e mai porre “nemmeno in dubbio” la coincidenza di interessi tra la neocolonia e il Padrone del Nord.

L’amicizia di Cuba con gli USA, “francamente e lealmente coltivata”, continua questo entusiasta predicatore del plattismo, ci offre “la sola opportunità per essere, domani, una nazione potente”. Cuba potrebbe convertirsi, con il consenso yankee, nel centro di una grande confederazione antillana, che non minacci la “civiltà sassone”, bensì che sia “il circolo massimo e neutrale delle due grandi divisioni imposte dal destino al grande continente americano”, nonché “il negozio amico dove, in santa alleanza, si mescolano e si confondono i discendenti delle due grandi famiglie che […] realizzano la grande opera dell’Era Americana”.

Spogliando il progetto di verbosità e dei soliti eufemismi, potremmo aspirare, sembra, all’interno del disegno della geopolitica plattista, al ruolo di rappresentanti o di gendarmi regionali dell’Impero, con l’attrattiva in più, forse, di essere un “negozio amico” , dove “la razza latina” si subordina, piacevolmente, alla “razza sassone”, in un simpatico benché poco glorioso lieto fine.

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Tornando alle tensioni che l’Assemblea Costituente cubana soffrì in quei turbolenti mesi del 1901, è utile seguire il cammino di un altro quintetto di delegati che si recarono a Washington, in aprile, con la speranza di negoziare una soluzione meno umiliante per la futura Repubblica. A capo del gruppo c’era Domingo Méndez Capote, il presidente dell’Assemblea.

Si riunirono con Elihu Root in tre occasioni. Nell’ultima, il Segretario alla Guerra fu conclusivo: “L’Emendamento votato dal Congresso e sanzionato dal Presidente costituisce una soluzione inalterabile. Non possiamo retrocedere”.

Anche McKinley li ricevette tre volte, ci racconta Limia, “ma sempre evitò di parlare dell’Emendamento Platt e condizionò valutare la concessione di tariffe presidenziali per i prodotti cubani alla costituzione della Repubblica”. Naturalmente, per costituire la Repubblica, doveva prima andarsene l’esercito di occupazione -e ciò sarebbe avvenuto solo dopo che la scandalosa appendice costituzionale fosse accettata dai cubani.

Dopo la delegazione si recò a New York per incontrare Tomás Estrada Palma. Quel simulatore annessionista, che tradì Martí e Cuba, che seppellì il Partito Rivoluzionario Cubano, disse loro che dovevano cedere. Cedere, cedere, non c’è altra alternativa. Cos’altro poteva dir loro?

Secondo un articolo del ricercatore Néstor García Iturbe intitolato “Il padre cubano dell’Emendamento Platt”, Emilio Roig de Leuchsenring dava quel vergognoso titolo a Tomás Estrada Palma. Questa idea si basa su un articolo di Manuel Sanguily pubblicato su El Fígaro nel 1922, dove si analizzano le note inviate a McKinley dall’allora delegato della Repubblica di Cuba negli USA, nel febbraio 1898. Estrada Palma afferma in una di quelle note che il popolo cubano “per ora” non è annessionista; ma vuole che il vicino del Nord garantisca la pace del paese. E Sanguily conclude: “non è violento né esagerato pretendere che in quella corrispondenza con McKinley suggerisse al signor Estrada Palma un atteggiamento del governo americano molto analogo a quanto poi stabilito nell’Emendamento Platt”. Penso, con il perdono di qualcuno che stimo tanto come Sanguily, che ci sia un’esagerazione in questa storia: la paternità esclusiva di quel mostro corrisponde all’oligarchia yankee e alla filosofia imperialista che aveva assunto. Estrada Palma fu solo un servitore fedele.

Dei cinque viaggiatori quattro votarono, al loro ritorno, a favore dell’emendamento Platt.

Juan Gualberto Gómez e Salvador Cisneros Betancourt si distinsero per la loro coerenza, i loro principi e la loro etica e fecero quanto in loro potere per confutare quella manovra che ci offriva come regalo avvelenato una Repubblica mutilata e caricaturale. E ci furono casi molto tragici, come quello del patriota Manuel Sanguily, trascinato a votare contro sé stesso e contro tutto ciò che aveva difeso in tutta la sua vita.

“Il dibattito si polarizzò”, spiega Limia: “…da un lato gli indipendentisti, che si rifiutavano di ammettere un regime incompatibile con la sovranità nazionale; dall’altro, i più facoltosi proprietari terrieri e  uomini d’affari –in maggioranza spagnoli e investitori statunitensi–, gli antichi autonomisti e la classe media legata al mondo imprenditoriale yankee, tra cui si trovavano non pochi ufficiali dell’Esercito  Libertador. Nel mezzo, un segmento non trascurabile dell’indipendentismo che si sentiva impotente di fronte agli stratagemmi USA per prolungare indefinitamente l’intervento. // Rimaneva solo il ricorso alla guerra e nulla si poteva fare con la forza contro gli USA – fu l’idea difesa dalla parte che puntò sul protettorato e della quale si fece eco la gran parte della stampa, in una campagna rafforzata con interviste ai sostenitori dell’Emendamento Platt perché, secondo quanto affermavano, era l’unica via d’uscita dalla crisi economica e per preservare la pace sociale, discorso che raggiunse maggior risonanza tra le classi alte e medie della borghesia cubana quando si convertì nella posizione ufficiale  del Circolo dei Proprietari e degli Agricoltori e della Società Economica degli Amici del Paese”.

