L’assedio navale al centro della strategia USA contro il Venezuela

Ernesto Cazal  https://medium.com/@misionverdad2012

Lo scenario di asfissia economica-finanziaria-commerciale che il governo USA ha imposto alla Repubblica Bolivariana del Venezuela è un altro pezzo del puzzle della strategia di guerra senza restrizioni che sta attuando contro il paese del bacino dei Caraibi.

In particolare, ha ripercussioni sulla carta di navigazione delle navi di proprietà del Venezuela o che intrattengono rapporti commerciali e di altro tipo con lo stato e compagnie private. Per supportare tale agenda di asfissia, la Marina USA ha un dispiegamento multiplo in tutti i punti del pianeta, che funge da polizia militare e mobile specifico per operazioni navali ed esercitazioni militari di diverso tipo.

“Per mare possiamo giungere sul luogo più rapidamente, rimanere lì più a lungo, portare con noi tutto ciò di cui abbiamo bisogno e non dobbiamo chiedere permesso a nessuno”, recita la Strategia di Cooperazione per la Forza Navale del XXI secolo della Marina gringa.

La dottrina a spettro completo del Pentagono contempla una carta bianca per sé e per i suoi alleati più fidati ed una restrizione militare a tutto ciò che naviga con bandiere sanzionate dal Dipartimento del Tesoro o che minaccia in modo militare i suoi piani delineati, così come quelli della stessa Casa Bianca.

Il Venezuela è perseguitato, negli ultimi anni, da questa strategia, che, con il blocco dettato da Washington e le conseguenze che provoca, oltre ad altre operazioni a favore del “cambio di regime”, disegnano un assedio in alto mare ed alle rive delle coste caraibiche.

Il principale obiettivo: l’industria petrolifera

 

Recentemente, l’agenzia Reuters ha riferito che petroliere cariche di petrolio pronte per essere commercializzate “sono intrappolate” da quasi due mesi in alto mare perché “le raffinerie mondiali rifiutano il petrolio del paese sudamericano per evitare di cadere nelle sanzioni USA, secondo fonti industriali, documenti di PDVSA e dati di spedizione”.

Le esportazioni di petrolio di PDVSA sono il principale obiettivo di Washington.

Allo stesso tempo, il Dipartimento del Tesoro include nella lista nera navi e commercianti coinvolti nel commercio e nel trasporto di petrolio venezuelano, minaccia di aggiungere altro alla sua lista di entità “sanzionate”.

Reuters cita i dati di Refinitiv Eikon: “Almeno 16 petroliere che trasportano 18,1 milioni di barili di petrolio venezuelano sono intrappolate nelle acque di tutto il mondo, mentre gli acquirenti le evitano per evitare le sanzioni. Ciò equivale a quasi due mesi di produzione all’attuale tasso di produzione del Venezuela”.

L’agenzia afferma che alcune delle imbarcazioni “sono state in mare per più di sei mesi ed hanno navigato verso vari porti ma non hanno potuto scaricare. I carichi di petrolio raramente vengono caricati senza che abbiano un acquirente. Quelli che sono in acqua senza che nessuno li acquisti generalmente vendono con uno sconto”.

L’onere finanziario per ciascuna petroliera si aggiunge alle grandi perdite man mano che continua il ritardo giornaliero nello scarico del greggio. Il costo di una nave che trasporta petrolio venezuelano è di almeno $ 30000 al giorno.

Le compagnie petrolifere che hanno PDVSA come cliente non sono state in grado di trovare un acquirente a causa delle misure coercitive unilaterali. “Anche i clienti di vecchia data di PDVSA stanno lottando per completare le transazioni consentite sotto sanzioni, per il rimborso del debito o per lo scambio di alimenti”, ha detto a Reuters un dirigente in condizione di anonimato.

Questa è una situazione critica per le esportazioni venezuelane, in un momento in cui la maggior parte dei paesi produttori di petrolio continuano ad avere difficoltà a commercializzare i loro alti inventari in un mercato in eccesso di offerta.

Tutto ciò aiuta gli USA a ridurre l’appetito di molti acquirenti di petrolio venezuelano.

Fondamentalmente ciò che il governo di Donald Trump ha realizzato è organizzare un assedio navale in alto mare sul commercio di greggio venezuelano, impedendo che lo stato guidato da Nicolás Maduro possa fare scorta di valuta estera per rifornirsi di beni e servizi essenziali alla Repubblica Bolivariana ed alla sua popolazione; minando, al contempo, l’industria petrolifera gestita da PDVSA.