Infine, in un giorno come oggi, 12 giugno 1901, 121 anni fa, in una sessione segreta dell’Assemblea Costituente, l’Emendamento Platt fu approvato come appendice alla Costituzione della nuova Repubblica. Dei 27 delegati presenti, 16 votarono a favore e 11 contrari. Erano stati sottoposti a tutte le pressioni possibili del governo USA e a grossolani ricatti: l’occupazione militare dell’isola sarebbe finita solo con l’accettazione, da parte dei cubani, dell’Emendamento senza alcuna modifica.

Si chiudeva così il ciclo iniziato il 5 novembre 1900. L’Assemblea Costituente, che alla sua nascita aveva reso omaggio a Martí, ribattezzando un bel teatro col suo sacro nome, e a Céspedes, installando l’inno di Perucho nel seggio più alto dei simboli della patria, concludeva la sua esistenza nel modo più oscuro e doloroso.

Raúl Roa vide la portata trascendente dell’Emendamento Platt come strumento giuridico del modello neocoloniale che s’inaugurava a Cuba: “Questa umiliante e ferrea camicia di forza costituiva, come si è detto, il sostitutivo dell’annessione e l’asta del successivo salto predatorio dell’imperialismo yankee nel Mar dei Caraibi e nel sud del continente. Corollario della Dottrina Monroe, l’Emendamento Platt gli avrebbe impresso forza internazionale a questo strumento di egemonia nordamericana in America.” (Avventure, venture e sventure di un mambí)

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L’Emendamento Platt lasciò una profondissima impronta culturale tra noi, persino dopo la sua abrogazione nel 1934. Martí lo aveva avvertito: l’idea dell’annessione è condannata all'”impotenza permanente”; ma «è un fattore grave e continuo della politica cubana» e «domani», profetizza, «perturberà la nostra repubblica». (“Il rimedio annessionista”, Patria, 2 luglio 1892)

Alcuni principi culturali di base del plattismo si sfumarono pericolosamente nella coscienza collettiva, specialmente nei primi anni della Repubblica Neocoloniale. Il panegirico dei programmi di igienizzazione, ordine interno ed educazione portati avanti dal governo interventista, tra il 1898 e il 1902, si combinò con una lettura yankee della storia di Cuba e dell’America, e con la permanente minaccia di un intervento diretto degli USA di fronte agli scioperi operai, rivolte e lotte tra gruppi politici. Il parere dell’ambasciatore e del governo USA era un punto di riferimento indispensabile per qualsiasi azione politica, per moderata che fosse. Insieme all’onnipresente e potente “tutore” yankee, si estende la metafora del popolo cubano come un bambino vigilato, e della società cubana come un organismo immaturo, infantile, che dà i suoi primi passi ed ha bisogno di aiuto e di una paternale severità.

Louis A. Pérez Jr., nel suo interessantissimo libro ‘Cuba nell’immaginario degli USA’, assicura: “La metafora dei cubani come bimbi prendeva come modello di governo (…) i rapporti genitori-figli: il padre vigila, il bimbo si sottomette; il padre disciplina, il bimbo obbedisce; il padre insegna, il bimbo impara; il tutto in una logica che (…) convalida l’esercizio del potere non come una questione di prerogativa, bensì come adempimento di un’obbligazione morale, sempre nella forma di una benefica supervisione paternale.”

E fa diversi esempi molto curiosi. Ne scelgo tre:

Lo stesso senatore Orville Platt, il 27 giugno 1901, pubblicò un articolo intitolato “La pacificazione di Cuba”: “In molti aspetti loro (i cubani) sono come bimbi. Sono appassionatamente devoti ai sentimenti di libertà e indipendenza ma, al momento, hanno poca idea reale delle responsabilità, doveri e risultati pratici del governo repubblicano”.

Il colonnello Robert L. Bullard partecipò all’occupazione militare di Cuba, tra il 1899 e il 1902, e poi nel secondo intervento, tra il 1906 e il 1909. Scrisse un articolo sulle differenze tra cubani e statunitensi dove si estende nella metafora del popolo-bimbo a cui urge un tutore. I cubani sono “emotivi e sovraeccitabili”. “Continuano ad essere bimbi. Il che rende necessario che un vicino li prenda per mano, li controlli, diriga, gestisca il loro governo e la loro politica pubblica”.