Tale obiettivo era chiaro fin dall’inizio, quando Trump ha deciso di emettere un ordine esecutivo, l’anno scorso, che approfondiva il quadro delle “sanzioni” economiche, finanziarie e commerciali contro il Venezuela. Gli ultimi eventi non fanno che confermare la tesi.

Un colpo alla cooperazione commerciale e tecnologica del Venezuela

 

Un mese fa, quando le prime navi provenienti dall’Iran attraversavano l’Atlantico verso la costa caraibica per approvvigionare benzina e tecnologia all’industria petrolifera venezuelana, i portavoce USA avevano minacciato di impedire che scaricassero, attraverso persecuzioni della marina militare ai mercantili iraniani.

Ma una cosa è intimidire un singolo paese ed un altro farlo contro due, specialmente se uno di essi controlla lo Stretto di Hormuz, la principale arteria petrolifera commerciale del mondo, dove uno ogni cinque barili al mondo passano quotidianamente da lì. Ecco perché le petroliere sono arrivate ad attraccare alla loro destinazione senza problemi al di là delle operazioni psicologiche eseguite in modo pessimo.

In questo caso, a causa della dinamica emergente in cui esiste un blocco crescente che sfida l’egemonia anglo-imperiale, non è stata consentita un’efficacia subordinata agli interessi di Washington in relazione alla strategia sanzionatoria.

Ma ciò che accade con altri paesi e società a livello mondiale è un caso molto diverso. Prendiamo ad esempio i mercantili con greggio venezuelano che salpano per la Malesia, Singapore, Indonesia o Togo, paesi in cui la presenza USA è molto forte e che non hanno potuto acquistare petrolio prodotto da PDVSA a causa delle misure coercitive unilaterali della Casa Bianca e della sorveglianza navale della Marina a quelle latitudini.

È in questi casi che viene imposto il coordinamento tra la Marina ed il Dipartimento del Tesoro USA, benché sia in modo informale.

A causa di questa strategia, solo fino a febbraio 2020, il Venezuela calcolava 116 miliardi di $ di perdite per il blocco.

Provocazioni

 

In vista degli ultimi eventi, possiamo concludere che il tanto annunciato blocco navale contro il Venezuela sponsorizzato dall’amministrazione Trump è stato dispiegato in modo non formale. Ora non funziona più frontalmente, come nel 1902, in cui navi tedesche, inglesi ed italiane circondarono il paese allora presieduto da Cipriano Castro, o anche come lo fecero contro Cuba, negli anni ’60, quando gli USA determinarono che la sovranità insulare non poteva erigersi nel suo “cortile”.

All’inizio di aprile era cominciata una nuova fase di escalation in quanto al blocco navale con le “operazioni antidroga” dispiegate nell’Emisfero Occidentale dalla Marina USA aprendo spazio per le operazioni psicologiche su larga scala nei Caraibi e per il coordinamento di forze ed intelligence del Comando Sud con i paesi partner del Pentagono, in particolare Colombia e Brasile.

In questo contesto, si dovrebbe anche intendere la navigazione di un cacciatorpediniere della Marina USA vicino alle coste venezuelane, lo scorso martedì 23 giugno, che il generale Vladimir Padrino López, ministro della difesa venezuelano, qualificava come “un atto di provocazione”.

Padrino López ha avvertito che se avvengono operazioni navali USA nelle acque venezuelane ci sarà una risposta “forte” da parte delle Forza Armata Nazionale Bolivariana. “Non si arrischino con le loro navi da guerra a navigare nelle nostre acque giurisdizionali, per esercitare operazioni militari”, ha aggiunto il generale.

Sebbene le provocazioni siano una tattica che l’esercito navale USA sia solito utilizzare contro i suoi avversari, attraversando i confini marittimi stranieri non solo nei Caraibi ma in altre parti del mondo (come il Mar Cinese Meridionale o lo stesso Golfo Persico) in genere i generali gringo autorizzano questo tipo di operazioni per raccogliere informazioni di intelligence e disturbare l’avversario. Sotto quali obiettivi: militari, commerciali o persino entrambi?

Indubbiamente, la pressione del Comando Sud e dei suoi cacciatorpediniere che si aggirano per i Caraibi, combinata con la strategia del Dipartimento del Tesoro, disegnano un assedio in alto mare e sulle rive delle coste che mette in allerta la Repubblica Bolivariana e danneggia economicamente la maggioranza, (di noi) che viviamo in Venezuela.


El cerco naval en el centro de la estrategia estadounidense contra Venezuela

Por Ernesto Cazal

El escenario de asfixia económica-financiera-comercial que impuso el gobierno de los Estados Unidos a la República Bolivariana de Venezuela es una pieza más del rompecabezas en la estrategia de guerra irrestricta que lleva a cabo contra el país de la Cuenca del Caribe.

En específico, tiene repercusiones en la carta de navegación de los barcos que son de Venezuela o tiene relaciones comerciales y de otros índoles con el estado y empresas privadas. Para respaldar tal agenda asfixia, la Armada estadounidense tiene un despliegue múltiple en todos los puntos del planeta, que funciona como policía militar y móvil destacado para operaciones navales y ejercicios militares de distinto tipo.

“Por mar podemos llegar al lugar con mayor rapidez, quedarnos allí por más tiempo, llevar con nosotros todo lo que necesitamos y no tenemos que pedirle permiso a nadie”, reza la Estrategia de Cooperación para la Fuerza Naval del Siglo XXI de la Armada gringa.

La doctrina de espectro completo del Pentágono contempla una patente de corso para sí mismo y para sus aliados de mayor confianza, y una restricción militar a todo lo que navegue con banderas sancionadas por el Departamento del Tesoro o que amenaza de manera castrense sus planes trazados, así como los de la Casa Blanca propiamente.

Venezuela está siendo acosada en los últimos años por dicha estrategia, que con el bloqueo dictado por Washington y las consecuencias que suscita, más otras operaciones a favor del “cambio de régimen”, trazan un cerco en alta mar y a orillas de las costas caribeñas.

El principal objetivo: la industria petrolera

Recientemente, la agencia Reuters reportó que petroleros con cargamento de petróleo listos para ser comercializados “están atrapados” desde hace casi dos meses en alta mar debido a que “las refinerías mundiales rehuyen del petróleo del país sudamericano para evitar caer en las sanciones de Estados Unidos, según fuentes de la industria, documentos de PDVSA y datos de envío”.

Las exportaciones de petróleo por parte de PDVSA son la principal diana de Washington.

Al mismo tiempo que el Departamento del Tesoro incluye en una lista negra a barcos y comerciantes que se involucran en el comercio y el transporte del petróleo venezolano, amenaza con agregar más a su lista de entidades “sancionadas”.

Reuters cita los datos de Refinitiv Eikon: “Al menos 16 petroleros que transportan 18,1 millones de barriles de petróleo venezolano están atrapados en aguas por todo el mundo, mientras compradores los evitan para evitar las sanciones. Eso equivale a casi dos meses de producción a la tasa de producción actual de Venezuela”.

Cuenta la agencia que algunas de las embarcaciones “han estado en el mar durante más de seis meses y han navegado a varios puertos pero no han podido descargar. Las cargas de petróleo rara vez se cargan sin que tengan un comprador. Los que están en el agua sin tener quien los adquiera generalmente venden con un descuento”.

La carga financiera de cada petrolero suma grandes pérdidas a medida que continúa el retraso diario en la descarga de crudo. El costo de un barco que transporta petróleo venezolano es de al menos 30 mil dólares por día.

Las compañías petroleras que tienen como cliente a PDVSA no han podido conseguir comprador a raíz de las medidas coercitivas unilaterales. “Incluso los clientes de larga data de PDVSA están luchando para completar las transacciones que están permitidas bajo sanciones, para el pago de la deuda o el intercambio de alimentos”, señaló un ejecutivo bajo condición de anonimato a Reuters.

Esta es una situación crítica de las exportaciones venezolanas, en un momento en el que la mayoría de los países productores de petróleo continúan teniendo dificultades para comerciar sus altos inventarios en un mercado sobre abastecido.

Todo ello ayuda a Estados Unidos a que disminuya el apetito de muchos compradores por petróleo venezolano.

Básicamente lo que ha logrado el gobierno de Donald Trump es montar un cerco naval en alta mar sobre el comercio de crudo venezolano, evitando que el estado liderado por Nicolás Maduro pudiera surtirse de divisas para abastecerse de bienes y servicios esenciales a la República Bolivariana y su población, minando al mismo tiempo la industria petrolera gestionada por PDVSA.