Nel 1902, Woodrow Wilson, che allora dirigeva la Princeton University e che poi sarebbe diventato presidente degli USA, scrisse in un articolo (“The Ideal of America”): “La libertà non è di per sé il governo. Nelle mani sbagliate -in mani inesperte e indisciplinate- è incompatibile con il governo. Deve essere preceduta dalla disciplina -se necessario la disciplina inculcata da precettori (…). Governeremo come lo fanno coloro che hanno appreso e loro devono obbedirci come lo fanno coloro che stanno imparando. In queste profonde questioni di governo e giustizia, loro sono bimbi e noi siamo uomini.”

Come non ricordare, davanti a questa fusione aberrante di stupidità e superbia, “Vindication de Cuba” di José Martí?

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Durante la Repubblica neocoloniale fiorì il plattismo, sia nel suo lato opportunista, picaresco e corrotto (“Lo squalo si bagna ma spruzza”), sia nel suo aspetto tragico, caratterizzato dalla ferita che, quotidianamente, infliggeva ai cubani degni.

“Siamo l’ombra di un popolo”, sarà l’amara opinione del poeta José Manuel Poveda nella sua “Elegia del ritorno”, del 1918. E aggiunge: “I paragrafi tristi o collerici dei nostri patrioti suonano come un rumore insensato nelle coscienze, ed è che non siamo indipendenti. Non siamo altro che una fabbrica coloniale, costretta a lavorare e a dare il suo raccolto e il suo frutto, costretta dalla frusta. Siamo disorganizzati, avviliti, come un cattivo seguito; non possiamo difenderci. Un soffio di dispersione ha spazzato via le coscienze, e tutto ciò che c’era di dignità, purezza e coraggio nelle coscienze; un soffio di dissoluzione ha disgregato tutte le energie creative dell’anima nazionale.”

Nel 1949, nel suo saggio “I fattori umani della cubanità”, Fernando Ortiz fa riferimento a quei compatrioti che sono stati assorbiti dalla cultura platttista e dall’abbagliamento di tutto ciò che è yankee: “Ci sono cubani”, sottolinea, che “non vogliono essere cubani e persino si vergognano e lo rinnegano seriamente”. In essi «la cubanità manca di pienezza, è castrata». Ecco perché è necessario un nuovo concetto: la “cubania”, che è “cubanità piena, sentita, cosciente e desiderata; cubanità responsabile”.

Circa otto anni dopo, nel 1957, nell’ultimo discorso del suo ciclo su Il cubano nella poesia, Cintio Vitier riconosceva con angoscia che «siamo vittime della più sottilmente corruttrice influenza che l’emisfero occidentale abbia mai sofferto», “l’american way of life”, che si caratterizza per “de-sostanziare dalla radice i valori di tutto ciò che tocca”.

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Negli anni 50 il processo di assorbimento culturale che stava soffrendo il Paese si era visibilmente accelerato. La Rivoluzione arrivò ad interrompere quell’escalation denazionalizzante e portò in primo piano l’ideale incompiuto di Martí e dei fondatori. Il gennaio 1959 rappresentò l’opportunità di completare il progetto nazionale e di promuovere l’identità e la cultura cubane. Il plattismo all’interno del paese retrocede. Non si estingue; ma retrocede.

Il cubano sperimentò l’inaspettata sensazione che la sua azione come popolo avesse un significato al di là dell’isola; che la sua opera, ciò che lui fa e costruisce, è osservato e apprezzato da molti uomini e donne ovunque. Quell’idea di Martí, che collegava le responsabilità dei nostri indipendentisti nientemeno che con “l’equilibrio del mondo”, si fa patrimonio comune dei cubani dopo il 1959.

Lezama diceva  che con l’opera di Heredia “è la prima volta che un cubano parla ad alta voce; è la prima volta che un cubano si universalizza, […] che un cubano va oltre i suoi confini”. Potremmo dire che, con la Rivoluzione, per la prima volta Cuba, come nazione, si universalizza; per la prima volta Cuba, come nazione, “parla ad alta voce” ed è ascoltata.

Il sostegno popolare alla Rivoluzione Cubana del 1959 fu così schiacciante che “la politica USA fu costretta a stabilire le basi sociali della controrivoluzione all’estero, dove il plattismo avrebbe assunto le sue posizioni più estreme, al punto che giustificare l’intervento militare USA. divenne l’obiettivo finale di questi gruppi”, segnalò Jesús Arboleya, diversi anni fa, in un’analisi su “L’influenza della cultura nordamericana a Cuba”.

Più recentemente, lo spietato inasprimento del blocco e l’impatto della pandemia hanno fatto riapparire il fantasma dell’Emendamento Platt in una nuova offensiva contro la Rivoluzione cubana. Il 13 luglio 2021, nella denuncia presentata dal nostro ministro degli Esteri, Bruno Rodríguez Parrilla, dell’aggressione comunicativa e digitale degli USA contro Cuba, ha evidenziato la componente dell’ “intervento umanitario“. E, come ha sottolineato lo stesso Bruno, tutti sanno cosa significa un intervento umanitario USA e quali siano le sue conseguenze.

Quattro giorni dopo, il 17 luglio, secondo il Portal Martí Noticias, “Organizzazioni dell’esilio cubano e  funzionari eletti della città di Miami chiesero al presidente Biden di non escludere un intervento militare a Cuba per rovesciare il governo dell’isola. Gli esiliati cubani chiedono a Biden di tenere tutte le ‘opzioni sul tavolo’ su Cuba e hanno ricordato che i suoi predecessori, sia democratici che repubblicani, sono intervenuti in altri paesi in difesa della libertà e dei diritti umani”.

Il giorno successivo, il 18 luglio, secondo un cablogramma di Europa Press datato Madrid, più di 420000 persone firmarono una petizione indirizzata a Biden affinché realizzasse un intervento militare a Cuba.

“I cubani liberi del mondo chiedono inequivocabilmente un intervento militare da parte USA e della NATO per porre fine alla mafia castrista e liberare il popolo cubano che vive immerso nel terrore, nella miseria, nella fame e nella coercizione. Vogliamo una Cuba libera e prospera! Abbasso il comunismo!”

Qui ci ritroviamo, come può vedersi, con la tesi dei “due cammini”. Quello della “libertà” e della “prosperità” non è altro che il ritorno al capitalismo e alla condizione neocoloniale. Suppongo che, a parte i troll e i bot, ci siano dei cubani vociferanti e malati che vorrebbero vedere, attraverso i loro telefoni cellulari, lo spettacolo di un genocidio made in USA a Cuba. Credo che nel profondo di loro stessi “non vogliono essere cubani e persino si vergognano e lo rinnegano seriamente”. In essi, come direbbe Fernando Ortiz, «la cubanità manca di pienezza, è castrata».

La “cubania”, come è noto, è difesa dalla maggioranza dei cubani dell’isola e da moltissimi emigranti solidali, che rifiutano il plattismo, l’odio e il fascismo. E ci accompagna gente tanto nobile e luminosa come quella che ha portato la verità di Cuba a Los Angeles, al Vertice dei Popoli.


Enmienda Platt, plattismo, cubanía

Por: Abel Prieto Jiménez

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Resulta difícil imaginar el clima espiritual de la Cuba de noviembre de 1900, ocupada por tropas norteamericanas, presidida por un arrogante generalote yanqui instalado como gobernador militar en el antiguo Palacio de los Capitanes Generales. Con el país intervenido por los EEUU, el Ejército Libertador desarmado y disperso y el Partido Revolucionario Cubano disuelto, el pueblo debe haberse sentido un poco huérfano. Le habían secuestrado sus ideales, y, para colmo, la situación económica era desastrosa después de tantos años de guerra.

“Como una piedra de frustración”, decía Lezama, “el cubano contemplaba a Martí muerto, expuesto a la entrada de Santiago de Cuba, o a Calixto García obligado a quedarse contemplando las montañas, sin poder entrar en la ciudad.”

Los norteamericanos, nuestros generosos “salvadores”, permitieron la conformación de una Asamblea Constituyente, con delegados elegidos por votación popular. Debían redactar una Constitución para Cuba, que sería (¡por fin!) una República independiente. Tendrían igualmente una segunda misión, de la mayor importancia para el gobierno de los EEUU: el carácter de las relaciones entre Cuba y su vecino del Norte quedaría legal y escrupulosamente fijado en un documento normativo anexo a la Ley de Leyes.

La apertura de la Asamblea Constituyente se celebró el 5 de noviembre de 1900 en el Teatro Irioja, rebautizado como Teatro Martí para la ocasión. Hubo un momento de emotivo significado patriótico: en la sesión inaugural, quedó oficialmente reconocida la marcha compuesta en 1868 por Perucho Figueredo como Himno Nacional de Cuba.

Supongo que había incertidumbre, recelos, y además, sin dudas, esperanzas. La gente acudía al Teatro Martí y seguía las discusiones en los palcos, donde pudiera acomodarse, o a través de la prensa, que comentaba profusamente los debates.

Unos meses después de aquella inauguración, el 21 de febrero de 1901, los delegados pusieron punto final a la Constitución de la nueva república. Deberían, pues, acometer la redacción del documento que normaría los vínculos amistosos, por supuesto, entre la naciente República de Cuba y su hermana mayor.

En su libro Cuba: los primeros años de su independencia, Rafael Martínez Ortiz anunciaría con tono melodramático el reto que iba a enfrentar la Asamblea: “aún faltaba algo impuesto con la rigidez inflexible y con la impasibilidad cruel de lo inevitable: determinar sobre las relaciones futuras entre Cuba y los EEUU”.

La Asamblea había nombrado a una comisión de cinco miembros para que propusiera las bases de un tema tan delicado. No sabían que ya les había adelantado el trabajo Elihu Root, el Secretario de la Guerra de los EEUU, quien había hecho llegar al gobernador militar de la Isla, general Leonard Wood, una carta con las exigencias principales que iba a contener luego la Enmienda Platt. La orden era tajante y clara: los puntos relacionados en su carta tenían que quedar recogidos en el documento que se sometiera a la Asamblea Constituyente.