Dicho objetivo estaba claro desde el principio, cuando Trump decidió emitir una orden ejecutiva el año pasado que profundizaba el cuadro de “sanciones” económicas, financieras y comerciales contra Venezuela. Los últimos acontecimientos lo que hacen es confirmar la tesis.

Un golpe a la cooperación comercial y tecnológica de Venezuela

Hace un mes, cuando los primeros barcos provenientes de Irán cruzaban el Atlántico hacia la costas del Caribe para aprovisionar con gasolina y tecnología a la industria petrolera venezolana, los voceros de Estados Unidos habían amenazado con evitar que descargaran a través del acoso de la Armada a los cargueros iraníes.

Pero una cosa es intimidar a un solo país y otra hacerlo contra dos, sobre todo si uno de ellos controla el Estrecho de Ormuz, la principal arteria comercial de petróleo en el mundo, donde uno de cada cinco barriles en el mundo pasan diariamente por allí. Es por ello que los cargueros llegaron a atracar a su destino sin problemas más allá de operaciones psicológicas pésimamente ejecutadas.

En este caso, debido a la dinámica emergente en el que existe un bloque en ascenso que reta a la hegemonía angloimperial, no se permitió una efectividad subordinada a los intereses de Washington con relación a la estrategia sancionatoria.

Pero lo que sucede con otros países y empresas a nivel mundial es un caso muy diferente. Pongamos por ejemplo los cargueros con crudo venezolanos que zarparon hacia Malasia, Singapur, Indonesia o Togo, países donde la presencia estadounidense es muy fuerte y que no han podido comprar petróleo producido por PDVSA a raíz de las medidas coercitivas unilaterales de la Casa Blanca y la vigilancia naval de la Armada en esas latitudes.

Es en estos casos donde se impone una coordinación de la Armada y el Departamento del Tesoro de los Estados Unidos, aunque sea de manera informal.

Debido a esa estrategia, nada más hasta febrero de 2020 Venezuela calculaba 116 mil millones de dólares en pérdidas por el bloqueo.

Provocaciones

Vistos los últimos acontecimientos, podemos concluir que el tan anunciado bloqueo naval contra Venezuela auspiciado por la Administración Trump ha sido desplegado de manera no formal. Ya no funciona de manera frontal como en 1902, en el que buques alemanes, ingleses e italianos, cercaron el país entonces presidido por Cipriano Castro, o incluso como lo hicieron contra Cuba en la década de 1960, cuando Estados Unidos determinó que la soberanía insular no podía erigirse en su “patio trasero”.

A inicios de abril había comenzado una nueva fase de escalamiento en cuanto al bloqueo naval con las “operaciones antinarcóticos” desplegadas en el Hemisferio Occidental de la Armada estadounidense, abriendo espacio para las operaciones psicológicas a gran escala en el Caribe y para la coordinación de fuerzas e inteligencia del Comando Sur con países socios del Pentágono, sobre todo Colombia y Brasil.

En ese marco es que debe entenderse, asimismo, la navegación de un barco destructor de la Armada estadounidense cerca de las costas venezolanas el pasado martes 23 de junio, lo que el general Vladimir Padrino López, ministro de Defensa venezolano, califica como “un acto de provocación”.

Padrino López advirtió que si ocurren operaciones de barcos estadounidenses en aguas venezolanas habrá una respuesta “contundente” de la Fuerza Armada Nacional Bolivariana. “No se atreva con sus buques de guerra a navegar en nuestras aguas jurisdiccionales, a ejercer operaciones militares”, agregó el general.

Si bien las provocaciones son una táctica que el ejército naval estadounidense suele usar contra sus adversarios, cruzando límites marítimos ajenos no solo en el Caribe sino en otros puntos del mundo (como el Mar del Sur de China o el mismísimo Golfo Pérsico) generalmente los generales gringos autorizan este tipo de operaciones para recabar información de inteligencia e inquietar al contrario. ¿Bajo cuáles objetivos: militares, comerciales o incluso ambos?

Sin duda, la presión del Comando Sur y sus destructores merodeando por el Caribe, combinado con la estrategia del Departamento del Tesoro, dibujan un cerco en alta y a orillas de las costas que pone en alerta a la República Bolivariana y lesiona económicamente a las mayorías que vivimos en Venezuela.

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