En un gesto muy yanqui, supuestamente campechano y algo intimidante, Wood organizó una cacería en la Ciénaga de Zapata e invitó a la comisión. Allí, entre manglares, cocodrilos y mosquitos, en un entorno un tanto exótico, el representante del Imperio disfrazado de cazador compartió con el quinteto de delegados las ofensivas palabras de Root sobre el destino neocolonial de Cuba.

Poco después, el 26 de febrero, el Senador por Connecticut Orville H. Platt, presentó ante el Congreso de los EEUU una enmienda al proyecto de ley del presupuesto federal del Ejército. Pronto marcaría con fuego la historia de Cuba con el nombre de Enmienda Platt.

El historiador Ernesto Limia, que ha estudiado a fondo todo el proceso de la imposición de la fatídica Enmienda, asegura que este paso “Fue un golpe deliberado: la introdujo cinco días antes de que recesara el Congreso. Era poco probable que los demócratas dilataran la votación, dado el temor a las críticas si no prestaban auxilio al cuerpo armado de la Unión por el asunto cubano.” (“La Enmienda Platt: una camisa de fuerza contra la Cuba mambisa”)

El 27 de febrero se publicó una caricatura en Puck titulada  “Estimulando al niño”. En el dibujo, un niño negro con sombrero de mambí construía un Capitolio de juguete y el Tío Sam lo animaba y, al propio tiempo, le hacía una benévola advertencia: “¡Así se hace, mi niño! ¡Adelante! ¡Pero, recuerda, siempre mantendré un ojo paterno en ti!” (Louis A. Pérez Jr., Cuba en el imaginario de los EEUU)

La Enmienda fue aprobada en el Senado ese mismo día 27 (43 votos contra 20). El 1º de marzo la Cámara de Representantes la ratificó con 159 votos a favor y 134 en contra, y el presidente McKinley la firmó al día siguiente.

Fue un golpe terrible para los cubanos que habían luchado durante treinta años por su plena independencia. Los delegados de la Asamblea Constituyente quedaron consternados por la trampa que salía a la luz en toda su perversidad. Comprendieron que la Resolución Conjunta del Congreso de EEUU del 19 de abril de 1898 —que establecía en su primer punto que “el pueblo de la isla de Cuba debe ser libre e independiente”— no era más que parte de esa trampa: una farsa, una cortina de humo para encubrir los planes imperiales.

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Según Limia, “Wood inició entonces la más corruptora arremetida de todo su mandato, acudiendo al chantaje económico como recurso político”. El 21 de marzo, un antiguo autonomista, Luis V. de Abad, secretario de la “Comisión de Corporaciones Económicas”, recién llegado de una gira por EEUU, dijo al periódico La Discusión que “desde la aprobación en el Capitolio de la Enmienda Platt, el valor de la propiedad en Cuba subió en un 50%”. Por otra parte, los productos cubanos no obtendrían franquicias si la Asamblea Constituyente se empecinaba en rechazar la Enmienda. Y concluía con la tesis tan ilustrativa (y recurrente) de “los dos caminos”: “Cuba tiene ahora la oportunidad de elegir su marcha futura por dos caminos diferentes: uno, hermoso y fácil, la conducirá a su engrandecimiento rápido y seguro, otro accidentado y peligroso, llevará al abismo a los cubanos. A tiempo están de tomar el mejor rumbo.”

También Martínez Ortiz, en el libro citado, nos habla de los “dos caminos”. Considera fatales para Cuba “el camino de los idealismos utópicos”, la “enfermiza subjetividad” de “soñar con lo que pudo ser y cerrar los ojos a lo que es”, y “los impulsos ciegos de un sentimentalismo morboso”. Si algún día apareciera alguna contradicción entre la República cubana y los EEUU, “la muerte del más débil sería fatal, absolutamente inevitable”.

El otro camino es el realista. Para Cuba, según Martínez Ortiz, “realismo” es cuestión de vida o muerte, y realismo en Cuba significa considerar resuelto, con la aprobación de la Enmienda Platt, el problema de su personalidad nacional, aunque con “cortapisas y limitaciones”. Los cubanos tendrían que asumir la subordinación a los EEUU y nunca poner “ni en tela de duda siquiera” la coincidencia de intereses entre la neocolonia y el Amo del Norte.

La amistad de Cuba con los Estados Unidos, “franca y lealmente cultivada”, sigue diciendo este entusiasta predicador del plattismo, nos proporciona “la sola coyuntura de ser mañana una nación poderosa”. Cuba podría convertirse, con la anuencia yanqui, en el centro de una gran confederación antillana, que no amenace a la “civilización sajona”, sino que sea “el círculo máximo y neutral de las dos grandes divisiones impuestas por el destino al gran continente americano”, así como “la tienda amiga donde, en alianza santa, se mezclan y confundan los descendientes de las dos grandes familias que […] realicen la grandiosa labor de la Era Americana”.

Despojando el proyecto de palabrería y de los consabidos eufemismos, podríamos aspirar, al parecer, dentro del diseño de la geopolítica plattista, al papel de representantes o de gendarmes regionales del Imperio, con el atractivo extra, quizá, de ser una “tienda amiga”, donde “la raza latina” se subordina gozosamente a “la raza sajona”, en un simpático aunque poco glorioso final feliz.

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Volviendo a las tensiones que sufría la Asamblea Constituyente cubana en aquellos meses turbulentos de 1901, es útil seguir el recorrido de otro quinteto de delegados que viajaron en abril a Washington con la esperanza de negociar una salida menos humillante para la futura República. Al frente del grupo iba Domingo Méndez Capote, el presidente de la Asamblea.

Se reunieron con Elihu Root en tres ocasiones. En la última el Secretario de la Guerra fue concluyente: “La Enmienda votada por el Congreso y sancionada por el Presidente, constituye una solución inalterable. No podemos retroceder.”

McKinley también los recibió tres veces, nos cuenta Limia, “pero siempre esquivó hablar sobre la Enmienda Platt y condicionó evaluar la concesión de tarifas preferenciales para los productos cubanos a que se constituyera la República”. Por supuesto, para constituir la República, tenía que irse antes el ejército de ocupación —y esto solo sucedería después de ser aceptado por los cubanos el escandaloso apéndice constitucional.

Luego la delegación fue a Nueva York a verse con Tomás Estrada Palma. Aquel simulador anexionista, que traicionó a Martí y a Cuba, que sepultó al Partido Revolucionario Cubano, les dijo que había que ceder. Ceder, ceder, no hay otra alternativa. ¿Qué otra cosa iba a decirles?

Según un artículo del investigador Néstor García Iturbe titulado “El padre cubano de la Enmienda Platt”, Emilio Roig de Leuchsenring otorgaba ese deshonroso título a Tomás Estrada Palma. Fundamenta esta idea un artículo de Manuel Sanguily publicado en El Fígaro en 1922, donde se analizan las notas que hacía llegar a McKinley el entonces delegado de la República de Cuba en EEUU en febrero de 1898. Estrada Palma afirma en una de esas notas que el pueblo cubano “por ahora” no es anexionista; pero quiere que el vecino del Norte garantice la paz del país. Y concluye Sanguily: “no es violento ni exagerado pretender que en esa correspondencia con McKinley sugería el señor Estrada Palma una actitud del gobierno americano muy análoga a lo estatuido después en la Enmienda Platt”. Creo, con perdón de alguien a quien respeto tanto como Sanguily, que sí hay exageración en esta historia: la paternidad exclusiva de aquel monstruo le corresponde a la oligarquía yanqui y a la filosofía imperialista que había asumido. Estrada Palma fue solo un sirviente fiel.

De los cinco viajeros, cuatro votaron a su regreso a favor de la Enmienda Platt.

Juan Gualberto Gómez y Salvador Cisneros Betancourt brillaron por su coherencia, sus principios y su ética e hicieron cuanto estuvo en sus manos para rebatir aquella maniobra que nos ofrecía como regalo envenenado una República mutilada y caricaturesca. Y hubo casos muy trágicos, como el del patriota Manuel Sanguily, arrastrado a votar contra sí mismo y contra todo lo que había defendido a lo largo de su vida.

“El debate se polarizó”, explica Limia: “…de un lado los independentistas, que se rehusaban a admitir un régimen incompatible con la soberanía nacional; del otro, los más acaudalados hacendados y hombres de negocios –la mayoría españoles e inversionistas estadounidenses–, los antiguos autonomistas y la clase media vinculada al mundo empresarial yanqui, entre la que se encontraban no pocos oficiales del Ejército Libertador. En el medio, un segmento no despreciable del independentismo que se sentía impotente ante las estratagemas de EEUU para prolongar la intervención por tiempo indefinido. // Quedaba solo el recurso de la guerra y nada se podía por la fuerza contra EEUU –fue la idea que defendió el bando que apostó al protectorado y de la cual se hizo eco la mayoría de la prensa, en una campaña reforzada con entrevistas a los partidarios de la Enmienda Platt, porque, según decían, era el único modo de salir de la crisis económica y de preservar la paz social, discurso que alcanzó mayor resonancia entre las clases alta y media de la burguesía cubana cuando se convirtió en la posición oficial del Círculo de Hacendados y Agricultores y de la Sociedad Económica de Amigos del País.”

Finalmente, un día como hoy, el 12 de junio de 1901, hace 121 años, en una sesión secreta de la Asamblea Constituyente, fue aprobada la Enmienda Platt como apéndice de la Constitución de la nueva República. De los 27 delegados presentes, 16 votaron a favor y 11 en contra. Habían sido sometidos a todas las presiones posibles por parte del gobierno de los EEUU y a un chantaje grosero: la ocupación militar de la Isla solo terminaría con la aceptación por los cubanos de la Enmienda sin modificación alguna.

Se cerró así el ciclo iniciado el 5 de noviembre de 1900. La Asamblea Constituyente que en su nacimiento había rendido homenaje a Martí, al rebautizar con su nombre sagrado un bello teatro, y a Céspedes, instalando el himno de Perucho en el sitial mayor de los símbolos de la patria, concluía de la manera más oscura y dolorosa su existencia.

Raúl Roa vio el alcance trascendente de la Enmienda Platt como instrumento jurídico del modelo neocolonial que se estrenaba en Cuba: “Esta humillante y férrea camisa de fuerza constituía, como se ha dicho, el sustitutivo de la anexión y la garrocha del ulterior salto predatorio del imperialismo yanqui en el Mar Caribe y en el sur del continente. Corolario de la Doctrina Monroe, la Enmienda Platt le imprimiría fuerza internacional a este instrumento de hegemonía norteamericana en América.” (Aventuras, venturas y desventuras de un mambí)

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La Enmienda Platt dejó una hondísima huella cultural entre nosotros, incluso después de su derogación en 1934. Martí lo había advertido: la idea de la anexión está condenada a “impotencia permanente”; pero “es un factor grave y continuo de la política cubana”, y “mañana”, profetiza, “perturbará  nuestra república”. (“El remedio anexionista”, Patria, 2 de julio de 1892)

Algunos principios culturales básicos del plattismo se difuminaron peligrosamente en la conciencia colectiva, sobre todo en los primeros años de la República Neocolonial. El panegírico de los programas de higienización, orden interior y educación que llevó a cabo el gobierno interventor entre 1898 y 1902 se combinó con una lectura yanqui de la historia de Cuba y de América, y con la permanente amenaza de la intervención directa de los EEUU ante huelgas obreras, disturbios y pugnas entre grupos políticos. La opinión del embajador y del gobierno norteamericano era un punto de referencia indispensable para cualquier acción política, por moderada que esta fuese. Junto al “tutor” yanqui omnipresente y poderoso, se extiende la metáfora del pueblo cubano como un niño vigilado, y de la sociedad cubana como un organismo inmaduro, infantil, que da sus primeros pasos y necesita ayuda y una paternal severidad.

Louis A. Pérez Jr., en su interesantísimo libro Cuba en el imaginario de los EEUU, asegura: “La metáfora de los cubanos como niños tomaba como modelo de gobierno (…) las relaciones padres-hijos: el padre supervisa, el niño se somete;  el padre disciplina, el niño obedece; el padre enseña, el niño aprende; todo dentro de una lógica que (…) valida el ejercicio del poder no como una cuestión de prerrogativa, sino como el cumplimiento de una obligación moral, siempre en la forma de una benéfica supervisión paternal.”

Y pone varios ejemplos muy curiosos. Escojo tres:

El propio Senador Orville Platt, el 27 de junio de 1901, publicó un artículo titulado “La pacificación de Cuba”: “En muchos aspectos ellos (los cubanos) son como niños. Son apasionadamente devotos de los sentimientos de libertad e independencia, pero, hasta el momento, tienen poca idea real de las responsabilidades, deberes y resultados prácticos del gobierno republicano.”

El coronel Robert L. Bullard estuvo en la ocupación militar de Cuba entre 1899 y 1902 y luego en la segunda intervención, entre 1906 y 1909. Escribió un artículo sobre las diferencias entre cubanos y estadounidenses donde se extiende en la metáfora del pueblo-niño urgido de un tutor. Los cubanos son “emocionales y sobrexcitables”. “Siguen siendo niños. Lo que hace necesario que un vecino los tome de la mano, los controle, dirija, administre su gobierno y su política pública.”

En 1902, Woodrow Wilson, que entonces dirigía la Universidad de Princeton y que luego llegaría a ser presidente de los EEUU, escribió en un artículo (“El ideal de América”): “La libertad no es por sí misma el gobierno. En manos equivocadas —en manos sin práctica, indisciplinadas— es incompatible con el gobierno. Debe estar precedida por la disciplina —si es necesario, la disciplina inculcada por preceptores (…). Gobernaremos como lo hacen los que han aprendido y ellos deben obedecernos como lo hacen los que se encuentran aprendiendo. En estas profundas cuestiones del gobierno y la justicia, ellos son niños y nosotros somos hombres.”

¿Cómo no recordar, ante esta fusión aberrante de estupidez y soberbia, “Vindicación de Cuba” de José Martí?

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Durante la República neocolonial, floreció el plattismo, tanto en su lado oportunista, picaresco y corrupto (“Tiburón se baña pero salpica”) como en su aspecto trágico, caracterizado por la herida que ocasionaba cotidianamente en los cubanos dignos.

“Somos la sombra de un pueblo”, será el amargo dictamen del poeta José Manuel Poveda en su “Elegía del retorno”, de 1918. Y agrega: “Los párrafos tristes o coléricos de nuestros patriotas suenan como un ruido sin sentido en las conciencias, y es que no somos independientes. No somos sino una factoría colonial, obligada a trabajar y a dar su cosecha y su fruto compelida por el látigo. Estamos desorganizados, envilecidos, como una mala mesnada; no podemos defendernos. Un soplo de dispersión ha barrido las conciencias, y todo cuanto había de dignidad, pureza y valentía en las conciencias; un soplo de disolución ha disgregado todas las energías creadoras del alma nacional.”

En 1949, en su ensayo “Los factores humanos de la cubanidad”, Fernando Ortiz se refiere a aquellos compatriotas que han sido absorbidos por la cultura plattista y por el deslumbramiento ante todo lo yanqui: “Hay cubanos”, subraya, que “no quieren ser cubanos y hasta se avergüenzan y reniegan de serio”. En ellos, “la cubanidad carece de plenitud, está castrada”. Por eso es necesario un nuevo concepto: la “cubanía”, que es “cubanidad plena, sentida, consciente y deseada; cubanidad responsable”.

Unos ocho años más tarde, en 1957, en la última charla de su ciclo sobre Lo cubano en la poesía, Cintio Vitier reconocía con angustia que “somos víctimas de la más sutilmente corruptora influencia que haya sufrido jamás el hemisferio occidental”, “el american way of life”, que se caracteriza    por “desustanciar desde la raíz los valores de todo lo que toca”.

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En la década de 1950, el proceso de absorción cultural que estaba sufriendo el país se había acelerado de manera visible. La Revolución vino a interrumpir aquella escalada desnacionalizadora y puso en primer plano el ideal inconcluso de Martí y de los fundadores. Enero de 1959 representó la oportunidad de completar el proyecto nacional y de promover la identidad y la cultura cubanas. El plattismo dentro del país retrocede. No se extingue; pero retrocede.

El cubano experimentó la sensación inesperada de que su acción como pueblo tenía un sentido más allá de la Isla; de que su obra, lo que él hace y construye, es observado y valorado por muchos hombres y mujeres de todas partes. Aquella idea de Martí, que vinculaba las responsabilidades de nuestros independentistas nada menos que con el “equilibrio del mundo”, se hace patrimonio común de los cubanos después de 1959.

Decía Lezama que con la obra de Heredia “es la primera vez que un cubano habla en grande; es la primera vez que un cubano se universaliza, […] que un cubano va más allá de sus fronteras”. Podríamos decir que, con la Revolución, por primera vez Cuba, como nación, se universaliza; por primera vez Cuba, como nación, “habla en grande” y es escuchada.

El apoyo popular a la Revolución Cubana de 1959 fue tan abrumador que “la política norteamericana se vio precisada a establecer las bases sociales de la contrarrevolución en el exterior, donde el plattismo asumirá sus posiciones más extremas, hasta el punto que justificar la intervención militar norteamericana devino el objetivo final de estos grupos”, señaló hace varios años Jesús Arboleya en un análisis  sobre “La influencia de la cultura norteamericana en Cuba”.

Más recientemente, el reforzamiento despiadado del bloqueo y el impacto de la pandemia, hizo reaparecer el fantasma de la Enmienda Platt en una nueva ofensiva contra la Revolución Cubana. El 13 de julio de 2021, en la denuncia que hizo nuestro canciller Bruno Rodríguez Parrilla de la agresión en el plano comunicacional y digital desde los EEUU llevada a cabo contra Cuba, resaltó el componente de  la “intervención humanitaria”. Y, como subrayó el propio Bruno, todo el mundo sabe lo que quiere decir una intervención humanitaria norteamericana  y cuáles son sus consecuencias.

Cuatro días después, el 17 de julio, según el Portal Martí Noticias,  “Organizaciones del exilio cubano y cargos electos de la ciudad de Miami pidieron al presidente Biden que no descarte la intervención militar en Cuba para derrocar al gobierno de la Isla. Los exiliados cubanos emplazan a Biden para que tenga todas ’las opciones sobre la mesa’ sobre Cuba y han recordado que sus antecesores, tanto demócratas  como republicanos, intervinieron en otros países en defensa de la libertad y los Derechos Humanos.”

Al día siguiente, el 18 de julio, según un cable de Europa Press fechado en Madrid, más de 420 mil personas firmaron una petición dirigida a Biden para que lleve a cabo una intervención militar en Cuba.

“Los cubanos libres del mundo pedimos sin equívoco una intervención militar por parte de los EEUU y la OTAN para poner fin a la mafia castrista y liberar al pueblo cubano que vive sumido en el terror, la miseria, el hambre y la coacción. ¡Queremos una Cuba libre y próspera! ¡Abajo el comunismo!”

Aquí nos topamos de nuevo, como puede verse, con la tesis de los “dos caminos”. El de la “libertad” y la “prosperidad” no es otro que el regreso al capitalismo y a la condición neocolonial. Supongo que, aparte de los trolls y los bots, hay algunos cubanos vociferantes y enfermos que quisieran ver a través de sus móviles el espectáculo de un genocidio made in USA en Cuba. Creo que en lo más profundo de sí mismos “no quieren ser cubanos y hasta se avergüenzan y reniegan de serio”. En ellos, como diría Fernando Ortiz, “la cubanidad carece de plenitud, está castrada”.

La “cubanía”, como se sabe, la defendemos la mayoría de los cubanos de la Isla y muchísimos emigrados solidarios, que rechazan el plattismo, el odio y el fascismo. Y nos acompaña gente tan noble y luminosa como la que ha llevado la verdad de Cuba a Los Ángeles, a la Cumbre de los Pueblos.

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